Perché l'Europa per salvarsi deve ripartire dall'Iliade

Ferdinando Cancelli

La necessità di riscoprire quella semplice linearità senza finzioni che è il segno del genio greco, un genio che secondo Simone Weil è passato anche nel Vangelo

“Nulla di ciò che hanno prodotto le genti d’Europa vale il primo poema conosciuto che è apparso nel seno di uno di questi popoli. Essi ritroveranno forse il genio epico quando sapranno che niente è al riparo dalla sorte, quando mai ammireranno la forza, quando non odieranno i nemici e non disprezzeranno gli infelici. C’è da dubitare che ciò sia da attendersi a breve”.

 

Simone Weil rilegge l’Iliade, “una cosa miracolosa (…), la sola vera epopea che possieda l’occidente”, alla vigilia del tragico inizio della seconda guerra mondiale, tra il 1937 e il 1938, in un breve, curatissimo articolo intitolato “L’Iliade o il poema della forza”. Il suo scritto, riletto a distanza di più di ottant’anni, non perde nulla del geniale vigore intellettuale che lo generò e anzi, di fronte ad un’Europa più che mai in cerca di unità, offre spunti interessantissimi.

 

Senza dubbio potrebbe essere utilizzato per introdurre nelle scuole la lettura di un’opera, l’Iliade appunto, che ha segnato la nascita della cultura europea. Un poema nel quale l’uomo riflette sugli esiti della “forza”, “il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade” come scrive la Weil. Attraverso molte citazioni da lei personalmente tradotte dal greco, Simone Weil ci introduce nel soggetto. La forza, uno dei volti della materia, “maneggiata dagli uomini” finisce per sottometterli e per modificarne gli animi, per “cosificarli”. “C’era qualcuno e, un istante più tardi, non c’è più nessuno”. Le battaglie, gli scontri fratricidi, gli omicidi sono descritti nel poema omerico con grande e tragica lucidità, e “l’amarezza di un tale quadro noi possiamo assaporarla pura, senza che alcuna confortante finzione venga ad alterarla, senza alcuna immortalità consolatrice, senza nessuna sbiadita aureola di gloria o di patria”. Alcune scene di vita normale passano rapidamente davanti agli occhi del lettore, improvvisamente e poi “velocemente cancellate”: è un mondo “altro, lontano, precario e toccante, quello della pace, della famiglia, quello dove ogni uomo è per coloro che lo circondano ciò che conta di più”. Così rapidamente si tramuta in illusione il bagno caldo preparato a casa di Ettore per il ritorno dalla battaglia: “quasi tutta la vita umana – scrive Simone Weil – si è sempre svolta lontano dai bagni caldi”; così “la fontana alle porte di Troia diventa un oggetto di rimpianto struggente quando Ettore le passa davanti correndo per salvare la propria vita”. Pochi accenni, poi rapidamente torna la brutalità della forza imperante, un impeto “grossolano” che porta a considerare gli altri come degli oggetti, che rende totalmente insensibili a quel “potere” che, “per la loro sola presenza” gli esseri umani hanno su di noi (“non ci si alza, non si cammina – descrive acutamente l’autrice – non ci si siede nella propria camera allo stesso modo quando si è soli o quando si è in presenza di qualcuno”). Il pensiero stesso, quello che dovrebbe avere spazio tra lo slancio dell’intenzione e l’atto, quello senza il quale “non c’è nel mondo né prudenza né giustizia”, è soffocato in condizioni di dominio della forza e gli uomini agiscono “duramente e follemente”, in preda “ad una forza cieca”, “privati delle loro facoltà”, “caduti loro stessi al rango della materia inerte che non è che passività”.

 

Ma nell’Iliade tutta questa “amarezza che deriva dalla tenerezza e che si stende su tutti gli esseri umani, uniforme come la luce del sole” è espressione di un tono generale che, senza finzioni, “non scade mai nella lamentela”. Ovunque vi sono “accenti di giustizia e di amore”, “nulla di prezioso, destinato a non perire, viene disprezzato”, “la miseria di tutti è descritta senza dissimulazione o disdegno, nessun uomo viene posto al di sopra o al di sotto della condizione comune a tutti gli uomini”, “tutto ciò che è distrutto è rimpianto”, “vincitori e vinti sono vicini allo stesso modo” e, se c’è una differenza, “è che la malasorte dei nemici è forse percepita ancor più dolorosamente”.

 

Ecco perché, sembra dirci Simone Weil, se l’Europa vuole salvarsi deve ricominciare a guardare la propria cultura con sguardo nuovo e profondo, deve riscoprire quella semplice linearità senza finzioni che è il segno del genio greco, un genio secondo lei passato anche nel Vangelo. “Il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore”, conclude la Weil, e “nulla è più raro che una giusta espressione dell’infelicità”. L’Iliade, le tragedie greche, il Vangelo: la loro rilettura è come un antidoto al dominio delle emozioni e della superficialità, è come una mappa per ritrovare la strada di un’Europa che almeno da qualche parte e in qualche tempo è già esistita ed è ancora tra noi.

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