Campionario gotico

Da Jules Verne alle serie tv. È l'eterno ritorno dei vampiri

Giuseppe Marcenaro

Bram Stoker ha dato il via a infinite metamorfosi cinematografiche di Dracula. Eppure l’allegoria dei succhiasangue è globale e antica. Vengono dal regno dei morti e si nutrono dell’essenza della vita

Avevano insistito fin all’estremo per convincermi ad accompagnarli nella loro insensata quanto inutile ricerca. Dicevano che ad attirarli da quelle parti era la curiosità. Pareva che un loro bisnonno, o qualcosa del genere, di cui non si sapeva quasi niente, a un certo punto, abbandonando moglie e progenie, fosse partito dicendo che sarebbe andato a Timisoara. La discendenza sperava di lui trovare tracce andandole a cercare. Forse erano attratti dalla sinuosità del nome Timisoara, e l’ipotesi di fare un viaggetto nella mitizzata zona del Carpazi. Dicevano, inoltre che proprio la città dove s’era sbandito l’avo era stata la prima città europea ad avere i lampioni elettrici… Va a vedere la curiosità. E che viaggio per viaggio avremmo anche potuto andare a dare un’occhiata in Transilvania. Dietro a quella proposta, in realtà, stava la voglia di gettare uno sguardo nei luoghi in quegli anni diventati di dominio comune a seguito di un film furoreggiante Dracula il vampiro, con Chistopher Lee, superbo interprete del non-estinto. Il celebrato film che aprì alla gran moda del vampirismo cinematografico in tutte le sue declinazioni, discendeva direttamente da “Dracula”, il romanzo dello scrittore irlandese Bram Stoker, pubblicato per la prima volta nel 1897.

 


Immagine tratta dal film “Dracula di Bram Stoker” di Francis Ford Coppola


 

La fortuna del Dracula di Bram Stoker e delle sue infinite metamorfosi cinematografiche ci ha fatto dimenticare che la storia del vampiro ha origini antiche, radici che affondano nelle superstizioni dell’Europa orientale, cui l’Illuminismo ha dato sostanza e prima che il Romanticismo sostanziasse il vampirismo in sogni e incubi. In romanzi.

  


La fortuna del Dracula di Bram Stoker ci ha fatto dimenticare che il vampiro ha origini antiche, nelle superstizioni dell’Europa orientale. Il Vampiro, il Conte Dracula del romanzo, è passabilmente ispirato a un personaggio reale, Vlad III della dinastia Draculestii


 

Una storia del vampiro, ci restituisce la pienezza di significati che gli è propria: scientifici, culturali, religiosi, simbolici. La mitografia hollywoodiana ne ha appiattito la figura, in favore di una sensualità che, a ogni nuovo adattamento, smarrisce qualcosa del sentire perturbante da cui è scaturita. I vampiri di oggi aprono a una nuova visione, spaventosa ed eccitante, che depista cui dalle inestricabili visioni, fra leggenda e religione, che hanno portato alla nascita di un archetipo immortale.

 

 

Molto del merito dello scenario vampirologo va sicuramente a Bram Stoker, ma ancora prima, a far scoprire il fascino tenebroso della Transilvania, era stato Jules Verne con il suo “Il Castello dei Carpazi” che pubblicato nel 1892, sorprese lettori e critici. Nella cornice naturale di valli, montagne e pietraie, dove le superstizioni, i soprassalti e gli spaventi la fanno da padrone, si staglia un castello che incute un “terrore contagioso”. Fra le sue mura e nelle terre circostanti, con il buio, strane presenze cominciano ad aleggiare, sotto forma di voci e suoni sovrumani. Nel romanzo di Verne, il personaggio Orfanik, uno “scienziato incompreso”, un Dracula ante litteram con il suo volto pallido e sottile, i lunghi capelli grigiastri, lo sguardo scintillante in fondo alle orbite nere, coltiva illusioni maniacali e si difende dal mondo. Melodramma, esoterismo, avventura nell’avventura, soprannaturale, fantascienza, horror sono mescolati in questa narrazione che dà inizio ad una lunga serie coniugabile al genere definito gotico.

 

Ma prima dei due “esegeti” vampirolghi, cioè prima di Verne e Stoker, il “mito” era già entrato nella letteratura con il racconto The Vampire di John William Polidori, che diffuse inquietudine fin dal 1819.

Con i miei amici, ormai infervorati di compiere un tuffo nel mistero, si decise di intraprendere la “gita”. Avremmo certo dato un’occhiata a Timisoara, così per almeno simbolicamente porgere un saluto all’ombra dell’avo loro, ormai scomparso chissà da quanto e dove, per poi proseguire assolutamente verso Bran (o Braşov) la cittadina sovrastata da un maniero identificato come “il castello di Dracula” dove la fervida immaginazione di Stoker aveva ambientato il suo romanzo. Luogo che per altro lo scrittore mai vide. Né mai visitò, a quanto sembra, la Transilvania che raccontò come la regione più misteriosa d’Europa. Che tale, in certo qual senso, può anche apparire, attraversandola. Lasciando ovviamente libera l’immaginazione. D’altra parte le montagne e le valli e le gole rinserrate che, per raggiungere la cittadina di Bran, la strada attraversa, costeggiando impenetrabili foreste, fitte e nere, delle quali non si percepisce la fine, gli ineffabili silenzi, un deserto arboreo dove non si incontra anima viva. Uno scenario non è certo rassicurante. Un minimo di inquieto subbuglio si finisce col provarlo. Anche se ci si ripete che Dracula non è mai esistito se non nella visione fantasmatica di Stoker e dei suoi epigoni che hanno coniugato “il personaggio” nelle più orrorifiche declinazioni.

Il Vampiro, il Conte Dracula, quello del romanzo di Stoker è passabilmente ispirato a un personaggio reale, Vlad III della dinastia Drăaculesștii, truce sovrano della Vallacchia. Noto come l’Impalatore, dal supplizio che comminava ai nemici, visse nell’attuale Romania nel Quindicesimo secolo ed è tuttora considerato dai rumeni una specie di eroe nazionale per aver respinto l’invasione ottomana. Dato il tipo, leggende o finzioni romanzesche a parte, se non altro per dare un’occhiata all’avita dimora di Vlad l’Impalatore, un giro nel castello di Bran varrebbe comunque la pena. Epperò l’invitto maniero non appartenne mai al sanguinario Vlad, né per i garbugli degli alberi genealogici un Drăculeștii, versus Dracula, pare vi abbia mai messo piede. Eppure nel suo cupo neogotico e i suoi oltre seicento anni di storia il castello, sovrastando l’abitato di Bran, esercita un fascino sinistro, specialmente sorprendendolo e scorgendolo per la prima volta all’imbrunire. Come immaginabile, con il bagaglio di informazioni orrorofiche, tutto si gioca ovviamente nella mente.

 

A Bran eravamo arrivati appunto verso sera. Le ombre allungate. L’hotel comunque accogliente dall’aria rassicurante. La sala del ristorante tipica, come la presenterebbe un invitante depliant turistico: tavoli in legno rustico, panche, il camino acceso e schioccante. Insomma l’atmosfera “giusta”. Fu durante la cena, di succulenti specialità locali, accompagnate dall’ineffabile Gurkensalat, mentre un figurante in abito tzigano, girando per la sala, sviolinava con fervido ardore quel che sembrava una mazurka, diffondendo tra i commensali un frizzante incontenibile brio, che scoprii, non vista prima, in un angolo in penombra, pendere dalla parete una treccia di teste d’aglio. Possibile che con quell’“emblema” si premunissero nel caso il vampiro annidato nel castello scendesse a fare qualche improvvisata? A dire il vero anche dietro alle porte delle camere era appesa una treccia d’aglio. Una autentica precauzione o un ammiccante gioco con i turisti attirati in quel luogo dalla sinistra fama? L’aglio è uno degli antidoti capaci di far indietreggiare entità redivive. Così la “scientifica” tradizione.

 


Esoterismo, soprannaturale, fantascienza, horror sono mescolati in questa narrazione che dà inizio al genere definito gotico. Il “terrore contagioso” raccontato da Jules Verne nel suo “Il Castello dei Carpazi”, pubblicato nel 1892, che sorprese lettori e critici


 

Ma anche la rosa canina, il biancospino e soprattutto la verbena avrebbero il potere di tener lontani i vampiri. Persino i semi di senape sparsi sul letto frenerebbero malevole e truci intenzioni. Li bloccherebbe ovviamente il crocifisso e due bastoni branditi a croce. Ma è la luce, come noto i vampiri sono attivi la notte, a renderli vulnerabili. Il sole li “uccide”, riducendoli in polvere. “La luce del giorno mi ferisce gli occhi”, si lamenta dolorosamente il Nosferatu di Herzog, remake del Nosferatu di Murnau girato nel 1922, una autentica sinfonia dell’orrore, prototipo delle numerose opere cinematografiche dedicate alla figura del conte Dracula.

 

Quando si palesano i vampiri recano gelidi soffi dell’aldilà… Propalano le angosce da cui sono pervasi e cercano compagni di sventura in grado di condividerle: “Il tempo è un abisso profondo come lunghe infinite notti… I secoli vengono e vanno… Non avere la capacità di invecchiare è terribile… La morte non è il peggio; ci sono cose molto più orribili della morte. Riuscite a immaginarlo? Durare attraverso i secoli sperimentando ogni giorno le stesse futili cose…”. Sono le tragiche confessioni di Dracula: un nome che non suona come un urlo di morte a mezzanotte? Non pronunciatelo forte, o le immagini della vita svaniranno nelle ombre, e gli incubi aumenteranno e si nutriranno del vostro sangue. “Non avere fretta, mio giovane amico! Nessuno sfugge al proprio destino”. Raccomandazioni di un “pietoso” vampiro avanti di avventarsi al collo del mortale individuato e succhiargli il sangue, l’essenza della vita.

 

Il vampiro e la vampirologia al fondo, ma molto al fondo delle cupezze dell’animo, a una mente sana e non perversa dei letterati che il mito del non-estinto hanno coccolato e diffuso, altro non potrebbe essere che la raffigurazione di un potente strumento per dare un senso alla tragedia umana, come viene evocato da Nick Groom, “Vampiri” (Il Saggiatore, pag. 388, € 25 euro) “Il libro più autorevole sulla storia dei vampiri”. Che potrebbe essere parafrasato come “il libro più autorevole sulla storia delle umane paure”.

 

I vampiri di Groom sono creature gelide, non ancora affossate dal peso dell’estetica gotica (come dire non transustanziati da fantasie letterarie). Quando appaiono, sulla soglia di un sogno inquieto, ci colgono di sorpresa. Non ce li saremmo mai immaginati così. In effetti, presa la cosa a spanne, “i poveri vampiri” altro non sono che l’individuale immagine mentale che ognuno avrebbe dei revenants, i non morti, profondamente adombrata dai mutamenti nella definizione soggetta al cambiamento d’ogni contingenza umana. In effetti quando si evocano, i vampiri, quali sinistri rinnegati, smascherano i fondamentali problemi e le ansie individuali e soprattutto dell’epoca. Additano, quali vagabondi esperimenti, i giochi di potere e le inquietudini del presente. Lungo i tempi la saga dei succhiasangue con allegorie fantasmatiche attraversano la storia umana nella sua globalità.

 


Nick Groom e “il libro più autorevole sulla storia delle umane paure”. I vampiri come creature gelide, non ancora gotiche. La credenza in certe leggende divenne così persuasiva da causare isteria di massa e pubbliche esecuzioni di “vampiri”


 

A questo punto bisogna pur dare ragione donde venga questa superba presenza-assenza d’un “essere” che seminando orrore e terrore “popola” le notti dei viventi e “sopravvive” dell’essenza vitale, ovviamente il sangue, di altre creature. E quel che con soprassalti e compiaciute esaltazioni ha alimentato la letteratura, chiamiamola del genere horror, l’animo del lettore viene un poco placato dal libro di Groom che dell’ineffabile non-estinto squaderna alberi genealogici e biografie internazionali: asettiche e distaccate, comparabili a una voce della più affidabile enciclopedia.

 

Nonostante entità di tipo vampirico siano diffuse in numerose culture ed epoche, il termine “vampiro” divenne popolare solo agli inizi del XVIII secolo, a seguito all’influenza delle superstizioni presenti nell’Europa dell’est e nei Balcani, dove le leggende sui vampiri erano molto diffuse, sebbene “il nostro” fosse noto anche con altri termini, come βρυκόλακας vrykolakas in Grecia e strigoi in Romania. La superstizione nei confronti dei vampiri crebbe a tal punto da far nascere una grave isteria collettiva che in alcuni casi portò a piantare paletti nei cadaveri e ad accusare di vampirismo certe persone strane nell’aspetto e nei comportamenti. Sempre la storia del diverso.

 

Donde venga l’esatta etimologia del termine vampiro ovviamente non è chiara. Tuttavia, è ragionevole pensare che possa derivare dal serbo vampir, successivamente passato al tedesco Vampir, al francese vampyre, all’inglese vampire (la cui prima apparizione del termine nell’Oxford English Dictionary risale al 1734) e all’italiano vampiro. Un’altra teoria, meno popolare, sostiene che il termine slavo derivi dal turco ubyr, che significa “strega”. In russo antico, il vampiro è detto inoltre УпирьUpir’.

 

L’idea, il vagheggio e l’immaginario di vampirismo esiste da millenni, dev’essere nata all’albore del mondo alla prima umanissima percezione che s’accompagna al tremore dell’inspiegabile umanissimo tracollare che è la paura. E già. Non dalle caverne che dei tremori e dei terrori di ombre e altre inspiegabilità percepite è rimasta traccia, ma già in culture evolute quella mesopotamica, ebraica, greca e romana si concepirono demoni e spiriti che possono essere considerati precursori dei moderni vampiri. In tutte le leggende di ogni civiltà passata e presente però, i diversi tipi di vampiri vengono tutti accomunati da una caratteristica chiave, cioè quella di nutrirsi in difforme maniera dei loro simili. Ad ogni modo, nonostante la presenza di creature simili ai vampiri in queste antiche civiltà, il folclore sui vampiri così come lo conosciamo oggi si è originato esclusivamente nell’Europa dell’est quando i miti della tradizione orale di numerosi gruppi etnici vennero messi per iscritto e pubblicati. Nella maggior parte dei casi, i vampiri sono creature malvagie redivive, vittime suicide o streghe, ma possono anche essere cadaveri posseduti da spiriti malevoli o umani trasformati dopo essere stati morsi da altri vampiri. La credenza in tali leggende divenne così persuasiva da causare isteria di massa e pubbliche esecuzioni di persone credute vampiri.

 

Non è facile riuscire a conferire una fisionomia unica e definitiva del vampiro. Accorpando elementi comuni a molte delle leggende europee magari un ritrattino, sia pur sfuocato, del non-estinto si riesce a scattare. Posto che la pellicola della macchina fotografica riesca a impressionarsi con l’evanescenza di quello sfuggente soggetto. I vampiri erano generalmente descritti come gonfi, con una carnagione scura, o sanguigna: e come avrebbero dovuto essere? Vista la loro “dieta” a base di sangue.

 

Come è possibile mutarsi vampiro?

Secondo la tradizione slava e cinese, qualsiasi cadavere che venisse scavalcato da un animale, particolarmente un cane o un gatto, era destinato a mutarsi in un non morto. Anche i cadaveri che non venivano trattati con acqua in ebollizione erano considerati a rischio. Nelle credenze popolari russe si era certi che i vampiri fossero un tempo streghe o persone che si erano ribellati contro la Chiesa quando erano ancora in vita.

 

Alcune pratiche popolari venivano messe in atto per scongiurare il ritorno nel mondo dei vivi di un estinto in qualità di non morto. E allora, avanti, largo alle pratiche più eccentriche: seppellire i morti a testa in giù e “decorare” il cadavere con oggetti terreni, come falci o falcetti, onde gratificare la cupidigia dei demoni tentati di possedere il trapassato affinché si evitasse la sua “risurrezione”, trasfigurato in doloroso errante nella dimensione dei viventi. Insomma tutto il disturbo mentale di gente che soltanto e esclusivamente ambivano ad esorcizzare il normalissimo terrore della morte. D’altra parte uno dei più diffusi esercizi dei viventi è quello di sollazzare, disturbare, rimestare il sonno (fortunatamente eterno) di quelli che hanno superato l’ineffabile soglia. Exit.

 

Inoltre, per evitare che un defunto fosse preda di qualche non estinto desideroso di associarlo alla sua truppa, bisognava tenerlo occupato: fargli passare il tempo a contare semi di papavero con cui s’era riempita la bara.

Non è però tra i defunti che il vampiro fa proseliti. Sono i viventi ad essere la sua preda più ambita. Come dire, visto il contendere, la più succulenta.

 

E’ il sangue “fresco” che fa inebriare il non-estinto. Vittima a sua volta di chi, succhiandolo, è sta costretto a propalare per il mondo la vampiresca genia. Il vampiro fa baldoria con il nutrimento vitale altrui e premia, si fa per dire, il prescelto, promuovendolo ad accolito. Succhiare il sangue: una bella tecnica di passare il testimone. Insomma, con un affondo di canini, essere ammessi all’empireo di una passabile immortalità. Appunto come immortale è la paura che ci attraversa. Talvolta trafiggendo. Proiezione d’ogni atto, in ogni giorno. Soprattutto ogni notte quando, nella solitudine, con la sola presenza dei propri pensieri. Si palesano allora, in una solitudine siderale, i timori della propria condizione esistenziale. Quando soprattutto si leva il sipario dell’individuale teatro e appaiono sulla scena le presenze della propria coscienza: qual mattatore la solenne imago del non-estinto. E noi, terrorizzati, in attesa che il vampiro venga a morderci sul collo.

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