Lo stretto di Messina: “… è di qui che sono venuti i Fenici, e poi i Greci… e passando di qua la cultura è arrivata in Occidente…”. “Il Mediterraneo in barca” di Georges Simenon è pubblicato da Adelph

Il mare di tutte le isole

Nadia Terranova

Un miscuglio di fasto e miseria nera, le acque dove scompaiono i turisti e appaiono i viaggiatori. La corrente latina, vitale e piratesca, e la sensualità colonizzata dagli inglesi. Ecco il Mediterraneo di Georges Simenon

Da quante coste e imbarcazioni si può guardare il Mediterraneo, in quante isole e penisole ci si può sentire a casa sull’acqua, da quanti e quali luoghi si può scriverne nuotando, temendolo, amandolo, cercando il precario buen retiro per mare o per terra dove tirare fuori il computer o il quadernetto? 

 

Per espandersi nel Mediterraneo tutto intero basta un libro dalla copertina verde, breve, prodigioso, visionario, divinatorio e prescrittivo

Scrivo questo pezzo nella biblioteca di Palazzo Florio, a Favignana, una piccola stanza che da un lato affaccia sul porto, sulla tonnara, e dall’altro sul giardino, in penombra, e nonostante le finestre aperte persiste l’odore di libri che nessuno consulta più. Fa caldo, mi ha avvisato la custode, ignorando che fuggivo da un locale con il climatizzatore a puntarmi la cervicale e che preferisco di gran lunga il mio ventaglietto; già non sono più qui ma nella biblioteca del paesino sul mare delle mie estati d’infanzia, anche quella chiudeva all’una e quell’altra custode mi fissava minacciosa e diffidente segnando il mio nome a penna sul registro: devi riportare il libro entro quindici giorni, hai capito? Glielo riportavo il giorno dopo, non c’erano romanzi per ragazzine nella casa dei miei zii e ne volevo subito un altro, non c’erano altri bambini né dentro casa né fuori, non esisteva internet e non esistevano altri passatempi: leggevamo per quello, leggevamo tutti, forsennati figli unici delle prime famiglie disgregate, per far passare i pomeriggi e le noiosissime controre prima di buttarci in acqua e nuotare più a lungo di Colapesce.

 

Pagine che mostrano quanto sono stati fessi i colonizzatori a incapricciarsi di mettere confini dove il mare li lava via

Chiudiamo all’una, mi ha avvisato la custode, e ho annuito – va benissimo, devo solo far passare la calura prima di nuotare, staccarmi per qualche ora da Favignana ed espandermi nel Mediterraneo tutto intero, mi basta poco per essere non più su un’isola soltanto ma su tutte le isole, mi basta un libro dalla copertina verde, breve, prodigioso, visionario, divinatorio e prescrittivo, Il Mediterraneo in barca di Georges Simenon (Adelphi) - l’ho riempito di talmente tanti segni e sottolineature che per me è per forza il libro dell’estate. Del resto, è pure Favignana “una delle tante isole del Sud dove vengono portati i detenuti”, dentro queste pagine scompaiono i turisti e appaiono i viaggiatori, scompaiono gli alberghi e appare il carcere, come a Ustica, come a Ventotene, come all’Elba: “Un vaporetto trasporta i detenuti fino all’isola: un vecchio marinaio, che assomiglia a Robinson Crusoe, mastica e sputa tabacco, con i gomiti sul parapetto”. Voglio anch’io, come lui, un lupo di mare che mi racconti la leggenda truculenta di un vecchio carcerato, la storia di una donna trovata senza cuore, la storia di un uomo che prima partiva e poi tornava, o forse viceversa. C’è qui dentro pura libertà di navigazione, per mare, per terra, per carta. Nelle scuole di scrittura dicono che i puntini denotano incertezza, guai a usarli, bisogna essere duri, puri, assertivi, ma poi gli scrittori se ne infischiano e fanno quello che bisogna, ovvero inventarsele da sé le regole, ogni volta su misura, libro per libro. Qui Simenon li trasforma nelle lancette di un orologio: “Il Mediterraneo è… Il Mediterraneo è… Il Mediterraneo è…”, e giù filosofia, e giù legislazione del mare e storia degli uomini e dei pesci, a ogni capoverso un’ora nuova, un nuovo cominciamento, “la cultura latina è il Mediterraneo”, non è un mare, è “un miscuglio di fasto e miseria nera”, è un posto dove non esiste la crisi perché l’economia di terra segue il cambio e il ribasso e quella d’acqua è regolata da altri venti. Nel Mediterraneo le banche sono inutili, lontane e un po’ grottesche, il Mediterraneo è come la Bibbia, “ci sono le vacche grasse e le vacche magre, gli anni di penuria e gli anni di abbondanza. C’è soprattutto l’abitudine a entrambe le cose, intendo dire all’abbondanza e alla penuria. La gente non si sente spacciata quando ha fame e né all’apice dell’agiatezza quando ha tanto fieno in cascina. Rassegnazione? Non credo. Direi piuttosto saggezza, una saggezza involontaria, ereditata da remoti progenitori”. Il Mediterraneo è uno stato in cui nessuno è collega e tutti sono cugini, perché l’economia si fonda sul richiamo del marinaio che convoca i simili e i congiunti: “Arrivi da un posto o dall’altro, dalla Gallia o dall’Armenia, dalla Macedonia o finanche dall’Ungheria. Sei giovane e forte, e per di più sei un poveraccio. Allora lavori. Solo che tuo figlio, o magari tuo nipote, impara a vivere e, invece di lavorare lui stesso, fa lavorare quelli che arrivano a loro volta dalle più remote lande barbariche. Probabilmente è questo il senso della parola aristocrazia. Ed ecco perché possiamo dire che tutti gli abitanti del Mediterraneo sono aristocratici”.

 

E giù filosofia, e giù legislazione del mare e storia degli uomini e dei pesci, a ogni capoverso un’ora nuova, un nuovo cominciamento

Nel Mediterraneo soffiano due correnti, una vitale, piratesca, e una mortifera, grigiastra. La prima è latina e festosa, la seconda britannica e pervasiva, animata da un necrofilo senso del possesso e del controllo: “Se il Mediterraneo ha due porte, Gibilterra e Suez, il suo ombelico è Malta, e anche questo appartiene agli inglesi”. Tra le pagine più belle, quelle in cui Simenon mette alla berlina Londra assatanata nel colonizzare l’incolonizzabile, frustrata però nel mettere il guinzaglio ai vagabondi del mare: “Non leggono i giornali. A stento sanno chi li governa. Conoscono solo i venti e fiutano da miglia e miglia di distanza gli approdi riparati”. Nel Mediterraneo si vive sull’acqua, si (ri)leggono i classici greci e latini e forse finalmente si capiscono, poi scende la notte e si dorme dolcemente oppure si dorme di giorno, tanto “non ha nessuna importanza dormire a una cert’ora anziché a un’altra”. I motivi per scendere a terra sono quattro soltanto: la capitaneria di porto, la dogana, il fermo posta e il bordello. Occhio alla tristezza dei bordelli maltesi, sorvegliati da gendarmi policemen e gestiti da inglesi che sono riusciti a colonizzare pure la sensualità: “Qui non si fa più l’amore al sole! Non si fa l’amore come lungo le sponde del Mediterraneo. Si fa l’amore come a Londra e nei porti nebbiosi”. Non certo come a Tunisi, dove appena sbarcati, sul molo, uno scaricatore si tira via il panno dai fianchi per far vedere a tutti gli attributi. Nel Mediterraneo, la contraddizione è sintetizzata da un episodio: un gigolò francese e la sua ricca protettrice litigano a cena e giù schiaffi e ciabattate, un nobile nordafricano, a tavola con loro, prende le distanze da quello che sta accadendo perché le donne non si picchiano mai, e lo fa pubblicamente, in un francese impeccabile, mentre in un arabo altrettanto impeccabile, sottovoce, incita il maschio a darci dentro. “Ora forse cominciate a capirlo, il Nord Africa”, conclude Simenon (e poco prima, per descrivere quel gran casino a cielo aperto che è Tunisi: “Uomini che si accoppiano con le puttane europee o con le figlie di Maometto, con i ragazzini o con le capre, senza distinzione, solo per sentirsi vivi, che sollevano l’abito bianco per pisciare – e intanto vi guardano con aria di sfida”).

 

Del resto, come può essere omogeneo un mare che travolge mille culture e le porta con sé sulla terraferma? Ai criminali che oggi lasciano morire le persone in mare io darei innanzitutto da leggere questo libro, per mostrare quanto sono stati fessi i colonizzatori a incapricciarsi di mettere confini dove il mare li lava via. Il Mediterraneo emigra, scrive Simenon, e chi lo traversa emigra assieme a lui, per esempio risalendo la tibia dello Stivale, dall’Elba alla Sicilia, dodici giorni di navigazione facendo i conti con un carico di acqua avariata e perdendosi nel cercare invano lo Stromboli, per poi giungere finalmente al faro di Capo Peloro.

 

Si vive sull’acqua. I motivi per scendere a terra sono quattro soltanto: la capitaneria di porto, la dogana, il fermo posta e il bordello

Ecco, ora nelle pagine sullo Stretto, stretta tra l’apertura di tutti i mari del mondo e questa biblioteca di Favignana che sta chiudendo (lo so, è l’una, la nuova bibliotecaria che reincarna quell’altra bibliotecaria della mia infanzia è già entrata due volte e si è messa a parlare a voce alta per ricordarmi chi è che comanda qua dentro), infine sono nel posto giusto. Che gioia queste due pagine che parlano di casa mia: “Ah, Messina! Come sarebbe bello mangiare una cassata! A quanto pare sono i gelati più buoni del mondo. E allora ci precipitiamo. Ne mangiamo una, ne mangiamo due, tre, e la notte abbiamo tutti mal di pancia. L’indomani la sola vista di una pasticceria o di gente che mangia il gelato ci dà la nausea”. E sullo Stretto, “una delle grandi porte del Mediterraneo, che è anche una porta del mondo e della Storia”, lì è il momento di sognare: “Immaginate adesso, all’ingresso dello Stretto, due correnti contrapposte, le famigerate correnti di Scilla e Cariddi, che creano turbolenze tali che il mare assume l’aspetto di un calderone. Gli stessi piroscafi riescono a passare solo con grande precauzione. Ora, è di qui che sono venuti i Fenici, e poi i Greci… e passando di qua la cultura è arrivata in Occidente…”. Eccole, le ninfe tramutate in mostri omerici: “Non sono altro che due vortici sull’acqua calma e iridescente dello Stretto e tutt’intorno i pescatori danno la caccia al pesce spada come se il mare non fosse mai servito a nient’altro”.

 

Poi, una volta traversati i due mari e scampato il pericolo che travolse Ulisse, si può fuggire via. Via, via, via, verso l’Etna fiammeggiante, verso Siracusa, ma è tutto diverso, ogni cosa si trasforma, perché “fino a Messina siete più o meno a casa, e le cose hanno ancora il loro valore, le parole come la luce, i colori come i sentimenti. Oltre Messina, a dispetto della Grecia, è già un’altra cosa, è il Mediterraneo avanti Cristo, è l’Oriente, i popoli in marcia, le razze in pieno fermento”.

 

E’ l’una. Il mio momento di mitomania strettese è stato appagato. Non tira un soffio d’aria a parte il mio ventaglietto, povero il fantasma di Ignazio Florio che si aggira sudaticcio fra queste stanze e chissà che ne pensa di noi scemi che facciamo la visita guidata nella sua tonnara, di me che vengo qui per fuggire la folla e l’aria condizionata, di me che ho comprato questo libro in Val d’Ayas e la settimana dopo me lo sono portato fino sulla sua isola del Mediterraneo, perché mica potevo scriverne vicino a un ghiacciaio; o forse sì, forse sì: è una forma d’acqua pure quella, e alla lontana, come ci spiega Simenon, da queste parti siamo tutti imparentati.

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