Una scena dei Goonies, un film d'avventura del 1985 di Richard Donner

Bambino che legge

Mariarosa Mancuso

L’unica cosa che è ammesso fare da adulti come da piccoli. Stevenson, le trame dei libri e i tesori nascosti

“Qualcosa di voluttuoso e travolgente, che fa sentire esaltati, rapiti, svuotati di noi stessi. Un caleidoscopio di immagini dense e fluttuanti. Fantastiche e policrome visioni che si susseguono davanti ai nostri occhi”. Canna? Allucinogeno? “Voglio anch’io quel che ha ordinato la signora”? Assenzio? Il più strepitoso dei videogiochi raccontato dal più fanatico dei campioni? Endorfine da sforzo prolungato? Niente di niente, è la lettura secondo Robert Louis Stevenson, bambino malaticcio spesso costretto a letto con i libri per compagnia (oltre alle storie spaventose che un’infermiera gli raccontava, in cambio lo scozzese le dedicò un libro di filastrocche: “Il mio letto è una nave”).

 

Nulla abbiamo più in antipatia della frase “il bambino che è in noi”, accompagnata dalle istruzioni sul “come ritrovare il moccioso, dargli spazio e aria per respirare, rendersi insopportabili agli occhi del prossimo”. Consideriamo l’età adulta una grande e faticosa conquista – pensiero impopolare, ma cogliamo l’occasione per mettere a verbale che un po’ di responsabilità per il bambinismo diffuso ricade sui cultori dell’autenticità, altri ostinati scavatori che sdegnano la superficie. Una sola cosa è ammesso fare come da piccoli: leggere, in quel modo esclusivo e avvolgente che fa dimenticare tutto il resto. Leggere per sapere cosa succede in luoghi che solo così possiamo conoscere: vecchie locande campagnole affollate di gentiluomini con il cappello a tricorno, palazzi con salotti, servitù e balli mascherati, savane e praterie (se proprio non ne potete fare a meno), futuri e passati (pure mondi inventati a capriccio) che all’improvviso diventano raggiungibili.

 

“Oggigiorno gli inglesi hanno la tendenza, e non ne so il perché, a guardare dell’alto in basso le trame dense di incidenti e a riservare la loro estatica ammirazione per il tintinnio dei cucchiaini da tè e i sommessi accenti del curato”. A non sapere che l’osservazione è di Stevenson (in “L’isola del romanzo”) e che risale al 1882, sembrerebbe l’atto di nascita della hard boiled school, negli anni Venti e Trenta del Novecento. La “scuola dei duri” – nel senso dell’uovo sodo, da lì viene l’etichetta – che portò via il romanzo giallo alle vecchiette britanniche e ai giardini del vicariato per trasferirlo negli Stati Uniti. E farlo marciare a whiskey buttando a mare le scatole di tè.

  

Non c’è neppure bisogno di fare i finti tonti e di scandalizzarsi: “Povero Stevenson, non immaginava dove saremmo andati a finire avanzando in questa direzione” (non ce n’è quasi mai bisogno, parlando di romanzi e di romanzieri: tutto è già successo almeno una volta, si stupiscono solo i dilettanti che leggono in dosi omeopatiche, e pure loro scavano in un libro, pur di non dover prenderne in mano un altro). Stevenson lo sapeva benissimo, e infatti lo scrive: “Si considera ‘intelligente’ un romanzo purché non abbia una trama, e se proprio deve concedersela, ne abbia una noiosissima”.

  

Tre anni dopo, Robert Stevenson strinse amicizia (perlopiù epistolare) con Henry James. Nei romanzi dell’americano che volle farsi britannico registriamo molti cucchiaini da tè tintinnanti (per esempio, tra le disgrazie di Isabel Archer che in “Ritratto di signora” vuol fare di testa sua con la piccola fortuna ereditata). Lo scozzese aveva scritto “L’isola del tesoro”, e mandò il romanzo all’amico per approvazione, ammiccando “Da bambini, tutti abbiamo cercato un tesoro”. “Io mai”, fu la gelida risposta. Stevenson passò al contrattacco: “Se ne deduce che Henry James non è mai stato un bambino”.

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