Una scena del film "La Talpa", tratto dal romanzo omonimo di John le Carré

Una talpa in occidente. La nuova guerra fredda di le Carré

Giulio Meotti

Ha plasmato la nostra immaginazione sul Muro con i suoi antieroi. Dopo il 1989, lo scrittore inglese ha descritto i cattivi solo nelle democrazie. Per Nick Cohen è “il tipico intellettuale antioccidentale”

Non poteva esserci miglior pubblicità per l’uscita di “La spia corre sul campo”, l’ultima fatica letteraria di quel monumento della spy story che è John le Carré (in Italia per Mondadori). Il nuovo romanzo di Le Carré è contro la Brexit e l’America di Donald Trump. Ed, uno dei protagonisti, dice che Trump “presiede alla sistematica e senza esclusione di colpi nazificazione degli Stati Uniti”, mentre Boris Johnson è un “maiale ignorante”. E’ la colonna sonora dei suoi romanzi degli ultimi trent’anni, tutti votati alla buona causa di turno, tutti usciti da una sorta di cartolina ideologica mainstream. “Con la fine dell’Unione Sovietica, il capitalismo globale alimenta le energie letterarie di Le Carré”, ha commentato il Washington Post.

 

Finito lo scontro est-ovest, Le Carré si è messo a scrivere romanzi tutti votati alla buona causa di turno, da cartolina mainstream

  

Per cinquant’anni, Le Carré ha creato un meraviglioso universo parallelo, un mondo di assassini e gente in ascolto, dove la lotta tra il bene e il male termina in un compromesso senza enfasi e lealtà e onore sono virtù antiquate. Poi, per lui non c’è stato che un solo nemico, uno tutto interno alla democrazia occidentale. “Dopo aver sconfitto il comunismo, dovevamo iniziare a sconfiggere il capitalismo”, dichiarava già Ned in “The secret pilgrim”, il suo romanzo uscito proprio nei giorni del crollo dell’Unione sovietica. 

  

Il nuovo romanzo è stato l’occasione per un regolamento di conti non soltanto da parte di Le Carré contro il suo paese, ma anche da parte di Sir Richard Dearlove, il potentissimo ex capo dell’MI6, il servizio segreto inglese, contro lo scrittore ed ex spia. Dearlove ha appena affermato che i romanzi di Le Carré sono “esclusivamente sul tradimento” e che descrivono i servizi di intelligence come “organizzazioni corrotte piene di traditori”. Ha detto anche che Le Carré è il massimo “rappresentante letterario” di un “disfattismo” che all’interno dei servizi di intelligence è noto come “nichilismo” e che ha preso piede quando si era unito all’MI6 negli anni Sessanta, in seguito alla rivelazione che la spia sovietica Kim Philby era penetrata a fondo nella comunità dell’intelligence inglese. Dearlove ha detto che i “nichilisti raggiunsero una situazione mentale in cui dicevano che tutto ciò che stiamo facendo è inutile”. Durissimo, ma sempre un po’ più magnanimo di Denis Healy, ex segretario alla Difesa laburista, che ha definito Le Carré una “spia comunista”. Definizione che non rende onore al creatore di così tanti antieroi, inglesi grassottelli alla Chesterton, senza retorica e che si trascinano dietro l’amarezza per tanti interrogativi senza risposta, in conflitto con la propria autocommiserazione, con il proprio quieto masochismo, come in uno specchio truccato.

  

“I russi hanno scoperto amaramente che ci sono cose peggiori del controllo statale: il libero mercato”, disse alla fine dell’Urss

  

In Europa si celebra la caduta del Muro di Berlino e se c’è uno scrittore che ha modellato la nostra immaginazione sulla Guerra Fredda quello è Le Carré, nom de plume di David John Moore Cornwell (nel 1980 aveva già venduto venticinque milioni di copie). Le Carré conosceva i protagonisti della Cortina di ferro come il cacciatore conosce la sua posta e la volpe il suo bosco. I grandi protagonisti reali della Guerra Fredda finirono in quelli immaginari di Le Carré. Come “l’uomo senza volto”, Markus “Mischa” Wolf, il capo delle spie della Germania comunista che avrebbe ispirato il personaggio di Karla di Le Carré. Nel 2008, Le Carré confessò che negli Anni Sessanta, quando lavorava per i servizi segreti di Sua Maestà e muoveva i primi passi come scrittore fu ammaliato “per un certo tempo” dall’idea di “disertare in Urss” sulla falsariga di Philby e delle altre famose “spie di Cambridge”.

 

La sua visione socialista è ispirata all’Inghilterra degli anni Settanta, quando il capitalismo era al suo punto più basso

  

Cresciuto in “quella spaventosa galera vittoriana dell’Inghilterra occidentale”, autore di magistrali best-seller come “La spia che venne dal freddo”, “La Casa Russia” e “Il sarto di Panama”, Le Carré ha rivelato a sorpresa la sua antica attrazione per l’Unione Sovietica nel corso di un’intervista al domenicale Sunday Times. Dopo il 1989, i cattivi di Le Carré non sono più le spie del Kgb, ma chi li ha sconfitti. Siamo noi. Noi occidentali. Dieci anni dopo il crollo del Muro di Berlino, Le Carré al New York Times spiegò che in fondo la fine del comunismo aveva danneggiato l’occidente. “Sul lato occidentale, le terrificanti conseguenze del crollo sovietico sono state ignorate. C’è questa terribile nozione secondo cui la libera impresa produce libertà. I russi hanno scoperto amaramente che, per quanto li riguarda, ci sono cose peggiori del controllo statale”. Niente meno.

  

Durante un “faccia a faccia” con Giovanni Minoli su Raidue, due mesi prima che venisse giù il Muro, Le Carré disse: “Dobbiamo avere anche noi (occidente) la nostra perestrojka”. “L’impero sovietico si trasformò dal nostro nemico giurato in una sordida cleptocrazia con la quale si potevano fare affari e Le Carré rivolse la sua attenzione all’occidente, che è sempre stato il suo vero soggetto” ha spiegato sul New York Times Olen Steinhauer. “I nemici divennero meno esotici. I vecchi sacrifici – delle vite e della nostra stessa etica – divennero meno necessari. Molti critici si sono irritati. Che cosa è successo al relativismo morale di John le Carré?”.

   

La creazione di Israele? “Un crimine mostruoso, ma non lo dire o ti chiameranno antisemita”. La Cia lo “detestava”

  

L’occidente è il nuovo blocco orientale e la lealtà verso l’alleanza atlantica è il nuovo tradimento. Come ha detto l’editore americano Otto Penzler, “sono sempre stato offeso dal suo relativismo morale, ed è solo peggiorato negli ultimi libri, ma faresti fatica a trovare uno scrittore dalla prosa migliore che scriva in lingua inglese”. La politica di Le Carré è stata sempre a sinistra, e sebbene non sia mai stato un “compagno di viaggio”, la sua visione itterica della politica è sempre stata pervasa da un relativismo confortante e che ha sedotto generazioni di lettori. La trilogia di “Karla” è stata ambientata nella triste Gran Bretagna degli anni Settanta, quando il capitalismo cadde al suo livello più basso. E il latente antiamericanismo di Le Carré era tipico di un mandarino del Foreign Office. Come riporta Frances Stonor Saunders in “La Guerra Fredda culturale - La Cia e il mondo delle lettere e delle arti negli anni Sessanta”, la Cia vedeva in Le Carré una “persistente amarezza per il punto morto ideologico cui era giunto il confronto tra est e ovest”. Richard Helms, responsabile delle operazioni segrete della Cia, “lo detestava”.

 

 

E’ la voce di Le Carré che sentiamo in “Absolute Friends”: “Spiega ai nuovi zeloti di Washington che nella creazione di Israele è stato commesso un mostruoso crimine e ti chiameranno antisemita”. Caduto il blocco orientale, Le Carré ha subito individuato la nemesi occidentale in una serie di successi planetari: le case farmaceutiche (“The Constant Gardener”), le multinazionali (“A Delicate Truth”), i servizi segreti occidentali (“The Mission Song”), la guerra al terrorismo (“A Most Wanted Man”).

 

“Dopo gli eccessi del comunismo, ora abbiamo a che fare con gli eccessi del capitalismo”

  

Nell’annunciare il romanzo contro i Big Pharma, Le Carré su The Nation ha scritto che l’industria farmaceutica offre “l’esempio più eloquente” dei “crimini del capitalismo sfrenato”. “Non riesco a immaginare un altro scrittore le cui storie sarebbero considerate ammissibili per un adattamento sulla Bbc” ha scritto il facinoroso editorialista dello Spectator Rod Liddle. “Certamente non Orwell o Evelyn Waugh o Martin Amis. John le Carré vince non per lo splendore della sua prosa o delle sue storie, ma per il suo punto di vista alla moda: una repulsione per l’occidente e ciò che ha, nella sua malvagità, fatto ad altri paesi. Le Carré detesta l’occidente e, naturalmente, per estensione, Israele”.

 

I romanzi di Le Carré incarnano la visione di Edward Snowden e di un pezzo importante della coscienza occidentale antagonista. “Le Carré è un grande critico degli eccessi del tardo capitalismo” ha spiegato Toby Manning, autore del saggio “Le Carré and the Cold War”. Lo ha detto Le Carré stesso alla Cbs: “Dopo gli eccessi del comunismo, ora abbiamo a che fare con gli eccessi del capitalismo”.

 

Le Carré vive in una casa vittoriana ad Hampstead, la zona di Londra che è arrivata a incarnare un tipo preciso, i literati inglesi: “La frase ‘socialista di Hampstead’ è una scorciatoia per un tipo sociale”, ha scritto l’Independent. “E’ uno del ceto medio, dall’istruzione costosa, che vive in una grande casa in un quartiere privo di criminalità, che raramente entra in contatto con la classe lavoratrice, ma sa cosa è meglio per loro. Ci vivevano numerosi famosi socialisti tra cui i fondatori della Fabian Society, Sidney e Beatrice Webb, l’ex leader laburista Michael Foot e la famiglia Miliband”. Quello è il milieu di Le Carré. Come il “salotto degli incantesimi”, come veniva chiamata la casa di Sidney e Beatrice Webb, i numi del movimento operaista inglese di inizio secolo, un misto di borghesia liberale e sindacalismo socialista, di estetismi alla Bloomsbury e di lotta di classe.

 

Secondo James Parker, Le Carré è un simbolo dell’“affettazione più deplorevole degli intellettuali occidentali: la convinzione che l’occidente sia l’unico nemico che valga la pena di combattere”. Al Wilson Center si organizzano conferenze sull’“antiamericanismo di John Le Carré”. George Smiley, il personaggio più famoso uscito dalla penna del celebre scrittore e presente nella maggior parte dei suoi libri fino al crollo del comunismo, oltre che alter ego di Le Carré, non è un guerriero, ma un liberal angosciato dal fatto che la causa anticomunista possa portare al trionfo dell’occidente capitalista.

 

“La cricca di fantasisti geopolitici giudeo-cristiani ha sfruttato la psicopatia americana post 11 settembre”

   

“Abbastanza semplicemente, non credo che gli Stati Uniti siano idonei a gestire il mondo post Guerra fredda” va ripetendo. Si disse “elettrizzato” dalla vittoria del Labour di Tony Blair alle elezioni del 1997, che sembravano offrire una nuova speranza alla sinistra dopo quasi vent’anni di governo conservatore. Quattro anni dopo, Le Carré disse che Blair andava “punito”, perché “avrebbe privatizzato l’aria se avesse potuto”. Peggio ancora, Blair si era schierato con gli americani dopo l’11 settembre. Neanche due mesi dopo la distruzione delle Torri Gemelle, Le Carré scrive su The Nation: “E’ una guerra che non possiamo vincere”. Come aveva già detto di quella contro l’Unione sovietica. E in un incontro al Noir Festival di Courmayeur, lo scrittore inglese disse che l’occidente rischiava di agire come Osama bin Laden: “Rafforzare di corsa e dotare di maggiori poteri polizia e servizi segreti, sospendere i diritti civici e limitare la libertà di stampa, spiarci l’un l’altro e nel peggiore dei casi attaccare le moschee e dare la caccia alla gente perché il colore della loro pelle ci fa paura”. Si stava creando un nuovo universo parallelo.

 

Le Carré se la prese di nuovo con Blair, definito “l’eloquente cavaliere bianco d’America”, e ha detto che l’occidente ha mancato la “chance unica” offerta dalla fine della Guerra fredda di “riformare il mondo”, combattendo la povertà, la fame, la tirannia, la droga, il razzismo e l’intolleranza religiosa. Poi, alla domanda su dove fosse la mattina delle Due Torri di Manhattan, Le Carré ha risposto: “Ero nello studio di una televisione tedesca, visionando le immagini della rivolta ai tempi di Rudy Dutsche. Cercavo differenze e parallelismi con i movimenti no-global di oggi, un territorio che mi interessa e mi spinge a cercare qualche risposta o una buona storia giacché per un romanziere prima di tutto deve venire proprio quella. Nel pomeriggio dello stesso giorno sono rimasto incollato ai monitor guardando invece quel che era successo molto lontano da lì, a New York. Rispetto alla globalizzazione non amo i partiti presi, ma ritengo un mio dovere di cittadino comprendere i rischi e raccontare le verità nascoste che magari a una multinazionale non possono piacere”. Quasi un bignami politicamente corretto. 

 

Nel romanzo “Absolute Friends”, Le Carré scrive il finale antiamericano perfetto per il nostro tempo: Mundy e Sasha, i protagonisti del libro, sebbene innocenti vengono uccisi dalle forze speciali americane. Volevano salvare il Terzo mondo dal complesso militare-industriale americano. Nel romanzo, Le Carré attacca “la cricca di fantasisti geopolitici giudeo-cristiani affamati di guerra che hanno dirottato i media e sfruttato la psicopatia americana post 11 settembre” e si domanda se “non si penta di aver abbandonato il santuario dell’Europa comunista in favore della decadenza dell’occidente capitalista”.

 

“A Most Wanted Man” è ambientato ad Amburgo, la città in cui Mohamed Atta e al Qaida si prepararono per il grande assalto al cielo degli Stati Uniti. I residenti di Amburgo sono generosi e aiutano Issa, il ceceno protagonista. Non lo vedono come un pericoloso islamista, ma come un giovane traumatizzato, vittima della tortura a cui è stato sottoposto in prigione, che aspira a diventare un medico e a cui piace ascoltare Ciajkovskij (Le Carré per la storia dice di essersi ispirato a Guantanamo, ovvio). Leyla, un’emigrata turca, e suo figlio Melik, offrono a Issa il loro appartamento. Un giovane avvocato di nome Annabel Richter, che lavora per un’organizzazione chiamata Sanctuary North – “una fondazione cristiana caritatevole per la protezione degli apolidi e degli sfollati nella regione della Germania settentrionale” – decide di difenderlo. Alla fine gli agenti americani fregano tutti con una rendition stile Abu Omar. I personaggi di Le Carré, leggendari uno dopo l’altro, sono l’anti James Bond di Ian Fleming. E Le Carré lo rivendica: “James Bond non è altro che un gangster che offrirebbe i propri servizi a qualsiasi paese che gli offrisse una scorta di ragazze e Martini. Alla radice di Bond c’era qualcosa di neofascista”. Stephen Amidon sul Sunday Times scriverà che “la retorica di Le Carré è più in linea con una column di Harold Pinter che con un romanzo di Graham Greene”.

 

Nel 2005 Le Carré ha persino suggerito che la Gran Bretagna poteva scivolare verso il fascismo. Questa visione del mondo è ordinatamente riassunta da un personaggio di “A Most Wanted Man”: “Gli americani sono peggio di voi inglesi, ma hanno una scusa… l’ignoranza. Non sanno cosa stanno facendo. Ma voi inglesi lo sapete molto bene”. Epocale il suo scontro con Salman Rushdie e i suoi “Versetti Satanici”. Il giorno della fatwa iraniana di Khomeini, trent’anni fa, Rushdie e la moglie americana, Marianne Wiggins, furono prelevati dalla loro casa a Islington, nella zona nord di Londra, dal servizio segreto inglese, per essere portati nelle oltre cinquanta “case sicure” in cui lo scrittore avrebbe vissuto per dieci anni. Lo scrittore giapponese Kazuo Ishiguro ebbe a dire che Rushdie viveva come gli ostaggi a Beirut. Per anni nessuno sapeva dove vivesse. Le Carré, che a Londra invece viveva liberissimo, prese carta e penna e scrisse al Guardian: “Il mio scopo non è giustificare la persecuzione di Rushdie ... ma sollevare una nota meno arrogante e meno colonialista di quella del campo dei suoi ammiratori”. E ancora: “In un momento in cui le principali catene di librerie americane si rifiutavano di vendere il romanzo per preoccupazione per la sicurezza dei loro dipendenti, era in suo (di Rushdie) potere salvare i suoi editori e, con dignità, ritirare il libro fino a quando non fosse arrivato un momento più calmo. Mi sembra che non abbia altro da dimostrare se non la sua insensibilità”. Le Carré paragonò poi lo scrittore braccato da Khomeini a un “rabbioso ayatollah”.

  

Quando Rushdie venne braccato da Khomeini, Le Carré definì lo scrittore “insensibile, intollerante, rabbioso ayatollah”

  

Rushdie rispose così: “Le Carré si è unito ai miei persecutori. Chiede la soppressione del mio libro perché sono stato accusato di reati del pensiero”. Volarono stracci per anni, fino a una sorta di pace fredda. Le Carré romperà perfino con la casa editrice Random House per portare fino in fondo la sua polemica contro Rushdie. Non volle avere più nulla a che fare con il consigliere editoriale Sonny Mehta, amico ed ex collaboratore di Rushdie. Così decise di non cedere i diritti all’editrice americana Knopf, una filiale della Random House.

 

L’uomo che ha ispirato George Smiley, la spia più celebre della Gran Bretagna, ha accusato le Carré di dare “piacere e gioia” ai nemici dell’Inghilterra. Lo scrisse John Bingham, mentore di Le Carré all’MI5 e modello per Smiley, in una lettera allo scrittore nell’ottobre 1979, lo stesso mese in cui un adattamento televisivo di “Tinker Tailor Soldier Spy” di Le Carré venne trasmesso dalla Bbc, con Alec Guinness nel ruolo di Smiley, “il rospo con l'impermeabile”.

 

Toby Young dello Spectator non condivide la visione convenzionale su un Le Carré che diventa antioccidentale dopo la caduta del Muro di Berlino. “No, sospetto che fosse un fanatico di sinistra sin dall’inizio. Non è diventato antiamericano nel 1989, alla disperata ricerca di nuovi argomenti. Piuttosto, la fine della Guerra fredda lo ha reso ancora più arrabbiato perché temeva che la parte sbagliata avrebbe potuto vincere. Nessuna persona sinceramente liberale, nessuna lontanamente imparziale, poteva osservare il conflitto tra democrazia occidentale e totalitarismo comunista e concludere che erano moralmente equivalenti”.

    

“Secondo lui le multinazionali fanno il lavaggio del cervello alle masse per conto dell’egemonia imperialista americana”

   

“Quando la Guerra Fredda è finita, Le Carré ha perso il materiale su cui scrivere”, dice al Foglio Nick Cohen, giornalista inglese liberal. “C’era già dell’ambiguità nei suoi precedenti romanzi. ‘Narrow’ è l’aggettivo che userei per lui, è uno che non ha più compreso il mondo. Fantasie sui Big Pharma, corporation, guerra al terrorismo islamico, una attitudine comune per cui qualunque cosa faccia l’occidente è la cosa peggiore che possa succedere. Le Carré è un tipico intellettuale antioccidentale inglese. Ritiene che le multinazionali facciano il lavaggio del cervello alle masse per conto dell’egemonia americana imperialista, a sua volta controllata da una congiura di destra che tira le fila per volere – indovinate di chi? – degli ebrei. Ha i vizi del vecchio stabilimento conservatore britannico, e non solo nella sua ossessione per gli ebrei. Si risente dell’impero americano usurpando il potere britannico e lasciandoci come barboncino, e si cimenta in una negazione quasi coloniale dell’autonomia dei popoli del mondo povero. Nelle società ricche e privilegiate in cui la salute è data per scontata, il pubblico non ha difficoltà a credere che i medici e le compagnie farmaceutiche siano malvagi”, dice Cohen. “In cerca di un nuovo complotto dopo la fine della Guerra Fredda, Le Carré inventò ‘The Constant Gardener’, una storia sui produttori di farmaci che uccidevano gli africani. ‘I grandi prodotti farmaceutici sono in combutta con i trafficanti di armi’, dichiara un personaggio, che non è in grado di distinguere tra un antibiotico e una bomba a grappolo”. Lungi dall’essere liquidato come superficiale, spiega Cohen, “‘The Constant Gardener’ è stato un successo come romanzo e film. Le Carré è ancora molto popolare in Inghilterra, la Bbc, i film, i libri su di lui. Nel 1989, si schierò contro Salman Rushdie, uno scrittore condannato a morte per un romanzo, e per me questo è un peccato mortale”.

 

Ma c’era già tutto il nuovo Le Carré nel finale del romanzo del 1974, “La Talpa”, dove la spia dei sovietici nel servizio segreto inglese Bill Haydon, ispirato al vero Kim Philby che tradì andando persino a vivere nella Mosca sovietica, dice a Smiley: “Tra la morale e l’estetica ho scelto l’estetica. L’occidente è diventato così sgradevole. Non trovi?”. Trovava, sì.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.