Paolo Giaccio insieme a Camilla Baresani

Ritratto di signore

Michele Masneri

Vita, opere e colazioni di Paolo Giaccio (1950-2019), da “Per voi giovani” a “Mister Fantasy”. Una vita tra la Rai, la musica, gli amici e le case

Ti ci affezionavi ancor prima di conoscerlo. Paolo Giaccio, autore, produttore, giornalista, morto due giorni fa, era famoso anche solo per la sua voce, che aveva salvato dalla depressione generazioni di adolescenti, quelli che oggi hanno sessant’anni ed erano stati risparmiati da Sanremo e Claudio Villa grazie alla musica di “Per voi giovani”: da un wild bunch di ragazzotti romani che da un negozio già celebre di dischi di via Tagliamento aveva esplorato il mondo musicale degli anni Settanta disboscando la foresta pietrificata dell’entertainment Rai. Alla radio c’era Giaccio, che in quel negozio aveva conosciuto Carlo Massarini, Mario Luzzatto Fegiz, e Raffaele Cascone, una specie di dj-psicanalista laingiano inglese-napoletano; e in qualche modo questa strana pattuglia aveva sfidato la liturgia Rai irrorando ogni pomeriggio le masse riconoscenti di musica che all’epoca si chiamava “progressiva”.

 

Camilla Baresani, sua moglie, lo conobbe così, prima in voce da adolescente, e poi solo dopo molti anni di persona, grazie ai buoni uffici di Roberto D’Agostino (e non si lasciarono più). Negli anni Settanta Giaccio era arrivato dalla radio alla tv e per la Rai aveva inventato “Odeon, tutto quanto fa spettacolo”, due ore in prima serata dalle capitali del mondo a indagare tra l’Opera e il pop e le discoteche, una cosa inconcepibile oggi nell’epoca della tv dei telemorenti. Poi il suo programma più famoso, “Mister Fantasy”: nel 1981-1984, prima ancora della nascita di Mtv in America, con Carlo Massarini, programma rivoluzionario sulla “musica da vedere”. Arrivavano “i video”.

 

Un wild bunch di ragazzotti che da un negozio di dischi di via Tagliamento aveva esplorato il mondo degli anni Settanta 

Giaccio era stato poi capostruttura e responsabile editoriale di molti canali della Rai, in una carriera onesta ma non gloriosa, il massimo che il suo senso etico e soprattutto estetico gli concedettero in un mondo probabilmente non molto conciliabile coi suoi completi di lino e la sua signorilità quasi provocatoria; il prodotto di cui andava più fiero, quello che ricordava con più orgoglio anche negli ultimi giorni, era infatti “Immagina”; programma non certo mainstream di fine anni Ottanta, condotto e disegnato attorno a Edwige Fenech, che doveva servire e servì a riabilitare l’immagine dell’attrice, prima relegata a filmetti di docce boccaccesche, e da lì in poi sofisticata produttrice. Per la defatigante impresa Giaccio aveva affidato i testi all’allora semiologo super trendy Omar Calabrese, e le scene al designer supremo Alessandro Mendini (che tempi, che Rai).

 

L’estetica giaccesca era del resto totale e si esprimeva non solo nei lini e nei loden, anche mentre fuori impazzava la rivoluzione (e tra i completi Facis della Rai); soprattutto risplendeva nelle sue case, e soprattutto in quella di Sabaudia, dove ha voluto passare gli ultimi giorni. In mezzo a tante villozze più o meno aspirazionali o capresi o Busiri-Vici lui aveva costruito da sé un gran bosco, dove, inoltrandosi per sentieri più da bush africano che da status symbol pontino, si arrivava a piccole cabine come di nave. Lì lui troneggiava in una master bedroom candida, rialzata, che dominava sulla sala e sul mare, e lì negli ultimi giorni riceveva gli ospiti come una specie di re Sole o Achab sabaudo. Il suo letto da nave, sovrastato da armadietti e cambuse con manigliette cromate, da lui disegnate come i giardini e tutto, era anche un osservatorio da cui dirigeva le dinamiche di casa. Una volta oltrepassato il cancello, si era sommessamente invitati a non uscire mai: e non era difficile; si stava lì, si coltivava l’arte del racconto, si improvvisava guardando il tramonto. Una notte l’amica Moira raccontò di un suo drammatico giovanile naufragio verso Ponza, tutti si restò attoniti ad ascoltare fino a tarda notte, nessuno dormì, la mattina poi ci si raccontarono gli incubi davanti ai cornetti e alle spremute di pompelmo. Si può dire che Sabaudia, la Sabaudia delle ville, quella specie di club ufficioso coi piedi in acqua, l’avesse inventata lui. Trovare casa agli amici era uno dei suoi giochi preferiti: Giovanni Malagò, amico caro e vicino, l’ha ricordato ieri in un necrologio, contravvenendo tra l’altro inconsapevolmente alla volontà giaccesca, niente funerali né annunci. Anche perché una mania che condividevamo era proprio quella per i necrologi sgangherati, coi cognomi e i predicati inventati, i nomi assurdi, che popolavano soprattutto le pagine dell’amato Messaggero. Anche Malagò, re di Sabaudia, che era venuto a salutarlo negli ultimi tempi, aveva trovato la sua casa grazie a Paolo, che si divertiva a regolare i flussi di acquisti e vendite, arrivi e partenze, non per guadagno ma per gioco; come la casa ex Cecchi Gori finita all’asta e andata a una simpatica russa-bresciana grande amica di Camilla, con la celebre piscina a forma forse di fallo o forse di giglio fiorentino. Le case di Paolo Giaccio erano poi tutte altamente tecnologiche: una voce registrata, entrati nel bosco fatato, avvertiva: “attenzione, zona controllata!”, col vocione del fratello Andrea, che quel bosco fatato vive e vigila. La casa, tecnologica e poetica, è concepita per ospitare il numero più alto di amici possibile: anche negli ultimi tempi, quando era gravemente malato (ma senza mai un lamento, secondo la vecchia scuola del “never explain, never complain” qui attuata con zelo quasi esagerato), e si sapeva che “questa volta non vuole nessuno intorno”, arrivavi e c’erano almeno sei macchine in garage e Franciacorta da stappare, e subito una vasta prenotazione da Saporetti a nome Giaccio (il nome Giaccio, grazie a decenni di mance leggendarie, apriva molte porte alimentari).

   

“Siri, stop playing Pino Daniele”, era invece il suo di vocione, che non sembrava per niente quello di un uomo in fin di vita. Pino Daniele (o un organo Hammond o Neil Young) erano la colonna sonora di queste estati sospese, dove c’era sempre qualche amico reduce da rovesci sentimentali, o economici, o esistenziali, e lì si fermava, per giorni o per mesi, e un po’ veniva messo in mezzo, un po’ consolato, sempre rifocillato, tra “Quella sera dorata”, Cechov, e “Amici miei”. Amori, litigi, riconciliazioni: e poi un angoletto di cavi e monitor e telecamere, che era la sua cabina di comando tecnologica, mentre guardava la sua serie preferita e in contemporanea due telegiornali e le notizie su un altro canale, azionando una tapparella elettrica appena installata con nuovi marchingegni. Era soprattutto un gran curioso, di storie, di umani, di situazioni.

 

Anche le Miss pagano la tariffa intera, pur non bevendo, alcune, vino, precisava il regolamento. E poi c’erano i Mister
 

Non ha mai voluto fare un libro, Giaccio, tantomeno un’intervista, nonostante esperienze leggendarie come la settimana passata in reclusione con Lucio Battisti che portò al suo sbarco alla radio. Semmai, scriveva piccole note agli amici, resoconti delle giornate e degli incontri notevoli. Quando andai a trovarlo a San Francisco – appena andato in pensione dalla Rai, si era trasferito in California, per ripassare la scena musicale, e scoprire la Silicon Valley (per dire il tipo) e mi ritrovai più o meno nello stesso format che ricreavano in tutte le altre loro case: un grande letto in cui Paolo e Camilla passavano ore a leggere (li chiamavamo Yoko e John, perché nelle loro camicie da notte candide, identiche, adoravano stare soprattutto a letto a compulsare giornali e iPad) e un tavolo con due computer uno contro l’altro, dove la sera scrivevano un diario parallelo con gli appunti di giornata. Paolo s’era fatto un vespone marron metallizzato con cui andava su e giù per San Francisco: e dopo le letture mattutine e prima dei diari, si partiva alla scoperta della città, per un documentario sulla California che non si fece mai, come altri infiniti progetti che elaborava, poi lasciava lì, regalando idee e contatti agli amici. Era un grande collezionista di persone, Paolo: in California in pochi mesi aveva messo su un database di editori giornalisti startupper e vecchi musicisti, col solito gusto di bellezza e bizzarria (quando ebbe un piccolo incidente, a intercedere coi medici fu David Fechheimer, uno dei più grandi detective d’America, che aveva lavorato per gli Hearst e per O. J. Simpson, personaggio da film che aveva conosciuto Paolo e se n’era innamorato, come tutti: e a San Francisco fu fondamentale anche nel rifornire di biglietti per vedere i Warriors).

  

“Immagina”; programma condotto e disegnato attorno a Edwige Fenech, con scene di Alessandro Mendini

Dalla California alla Pontina, gli piaceva celebrare gli amici a tavola. Adorava il rito, più che il cibo. I suoi ristoranti dovevano avere soprattutto una caratteristica: essere al sole. Adorava mangiare all’aperto e a seconda dell’ora e dell’ombra sapeva raccomandare il migliore dehors di Roma o d’America. I suoi preferiti erano il circolo del Polo e il Caffè delle Arti. Cibo non stellatissimo, ma si poteva star fuori. La formula si era perfezionata negli anni, e come scrisse lui in una noterella recente, privatissima: “il format si intitola Miss Lunch. Consiste in un gruppo di amici che si incontrano dall’una in poi al Caffè delle Arti”. “I fondatori sono stati Vincenzo Coscia, Angelo Bucarelli e Paolo Giaccio, che svolge il ruolo di reclutatore”. La convocazione avveniva rigidamente la mattina stessa, con messaggio dopo le undici e appuntamento dall’una in poi. Il costo era calmierato a 30 euro a testa, di cui buona parte andava nelle bottiglie di Franciacorta o di Ceretto che dovevano essere ghiacciate e frequenti. “Anche le Miss pagano la tariffa intera, pur non bevendo, alcune, vino”, precisava il regolamento. Una parola su organizzatori e invitati: Vincenzo Coscia, che l’ha assistito fino all’ultimo, è medico ginecologo, e Paolo lo presentava appunto come “il mio ginecologo”. Angelo Bucarelli, organizzatore di mostre ed eventi, era l’amico fraterno. “Le prime Miss Lunch sono state Mimma Nocelli e Pia Paleologo Clark, cui sono seguite Livia Azzariti, Luisa Costa, Camilla Baresani, Jane Nababi, Moira Anastagi, Gloria Giorgianni, Benedetta Rizzo, Alessandra Mattirolo, Francesca Rizzo, Anna Federici, Marina Sersale, Maria Sole Pantanella, Graziamaria Dragani, Micol Veller, e, più raramente Monia Venturini, Alessandra Fiori, Tatiana Romanoff, Carolina Terzi, Gabriella Buontempo, Laura Carafoli, Anna Giaccio” – l’amata figlia. Scriveva sempre Paolo: “ci sono naturalmente anche dei Mister Lunch come il grande amico e vicino di casa a Sabaudia Roberto D’Agostino”, e poi “Tommaso Ziffer, Michele Masneri, Michelangelo Romano, Piccio Raffanini e più raramente Gaetano Cappelli, Simone Bemporad, Gerardo Greco, Gaetano Sersale, Filippo La Porta, Andrea Palombaro, Luca Macciocca, Domenico Bonaccorsi, Pino Corrias, Mauro Luchetti, Giancarlo Loquenzi”.

 

Era, come si vede, un mistone di età e professioni (scrittori, giornalisti, autori tv), anche se molto rappresentata e incoraggiata era la categoria di chi non aveva mai fatto nulla nella vita, come il fascinoso Pietro de Stefani, barone siciliano, che si vantava di aver dilapidato un paio di patrimoni, che era riuscito a vendere a Berlusconi la famosa villa di Lampedusa e soprattutto aveva in comune anche una moglie con Paolo, la prima – e dunque veniva presentato come “il marito di mia moglie” (liquidata la moglie comune, loro erano diventati inseparabili). Amici cari erano tollerati anche se non si presentavano al ristorante (“Irene Ghergo che non ama la location, Giovanni Parapini e Guido Barendson sempre troppo indaffarati, Felice D’Alfonso che a quell’ora va a remare sul fiume”, l’amico-fratello Paolo Mieli “che non ama le tavolate, Filippo e Andrea di Robilant perché le mogli non li invitano mai”).

   

Dalla California alla Pontina, gli piaceva celebrare gli amici a tavola. Adorava il rito, più che il cibo. E pranzare all’aperto

C’era il gusto di mettere insieme grandi amici con vecchie fiamme, nuove bellezze o vecchie intelligenze; la chiamata a Miss Lunch avveniva anche per cooptazione. Dopo aver letto o visto qualcosa che era piaciuto, si cercava il contatto e avveniva la convocazione. Le tavolate, a volte ristrette, più spesso da dieci o venti, invadevano il ristorante, facendo impazzire il cameriere Gino. Chi passava da lì chiedeva: è un matrimonio? Ma non era un matrimonio, era molto meglio. Era un’unione di fatto di un famiglione molto disfunzionale e affettuoso che si celebrava tutti i giorni, sole permettendo. Con alcuni accorgimenti: la conversazione, ovviamente, doveva essere interessante, gli aneddoti nuovi, il tono mondano-spumeggiante. Non era sempre facile, specialmente quando sapevi che per lui il tempo stava finendo e tu volevi essere solo divertente, e non riuscivi. La noiosità era equiparata solo alla sciattteria dell’abito. Quando arrivava la convocazione tutti terrorizzati andavamo a cambiarci. Fondamentali signore erano state rimproverate infatti per dei sandali troppo moderni, così come certi amici per essere rimasti indietro con le notizie internazionali: “Ma come fai, non sai niente!”. Dopo ogni lunch chiedeva a Gino di fare una foto, che poi mandava a tutti, con delle noterelle intelligenti e affettuose, che scivolavano via leggere; allo stesso modo in cui ha voluto andarsene, in un giorno dopo la tempesta, proprio quando stava per uscire il sole.

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