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Scorretta ma didascalica, la distopia di Dave Eggers non ha profondità

Piero Vietti

A proposito di “La parata” e certi paragoni da evitare

Sarebbe curioso sapere cosa ha spinto l’editor Feltrinelli che si è occupato dell’ultimo libro di Dave Eggers a scrivere quel che ha scritto nel risvolto della quarta di copertina. Il cinquantenne scrittore americano – diventato famoso per “L’opera struggente di un formidabile genio” vent’anni fa, e oggi ancora pigramente definito enfant prodige dalle pagine culturali dei giornali italiani – ha da poco pubblicato “La parata”. Nei 23 agili capitoli, che si leggono in poche ore, Eggers racconta il lavoro di due contractor occidentali che devono asfaltare una lunga strada che unirà il sud e il nord di un imprecisato paese del Terzo mondo appena uscito da una devastante guerra civile (la parata del titolo è quella che il presidente farà una volta completata la strada per sancire la pace). Per ragioni di sicurezza – e per scelta facilmente ammiccante al genere distopico – i due non utilizzano i loro veri nomi, ma scelgono due numeri per identificarsi, Quattro e Nove.

 

Quattro è l’uomo di esperienza, ha già fatto questo lavoro con successo in molti paesi, porta avanti il suo compito con fredda razionalità attenendosi a tutte le regole che la sua azienda impone ai propri dipendenti: nessun contatto con la popolazione locale, niente perdite di tempo, evitare qualunque rischio possa rallentare la stesura dell’asfalto, fatta con una macchina di nuovissima generazione che può essere guidata e manovrata da una sola persona. Nove è alla sua prima esperienza, ha l’entusiasmo idealista e avventato di chi invece delle regole vuole fare a meno. Il suo compito è quello di fare da avanguardia a Quattro, muovendosi in fretta con un quad per liberare la strada da eventuali ostacoli, ma non perde occasione per parlare con la gente che incontra, provare ad aiutarli, mescolarsi con loro e corteggiare le ragazze del posto.

 

Prevedibile e terribilmente didascalico, “La parata” è una lunga metafora sui danni del neocolonialismo – di cui Quattro e Nove personificano le due anime, opposte ma ugualmente “sbagliate” – che si arricchisce a spese dei paesi più poveri, lo fa raccontando e raccontandosi di agire per il bene del progresso ma non calcola le conseguenze negative di questo approccio. Certamente scorretto rispetto a certo volontarismo che va di moda tra i progressisti (le ong ne escono malissimo, così come gli entusiasti che pensano basti andare nei paesi poveri a portare il proprio impegno e un po’ di tecnologia per avere fratellanza e pace nel mondo), “La parata” non riesce però quasi mai a pescare in profondità.

  

E’ un romanzo breve, non un saggio, nessuno pretende completezza di analisi su un problema così complesso, ma se i protagonisti della storia fossero stati personaggi e non macchiette stereotipate avremmo colto lo stesso la “potente allegoria”, per dirla con lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, citato nell’edizione Feltrinelli. E qui veniamo al già citato risvolto della quarta di copertina: “Grande protagonista de La parata è l’attesa. Quattro è a modo suo simile al nostro Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari di Buzzati: la sua fortezza è la macchina asfaltatrice in cui passa le giornate e i suoi Tartari sono il collega Nove e la popolazione locale”. Al di là del fatto che potremmo considerare circonvenzione di ignaro lettore l’improponibile paragone tra l’impalpabile Quattro e il gigante Drogo, protagonista di “La parata” non è affatto l’attesa, ma il solito senso di colpa occidentale (e, in fondo, tra le righe, un cinico complesso di superiorità che potrebbe essere bollato come razzismo, se solo Dave Eggers non fosse un antitrumpiano doc, quindi dalla parte dei buoni).

 

Occupato dalla preoccupazione di spiegarci il mondo, l’autore si dimentica dei personaggi, delle loro attese appunto, delle loro domande – e quando lo fa cade in cliché che rendono prevedibile lo sviluppo della storia, persino i suoi colpi di scena. C’è un altro paragone citato nei risvolti dell’edizione italiana. Lo fa lo scrittore australiano Richard Flanagan, ed è con Philip K. Dick. Non cascateci.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.