Film "Segno di Venere" con Alberto Sordi e Sophia Loren (Foto LaPresse)

Fotoromanzo italiano

Simonetta Sciandivasci

Siamo passati dalle storie lacrimevoli di Liala agli amori di Salvini e di Signorini. Metamorfosi dei giornaletti dal multiforme ingegno

Per fortuna ci sono rimasti i fotoromanzi a tener alto l’umore della truppa. Direte, ma come, ma chi li legge più, chi li pubblica più, sono preistoria, e sì che eran belli, anche se un po’ troppo romantici, e anche patetici, però simpatici, di certo unici. E invece no, signori, i fotoromanzi sono come noi, intorno a noi, parlano con noi, e si sentono meglio. Sono antropocene, altro che preistoria.

 

Cos’altro credete che siano Chi e Oggi e le Instagram stories e certi colonnini di Dagospia? Eredi, spin off, reboot e, più precisamente, nuove forme di Grand Hotel, Sogno, La vita cambierà, Più forte del destino.

 

Le foto in sequenza, le didascalie colorite, i paratesti interni, le storie d’amore lacrimevoli però mai tragiche e sempre a lieto fine (o con finale di riscatto, che pare essere ormai la letizia più duratura), la narrazione empatica, accogliente, domestica, e però anche sognante, aspirante, sospirante, la realtà selezionata e modificata e filtrata in modo da sembrare inconfutabile (c’è la foto, quindi c’è la prova).

 

Chi, Oggi, le Instagram stories sono spin off, nuove forme di Grand Hotel, Sogno, La vita cambierà

“Quattrocentomila donne piangono la morte di Lalla Acquaviva. Provveda”. Così scrisse Angelo Rizzoli ad Amalia Liana Negretti Odescalchi, in arte Liala (fu D’Annunzio a coniarle lo pseudonimo), una delle più note scrittrici di romanzi d’appendice del primo Novecento italiano, dai quali il fotoromanzo discende per via diretta, naturale. Erano gli anni Cinquanta, ai lettori e soprattutto alle lettrici era proibito arrecare ambascia, togliere eroine, ricordare che con la fine della guerra non sarebbe finita anche la morte. Il primo numero di romanzi illustrati pubblicato sul settimanale “Confidenze di Liala” (Mondadori) uscì il 22 dicembre del 1946, più che le foto c’erano i disegni, tre anni dopo era già il contrario e di fotoromanzi parlavano tutti, tanto che Michelangelo Antonioni s’interrogò sul loro fascino nel documentario “L’amorosa Menzogna” e in “Riso Amaro” Silvana Mangano stringeva una copia di Grand Hotel mentre viaggiava sul treno diretto alle risaie. Un decennio dopo, visti i guadagni che assicurava, molti attori si misero a produrne a cottimo, in proprio: Vittorio Gassman ne interpretò parecchi e usò i soldi che gli fruttarono per sovvenzionare il suo teatro, molti altri li usarono come trampolino di lancio per la carriera cinematografica o televisiva e non sempre a buon fine: spesso gli attori di fotoromanzi non avevano talento, bastava che avessero facce espressive, ad animare davvero la storia ci pensavano le didascalie, e i fumetti (a proposito di manipolazione del visivo, attività tipica della cultura occidentale, esercitata in modo più o meno malizioso, o capzioso, a volte soltanto divulgativo – Vasari diceva che le parole scritte sulla superficie delle immagini erano “stampelle per coloro che non sanno camminare da soli”).

 

Matteo Salvini è fotoromanzesco per vocazione, di quello contemporaneo, che è un po’ min un po’ cul un po’ pop

Era, il fotoromanzo, un “dispositivo perfetto”, assai più del rotocalco, e nacque come “contenitore vario”, definizione, questa, che scrive Silvana Turzio nel suo studio “Il fotoromanzo, metamorfosi delle storie lacrimevoli” (Meltemi), per quanto banale, se fosse stata accolta e capita sin dall’inizio dai detrattori del genere, avrebbe impedito loro di “sentirsi feriti dal contenuto melodrammatico del fotoromanzo, che era solamente uno dei tanti possibili”. In questo paese gli intellettuali storsero il naso e allargarono le narici per “La Storia” di Elsa Morante, avrebbero mai potuto accogliere i fotoromanzi? Gli avversarono perfino i francesi, figuriamoci: Andrè Wurmser, un redattore di Regards che era stato anche segretario del Comité de vigilance des intellectuels antifascistes e membro del Comitato degli Amici dell’Unione Sovietica e del Comitato per la dignità della stampa femminile, scrisse che il genere “rosa” trasmigrato nei fotoromanzi aveva addirittura un potere malefico, e fece anche i conti in tasca all’editoria popolare, di cui un quarto era composta proprio da giornaletti di storie lacrimevoli, per sottolineare quanto pericoloso fosse che 13 milioni di lettrici francesi si dedicassero a quella robaccia, che faceva incassare ben 6 miliardi di franchi a “produttori amorali”.

 

In Italia tanto la Democrazia cristiana quanto il Partito comunista ebbero da dire, allertare, dibattere, e per entrambi, spiega Turzio, la questione s’inseriva in una più ampia riflessione sugli stili di vita emergenti e conseguente lotta per destrutturarli (specie quando quegli stili erano d’importazione statunitense), che a sua volta era funzionale a vincere la partita elettorale.

 

E a chi di noi non viene per un attimo il dubbio di aver avuto un passato così fotoromanzesco, anche senza Carla Sozzani e Naomi Campbell, o forse sì, nei sogni che son desideri, se non di felicità almeno di buon umore

Entrambi i partiti s’interrogavano su come dialogare con le masse e soprattutto con le donne, che della masse erano la parte meno raggiungibile, diciamo acchiappabile: molte di loro erano analfabete, disinteressate alla politica, estranee al dibattito pubblico, escluse e recluse senza neanche averne contezza, rassegnate alla minorità, alla cittadinanza confinata al piccolo mondo antico domestico. Il fotoromanzo, sin dalla sua nascita, e anzi sin da prima della sua nascita, quindi nei suoi incubatori (i romanzi rosa d’appendice), dialogava facilmente con i lettori, ne intercettava i bisogni, l’immaginario, le aspirazioni. La sinistra no (certe cose non cambiano mai, tornano sempre, e senza fare giri immensi), e ne era consapevole: “Gli uomini di cultura italiani, anche di sinistra, anche comunisti, non sanno quali siano le esigenze culturali dei lavoratori”, scrisse Lucio Lombardo Radice, collaboratore dell’Unità e responsabile della sezione Scuola del Pci. Per una parte del partito, quella più convinta che l’idea della vita collettiva promossa dall’Urss fosse il giusto impianto sociale cui tendere, i “racconti sentimentali” erano “invasioni incontrollabili della soggettività amorosa”, e pure “consapevoli inganni perpetrati da editori senza scrupoli che inducono a immaginare mondi irraggiungibili”.

 

In questo, comunisti e cattolici la pensavano allo stesso modo: i sogni e la licenziosità distoglievano dalla militanza e dall’osservanza dei precetti religiosi. “Vogliamo ricordare alle ragazze che sono stati scritti altri libri, che esistono altre letture che sanno rispecchiare le loro aspirazioni e i loro sogni, che sanno anch’essi essere appassionanti, perché parlano della più grande delle avventure, che è la nostra vita d’ogni giorno, perché esprimono il più grande dei sogni, quello di una società giusta di liberi e uguali”, scrisse Enrico Berlinguer nel 1949. Buco nell’acqua. Le ragazze volevano soltanto divertirsi. Non volevano sognare la giustizia sociale, ma un amore furioso. avversato e però irreprensibile, vincente. E non hanno mai smesso. La loro emancipazione passava da lì, è passata da lì, dal potersi smarcare dal dovere verso il collettivo, rintanarsi nel privato, poter fantasticare, scollegarsi dal reale e immergersi nell’ideale.

 

Era un “dispositivo perfetto”, assai più del rotocalco, e nacque come “contenitore vario” che non includeva solo storie lacrimevoli

Nilde Iotti si disse contraria pure ai fumetti perché “le donne lì hanno tutte le stesse natiche a semiluna, i seni che sporgono, la veste attillata”. A lei i fumetti e i fotoromanzi non piacevano perché più che da leggere erano da guardare. Gianni Rodari le rispose

che “il bisogno di vedere” era una parte fondamentale del “bisogno di cultura”, scatenando un bel vespaio nel dibattito intellettuale di un paese come il nostro: iconoclasta (almeno nell’informazione e nella veicolazione culturale).

 

Nel ’68 le cose cambiarono, qualche femminista riuscì a far capire che dare in lettura a compagne potenziali “album a fumetti con i celebri romanzi d’amore e di lotta in cui venga condannata questa società” avrebbe potuto essere uno strumento di educazione politica assai potente. La critica si fece in tempo, come diceva qualcuno, e fece effetto: comparvero fotoromanzi su Noi Donne, rivista dell’Unione donne italiane, Cesare Zavattini prese il coraggio per dire che dei fotoromanzi si poteva e doveva fare “uno strumento in più d’espressione”, Jean-Luc Godard adottò il cineromanzo come supporto pubblicitario del suo “Fino all’ultimo respiro”, nelle trame di “Più forte del destino” cominciarono a comparire personaggi il cui sogno d’amore era ostacolato dal perbenismo e dal conformismo borghese. Persino Famiglia Cristiana s’arrese e comprese l’efficacia del “fotoromanzo del consenso” e prese a pubblicarne. Nel 1975, lo psicologo Luigi De Marchi pubblicò “Noi giovani”, un fotoromanzo che “all’orientamento matrimonialista e multinatalista della vecchia generazione oppone un nuovo modello di unione libera e di ridotta prolificità” (i protagonisti erano Paola Gassman, figlia di Vittorio, e Ugo Pagliai, niente di meno).

 

Nell’aprile del 1985 venne pubblicato il primo numero di Lucciola, su cui scrivevano Nichi Vendola, Lucia Poli e Barbara Alberti, che ne disse questo: “Mi piace, lo compro, lo leggo perché sono affamata di controinformazione. E’ elegante, intelligente, ahimè costoso, e finalmente c’è il fotoromanzo!”.

 

E così era: al centro della foliazione, i numeri di Lucciola, che si occupavano di prostituzione e “temi civici molto distanti dalle preoccupazioni politiche dei partiti tradizionali”, diciamo pure di temi radicali, ospitavano sempre un fotoromanzo. Che parabola avventurosa.

 

Nelle settimane piuttosto concitate dell’affaire Isoardi-Salvini, quando quel selfie con dida di Gio Evan – fotoromanzo in purezza, ammetterete – ci fece entrare per la prima volta nella storia della Repubblica nel letto di un ministro dell’Interno, e lo fece con una fotocamera, neppure nascosta, Oggi pubblicò diversi servizi su Matteo Salvini. In quasi tutti, era ritratto (cioè consensualmente paparazzato) con i figli, in montagna, al parco, in città, vestito da uomo qualunque, e senza la felpa che ha reso divisa istituzionale del passo successivo a quello dell’uomo del fare: l’uomo che fa in mezzo alla gente. In una didascalia di Oggi era scritto “ecco il ministro che si distrae al parco e si dà una grattatina”.

 

Italiani, il ministro è single, e un po’ zozzone, ma è un ottimo padre, quindi state buoni se potete.

 

La didascalia del fotoromanzo, prima ripudiato dal potere, poi temuto, poi consumato, poi assunto e perfino assorbito, è diventata esattamente questo: la sceneggiatura dei tempi morti e, meglio, la sceneggiatura che nobilita i tempi morti. Quelli che distinguono la vita vera dai film. Quelli in cui non si sogna, ma si sta. Quelli in cui tutti gli uomini sono uguali.

 

“Nonostante i tanti impegni sono genitori presenti e premurosi”: è la dida di una delle foto del servizio su Totti e sua moglie Ilary Blasi, che Chi ha pubblicato questa settimana. Nello scatto, si vede semplicemente Francesco Totti che tiene per mano la figlia al mare.

 

La stampella di cui parlava Giorgio Vasari è diventata una velina, uno storyboard.

 

Matteo Salvini viene molto bene su Oggi e Chi, ha capito che agli italiani piace e incuriosisce chi ci finisce sopra. Luigi Di Maio, invece, è rimasto ai tempi di Liala ed è terrorizzato che qualcuno possa rimproverarlo di aver ucciso un baluardo, un sogno, una promessa. Per questo, si fa paparazzare in modo studiato (e tenta di nasconderlo, con risultati grotteschi: qualcuno aveva fatto notare, quando uscirono le sue foto al parco con la nuova fidanzata, Virginia Saba, che “uno scoiattolo s’era trovato a passare”) e dà la favola al paese che invece vuole il reality.

 

Per il Pci i “racconti sentimentali” erano “invasioni incontrollabili della soggettività amorosa”, “consapevoli inganni”

Solo il reality ci sfoga, ci mette di buon umore, ci dà l’impressione di fare piazza pulita e, prima, di poter mettere tutto in piazza (operazioni nelle quali Salvini è maestro). Certo, Di Maio d’esser fotogenico è fotogenico, d’espressivo è espressivo – mai quanto Dibba, che però è attore di Living Theatre – e tra le regole auree e quindi immutabili del fotoromanzo c’è che gli attori questo debbono essere, e niente di più (al resto pensano le redazioni). E’ anche plastico, forse pure troppo, e questo lo inchioda ulteriormente a Laila e a un tempo di cui si può avere nostalgia come di certi amori di cui si benedice la fine dopo certi rosari laici. Matteo Salvini, au contraire, è fotoromanzesco per vocazione, del fotoromanzesco nuovo, che è un po’ min un po’ cul un po’ pop, per una parte, mentre per l’altra continua ad assolvere a quella funzione che faceva sospirare Barbara Alberti, a metterci di buonumore impepando la narrazione dell’attuale con i sogni e con la malizia, unici ed efficaci infrangitori di tabù.

 

Il governo gialloverde è il protagonista perfetto del nuovo fotoromanzo all’italiana e ne usa i giornaletti come mezzo prediletto dei suoi proclami. Chi e Oggi sono il resoconto stenografico emotivo di questa legislatura. E poi c’è il gossip, che gossip non è più.

 

“Auguri, Afef, amica mia, sarai ancora una volta una splendida sposa!”, ha scritto Alfonso Signorini nel suo ultimo editoriale, tutto dedicato alle quarte nozze di Afef Jnifen, che con lui ha condiviso anni in cui “ci divertivamo con niente, come piaceva a noi”, e cioè dividendo l’una il suo tempo con Carla Sozzani, Naomi Campbell ed Elton John, e l’altro facendo il giornalista di belle speranze che passava a prenderla in utilitaria e la portava in giro per Milano a cantare a squarciagola “con il tettuccio della Mini aperto”.

 

E a chi di noi non viene per un attimo il dubbio di aver avuto un passato così fotoromanzesco, anche senza Carla Sozzani e Naomi Campbell, o forse sì, nei sogni che son desideri, se non di felicità almeno di buon umore.

 

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