L'ospedale dei libri veneziani

Volumi, documenti, vecchissimi giornali. Salvare la carta dall’acqua è una corsa contro il tempo. Viaggio nel laboratorio di Pietro Livi, dove non si conserva solo la memoria, ma il nostro spirito

Marco Archetti

“Tutto si può salvare.” Lo dice così, Pietro Livi, un po’ come premessa e un po’ come conclusione, con l’aria quieta di chi è abituato a fronteggiare il disastro e a cavalcare la bufera, a indagare le cause e a domare gli effetti senza temere e senza sottovalutare. Mentre ti guarda da dietro le lenti dei suoi occhiali, sai che non ti sta mentendo. E lo sai perché ciò che dice non si limita a dirlo e basta: lo emana. E poi ha l’aria di uno che sta dove deve stare, cioè dove è sempre stato e dove presumibilmente per sempre starà, il che gli dà una statura vagamente patriarcale mentre si aggira tra centinaia di faldoni che contengono tonnellate di carta sommersa e salvata, liofilizzata e ricondizionata. A un certo punto, camminando in lungo e in largo per i suoi due capannoni, si guarda intorno e constata: “I debiti sono i miei migliori amici. Anche se il mio commercialista dice che per carità, si chiamano investimenti”. Ed è proprio in quel momento, mentre sorride, che capisci che Pietro Livi è un uomo, un uomo serio e di buona volontà, un artigiano di vasta visione e un imprenditore di coraggio non comune.

  

È presidente di quella Frati & Livi che, nata nel 1975 come legatoria e votata al restauro e che oggi è uno dei principali centri di ricerca sul tema

Presidente di quella Frati & Livi che, nata nel 1975 come legatoria e votata al restauro solo dopo il suo ingresso societario (“salvaguardia dei Beni culturali in aree di crisi” snocciola il sito, e “restauro di legature monastiche, atti notarili, legature in cuoio e recupero pergamene e mappe acquerellate”) si è qualificato negli anni come il più importante punto di riferimento in materia di ricerca e trattamenti di massa, ossia di grandi quantitativi di libri, documenti e atti, compresi vecchi e vecchissimi giornali.

 

Il suo laboratorio è, in poche parole, il più grande ospedale in cui si possa ricoverare tutta la moltitudine cartacea aggredita da terremoti, frane e allagamenti. “Ospedale è il termine giusto”. E rilancia: “In giro è pieno di ambulatori, per carità, non è che ci sia il deserto... Però magari fanno solo spolveratura, solo restauro o asciugatura. Noi invece abbiamo tutto e tutto il resto, cioè spazi e impianti idonei. In più, facciamo ricerca e vendiamo soluzioni. Abbiamo lavorato col Vaticano, con gli Uffizi, con il Louvre, con il Prado, con fondazioni e banche. Il nostro personale è altamente qualificato, io insegno all’Accademia di Belle Arti e alcuni dipendenti sono stati miei ex studenti. Lo vede questo faldone? E’ un nostro brevetto europeo. Questo cartone, tra trecento anni, sarà esattamente come adesso”.

   


Foto ©Enrico Cicchetti / Il Foglio


    

Ed è così che il Pietro Livi terreno torna il Pietro Livi con valenza spirituale – diciamo pure il Livi Taumaturgo – e seppur ti parli di cartoni microondulati vantando l’uso di pochissima colla, seppur si muova tra antichi testi avvolti in prosaiche garze e cartellini recanti didascalie di servizio del tipo “Carta Giap Candash 510, colla d’amido”, ecco che, intorno, tutto diventa un poco magico. E sarà la suggestione di sapersi circondati da spartiti settecenteschi e carteggi antichissimi, ma a un tratto il capannone si fa capanna, trasfigurandosi in luogo di sapienze arcaiche, fucina mitologica dell’Eterno Cartaceo. Ma Livi è mille Livi, infatti è già un altro, e subito plana a terra riappropriandosi delle spoglie di uomo pratico, di apostolo della techné. “La completezza e l’autorevolezza del lavoro che offriamo ci impone la necessità di conoscere e di sapere. Senza un serio know-how a livello microbiologico, per esempio, puoi fare asciugatura finché vuoi, ma se le muffe hanno attecchito, addio. Con l’alluvione di Firenze successe così e si riuscì a salvare molto meno di quel che riusciremmo a fare adesso, la tecnologia non era ancora all’avanguardia. Il nostro lavoro è cambiato da quel momento. Adesso sappiamo che servono capacità e conoscenze complete, non solo quelle ultra specifiche. Noi le abbiamo costruite perché non ci riposiamo nemmeno in tempo di pace e facciamo di continuo formazione. Studiamo e ci dedichiamo alla ricerca. Insomma, cerchiamo di migliorarci e di non perdere tempo”.

   

“La carta, di tempo, non te ne dà. Men che meno la carta che come nel caso dell’alluvione di Venezia ha bevuto 650 litri d’acqua”

Tempo è la parola chiave di questa storia. C’è un Livi pragmatico e lapidario che, in proposito, parla molto chiaro: “La carta, di tempo, non te ne dà. Men che meno la carta che come nel caso dell’alluvione di Venezia del 12 novembre ha bevuto 650 litri d’acqua”. Ovviamente non si tratta di carta qualunque, ma di quella preziosissima delle partiture originali seicentesche donate al Conservatorio Benedetto Marcello, ospitate in una splendida sala dotata di paratie rialzate e sopravanzate dall’allagamento per soli sette, decisivi centimetri: perché se la carta non dà tempo, l’acqua si fa spazio. E sa essere spietata. Il danno avrebbe potuto essere incalcolabile, se… E qui Livi prende la rincorsa e fa suo un orgoglio di sistema che in Italia sembra sempre più raro. Perché grazie alla fiducia e a una lucida unione d’intenti tra la Sovrintendenza, i tecnici della Biblioteca marciana, i responsabili dell’Archivio del Conservatorio, i tanti studenti volontari e il suo laboratorio intervenuto come operatore di restauro volontario in emergenza CHIEF (Cultural Heritage International Emergency Force, una delle quattro associazioni riconosciute dall’Unesco) si è riusciti a conseguire un risultato letteralmente straordinario: in soli quattro giorni tutto il materiale è stato messo in sicurezza. “Il processo solitamente se ne mangia quindici, ma in questo caso no, siamo stati velocissimi. L’alluvione ha fatto danni il martedì? Il materiale era presso di noi già sabato, pronto a essere immediatamente congelato perché si interrompesse il processo di degrado microbiologico. Dirò di più: l’Archivio della Fondazione Querini era al sicuro addirittura venerdì. Attualmente abbiamo in casa circa 13.000 tra volumi e carteggi, e possiamo affermare con gioia che non si è perso nulla. Entro fine anno riconsegneremo tutto”. Ha occhi che brillano di consapevolezza, Pietro Livi. Poi annuncia di volerci presentare Titti. Ma prende tempo per un’ultima, suggestiva informazione. “La carta è resistentissima, più del cuoio e del legno, e si lascia lavorare più di altri materiali. Ma bagnata è la più fragile.”

  

“Attualmente abbiamo in casa circa 13.000 tra volumi e carteggi, e non si è perso nulla. Entro fine anno riconsegneremo tutto”

Titti è la superstar: il liofilizzatore. Si tratta di un sottomarino giallo, un missilone che, mentre Livi preme un pulsante, ci rivela le sue interiora di ferro. “Questo investimento fu una vera e propria follia, all’epoca in cui lo proposi. Impegnai il 60 per cento del bilancio di un anno. Si informi, in giro, se c’è un imprenditore che abbia voglia di impegnarsi in questa proporzione. Se lo trova, b… quello è un matto!”, ride il Livi che matto non è e non è mai stato, Livi che l’ha scampata perché sapeva di scamparla e perché aveva già capito tutto prima di capirlo, come da proverbiale fiuto di fuoriclasse. “Attualmente contiene tutto il materiale della Fondazione Querini. Queste le fasi del processo: prima abbiamo avvolto tutti gli esemplari in garze per contenere l’imbarcatura che si genera durante questa fase, poi Titti ha fatto il vuoto fino a 2 millibar. Vede?” – ma vede soprattutto lui che sa, lui che ama ogni singolo ingranaggio – “Nei suoi canalini scorre liquido a meno trenta, poi quando tutto è ghiacciato il vuoto viene mantenuto e il flusso invertito. E si reimmette il liquido a sessanta gradi. In sostanza il liofilizzatore trasforma il ghiaccio in vapore acqueo senza passare dallo stato liquido. Un vero e proprio processo di sublimazione, di evaporazione fredda”. Poi apre una pesante porta di ferro, da scantinato, e mostra i motori del suo dispositivo, indicando viscere meccaniche e continuando a descriverle con dimestichezza più che disinvolta. Ed è là – tra condensatori e radiatori e tubi, nella buia sala macchine come un capitano orgoglioso della sua nave – che Pietro Livi prende nuova forma, sublimandosi anch’egli ma in creatura letteraria: e per un attimo è un capitano conradiano che sfida il possibile e attraversa le linee d’ombra della dissoluzione materiale cartacea.

   

Foto ©Enrico Cicchetti / Il Foglio


 

Ma non è finita. Perché il processo che sta raccontando, a quel punto, è solo all’inizio. Dopo la liofilizzazione tocca ai deumidificatori, quindi alla pressatura (fatta a mano con una macchina originale del Settecento: mentre la manovra, Livi si modifica ancora una volta e prende le sembianze di un’apparizione gutenberghiana), poi alla spolveratura necessaria quando si deve lottare contro detriti, fango o liquami, e infine al ricondizionamento con materiale certificato per la lunghissima conservazione. Ancora il tempo, bestia ancipite: alleato e nemico. “E’ questo il vero problema. Lavorando in questo settore dobbiamo accettare procedure ridondanti. Ed essere ridondanti è peggio che esser lenti. Le trafile, a volte, sono penose. E lavorando con patrimoni pubblici, le regole che governano una gara di restauro sono le stesse che valgono per la ricostruzione del ponte Morandi, con tutto il peso che questo comporta. Poi per fortuna noi emiliani ci sappiamo fare. Per noi lavorare in gruppo è una vocazione, accettiamo la competenza altrui senza gelosie perché siamo provinciali nel senso nobile della parola e sappiamo unire le forze. Ma spesso soffriamo il groviglio di burocrazia, presunzione e incomunicabilità che imbriglia il nostro lavoro. Mentre in questi interventi servono tempi di reazioni immediati, i contrattempi sono sempre in agguato e sono un’altra spina nel fianco”. Ma tutto si può salvare, no? “Certo. Ma lo decidono i costi”.

  

“Con l’alluvione di Firenze si riuscì a salvare molto meno di quel che riusciremmo a fare adesso, la tecnologia non era all’avanguardia”

La storia di Pietro Livi è ricchissima e imprevedibile, fatta di vocazione semireligiosa più talento manageriale. “Mi sono diplomato al liceo nel 1982. Il professore di religione era mio zio, un priore benedettino. Negli anni dell’alluvione di Firenze tanti benedettini diedero una mano e contribuirono a trasformare il restauro in un mestiere. Mio zio era tra questi. Priore in Santo Stefano, convinse un monaco di Cesena ad accogliermi per imparare il mestiere, così sono andato a bottega e per tre anni ho fatto vita di convento, ora et labora…” E di colpo, qui, il Livi asceta si secolarizza, riprende corpo e in un soprassalto di bolognesitudine strizza l’occhio e ricorda: “…poi nel week end tornavo a casa e mi sfogavo, avevo la ragazza e tutto.” Ma repentinamente ritorna uomo di pensiero: “In convento ho conosciuto il più grande amico che un uomo possa avere: il silenzio.” Tutto il resto è curriculum: la chiamata della famiglia Frati, l’ingresso nella compagine societaria, lo studio e la formazione, gli esami a Roma e il primo lavoro di una certa entità quando il 18 aprile del 2002 a Milano un aereo da turismo si schiantò contro il Pirellone e il Fondo archivistico andò a fuoco. E un consiglio mai dimenticato. “Devo dire la verità: di Berlusconi! Io non l’ho mai amato politicamente, lo ammetto, ma ho fatto mio un suo consiglio imprenditoriale. Una volta gli ho sentito dire: ‘Tutto quel che ho guadagnato l’ho reinvestito’. Io anche”.

     

Poeta pragmatico, filosofo anti-apocalittico e domatore di eterogenesi disastrose (“Una volta si allagò la biblioteca dell’Università di Bologna per la rottura di un tubo antincendio: ha idea di quanti danni sono causati dal cattivo funzionamento dei dispositivi di sicurezza?”), Pietro Livi è umile e orgoglioso allo stesso tempo, pacato e determinato, equilibrato ed entusiasta. Ed è impossibile non credergli quando dice: “Io mi alzo alla mattina e non vedo l’ora di venire a lavorare. Per questo ringrazio Dio. E poi sono stato scout e Baden Powell diceva che un buon scout deve saper lasciare un posto meglio di come l’ha trovato, no? Be’, io ci pensavo proprio qualche giorno fa…”. Improvvisamente balza in piedi, raggiungendo un tavolone su cui giacciono centinaia di copie piuttosto male in arnese di Gazzettini veneti degli anni trenta e quaranta. “Guardi, guardi, venga…”. Li sfoglia, li carezza, li saggia e indugia un momento tra pagina e pagina godendosi la buffa parata delle sproporzioni narrative tra cronaca e politica – si va da “La questione degli ebrei in Palestina” a “Travolto e ucciso da un carretto a Fratta Polesine”. Quindi si fa serio e indica un articolo che riporta i contenuti di una conferenza stampa di Joseph Goebbels. “A tutti i negazionisti che ci sono in giro basterebbe dire: leggete qua, questa è Storia. E allora sa cosa penso? Che noi, nel nostro piccolo, ci occupiamo di una manutenzione che non è solo conservativa di un materiale, e che a volte c’è in ballo anche di qualcosa di più importante”. Poi, per un momento, è come se parlasse solo a se stesso. “Perché tutto si può salvare. Ma molto… molto si deve”.