Chi era Nicola Chiaromonte, l'intellettuale perfetto per i rossogialli

Simonetta Sciandivasci

Un “eretico controvoglia” per il pantheon del Conte bis

Roma. Mettiamo, pazza idea, che da governo inevitabile, correttivo, istituzionale, di coalizione, questo rossogiallo diventi qualcosa di più, un corpo politico che funziona, un soggetto nuovo: avrebbe bisogno di un pantheon di riferimento, e il primo da includere sarebbe Nicola Chiaromonte – sì, certo, anche Saragat, ma quello già lo sappiamo, è già nel cuore di Conte. E tuttavia anche così, in quest’atmosfera emergenziale da coppia che sta in piedi per il bene dei figli, per “sconfiggere questa destra”, il Conte bis di rifarsi a qualche intellettuale, ritrovandocisi, avrebbe assai bisogno, e ancora il migliore sarebbe Nicola Chiaromonte. Di lui, nel suo “Eretico controvoglia” appena uscito per Bompiani, Filippo La Porta ha scritto che era “un socialista libertario convinto del primato dell’etica sulla politica”, uno che meditava sulle cose “in modo semplice, con la semplicità che appartiene alla tradizione italiana che rifiuta la complicazione e accoglie la complessità”. Dario Franceschini ha detto ieri a Repubblica che il Pd non perderà la sua identità e, anzi, la rafforzerà, e che le battaglie di sinistra non sono più quelle del Novecento: “Continueremo a difendere i deboli e il lavoro ma c’è anche, per fare un solo esempio, l’emergenza ambientale”. E chi lo sa se i fronti comuni basteranno, ancora prima che a tenere insieme due partiti nemici fino a un mese fa, a far sì che le istanze dell’uno implementino quelle dell’altro.

 

In Chiaromonte, che della sinistra novecentesca, specie quella vicina al marxismo, è stato critico accanito, le ispirazioni e aspirazioni dei gialli e dei rossi hanno convissuto armoniosamente abbastanza da intessere un pensiero più che organico e, soprattutto, convincente. Infallibile, scrive La Porta, perché lui “riuscì a pensare sempre da solo”.

 

Era un lucano di quelli che girano per il mondo ma nessuno li vede, come diceva Leonardo Sinisgalli, e fu amico di Camus, Arendt, Moravia, a lui si rifecero i dirigenti di Solidarność e negli Stati Uniti è, oggi, assai più studiato che da noi. Non se la prenderebbe, sapeva che gli italiani sono “amanti del bello e vilmente utilitari”, ne accettava semplicità e faciloneria, ne amava la superficialità che, secondo lui, li aveva resi impermeabili al totalitarismo (“dietro l’entusiasmo di facciata per il fascismo, si nascose una passività di fondo”).

 

Visse nel pieno gli anni della contestazione sessantottina, senza infatuarsene mai: per lui quei ragazzi condividevano, con la borghesia e la modernità peggiori, l’impulso a sbranare, possedere la vita; l’illusione che l’uomo potesse essere libero dal limite e dalla misura; l’idea che lo scopo della vita fosse “evitare la sofferenza, cioè la coscienza”. La libertà dell’uomo non sta nell’accesso a tutto ma, all’opposto, nel trattenere un impulso, nel non soddisfare un desiderio (come Pasolini, Chiaromonte credeva che il capitalismo renda schiavi dell’appagamento) e, soprattutto, nell’azione gratuita, priva di scopo. E’ nella festa, per Chiaromonte, che sperimentiamo il senso dell’esistenza, quindi il lavoro ha senso fintanto che ci fa guadagnare tempo libero – argomentazioni d’oro per gli oppositori delle aperture domenicali dei supermercati. La libertà, allora, si dà in assenza di fine e non di condizionamento che è, invece, inevitabile, è parte di noi, modo d’essere. L’autenticità, e questo sì che parla al nostro tempo, non è un nucleo originario, puro, incontaminato, un a priori al quale ciascuno deve puntare a ricollegarsi per ritrovare sé stesso, ma è un punto di arrivo dal quale si scorge che “l’uomo è un essere teatrale per natura, non per accidente” e che soltanto attraverso la finzione, la sovrastruttura alla cui creazione contribuisce la collettività, si può scoprire qualcosa di sé. E’ una prospettiva di ricerca del tutto capovolta rispetto alla nostra attuale ed è, anche, un’indicazione a ritrovarsi nell’incontro con gli altri, anziché nell’introspezione, nella convenzione della massa anziché nell’arbitrio privato. Del resto, Chiaromonte era un “socialista umanistico ottocentesco a vocazione populista” e “uno gnostico innamorato della realtà”, temeva le élite perché sempre armate di buone intenzioni correttive: per lui, la preoccupazione di fare del bene spalancava la porta alla coercizione. Per questo – e lo scrisse nelle lettere che si scambiò con la donna che amò e non sposò, forse neppure sfiorò mai – secondo lui dire il vero era più importante che fare il bene e per essere nel vero era fondamentale non pensare al bene o alla bontà (sfumatura che avrebbe molto aiutato il Pd nel difendersi dalle accuse di buonismo, no?).

Qualsiasi cosa sia e sarà di questo governo senza pensiero, c’è una frase di Chiaromonte difficile da accettare e però giusta, concreta e utopista, che già ci aiuta a salvarlo: “Ogni impresa che si proponga anzitutto il successo è cattiva”.

Franceschini ha detto che la cattiveria è finita lunedì, che coincidenza.

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