una fogliata di libri

Vittorio Coletti e l'esperienza viva di una lingua viva

Matteo Marchesini

I saperi che rimangono a lungo nell’esistenza degli esseri umani sono quelli appresi per amore: e lo dimostra prima di tutto appunto l’esempio delle lingue

Ormai l’articolo sull’impoverimento della lingua è un vero e proprio genere giornalistico. Ogni giorno ci si può attaccare agli strafalcioni di qualche leader, già amplificati in modo abnorme da una registrazione della vita quotidiana praticamente senza pause. Quando poi arriva la maturità, o escono libri sulla scuola, il numero dei corsivi s’impenna. Di rado però gli autori riconoscono nel rigore da grammar nazi un frutto speculare della stessa angustia, o notano che nessuna overdose d’istruzione potrà attenuare l’analfabetismo funzionale, se i contesti in cui s’impara non sono avvertiti come situazioni piene di senso. I saperi che rimangono a lungo nell’esistenza degli esseri umani sono quelli appresi per amore: e lo dimostra prima di tutto appunto l’esempio delle lingue.

 

Cos’è l’esperienza viva di una lingua viva ce lo ha ricordato Vittorio Coletti in “L’italiano scomparso”, uscito l’anno scorso dal Mulino. Accademico della Crusca, Coletti è stato di recente al centro di un dibattito virale (ecco una parola egemone) sull’ipotesi di sdoganare (eccone un’altra) la transitività di verbi che avrebbero il complemento oggetto solo nella versione causativa: “fa’ sedere”, “fa’ uscire” si rilassano così in un “siedi il bambino”, “esci il cane”.

 

Esplorando le perdite della lingua, il suo saggio ne descrive il complementare arricchimento attraverso i secoli. “Se coloro che partiron d’esta vita già son mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante”, osservava già Dante nel “Convivio”. Brano comprensibile, malgrado gli arcaismi: infatti la prosa argomentativa, spiega Coletti, è quasi subito moderna; mentre le novelle del “Decameron”, con le loro subordinate ritardanti e i costrutti alla latina, richiedono spesso una parafrasi. Più che nel lessico o nella morfologia, la “gente” diventa presto “strana”, cioè straniera, nella sintassi, che all’inizio è sbilenca, ripetitiva, fatta per l’orecchio, e a partire dalle norme cinquecentesche, che coincidono con la diffusione della stampa, si razionalizza invece per l’occhio. I grammatici guardavano allora al fiorentino aureo del Due-Trecento e delle tre corone. Il fiorentino cosiddetto argenteo, sodo e ribobolante, quello di Machiavelli o Guicciardini che oggi riecheggia nei fantozziani “vadi” o “facci”, prese al contrario una via regionale. “E’ gl’andonno, lo prendonno e lo manganellonno”: così, verso il 2005, m’illustrò la sorte di un amico antifascista un loro fiero erede tosco che sapeva a memoria i sonetti di Neri Tanfucio. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio si conserva intatta nella poesia fino all’Ottocento di Leopardi, di Manzoni e della riduzione all’assurdo dei libretti d’opera, con le “egre soglie”, i “delubri”, i “brandi”; ma perfino Montale e Gadda, dopo D’Annunzio, continuano a incastonarne i gioielli nelle loro opere. Fuori da quell’empireo, però, tutto cambia, non secondo il tempo lineare della biologia ma secondo il tempo elastico della cultura. Una peste, una rivoluzione sociale o tecnologica possono trasformare il vocabolario in poche stagioni. Non è detto comunque che il nuovo prevalga sul vecchio: a volte dei termini pluricentenari ne strozzano altri ancora in culla. Il lessico reagisce ovviamente all’apparizione di oggetti mai visti, ma specie nei sostantivi astratti anche all’inventività dei più colti.

 

Certi ritorni sono curiosi. Nell’effimero gergo politico, il “ribaltone” percepito a metà anni Novanta come un neologismo era già stato usato in piena Prima repubblica. Anticamente non era errore rafforzare il superlativo con un “troppo bellissima”, e ora l’espressione riaffiora tra i giovani mentre le regole scritte cedono alle rapide metamorfosi del parlato. Ma se i ricorsi e le novità compensano le perdite, una lingua rischia tuttavia di scomparire appena smette d’indicare “gli sviluppi del pensiero e della società”. Cancellandola, direbbe qualche barbaro potente, noi asfaltiamo una visione del mondo. E a proposito di potere, va tenuta presente l’obiezione che a don Milani mosse Fortini, secondo cui chi comanda non ha sempre una maggiore conoscenza delle parole. A volte, anzi, lo fa con più agio perché usa una lingua in cui i molti nomi che esprimevano le sfumature di una certa cosa si sono ridotti a un solo concetto strumentale. L’ombra del dominio è particolarmente evidente là dove l’impiego di una parola straniera non è necessario, ma dipende da un omaggio zelante ai vincitori. Quando si è invitati come discussant a un panel sullo stato dell’italiano vuol dire che è tardi, sempre più tardi; e che ci si avvia a utilizzarlo in piccoli gruppi, sottovoce, unplugged.

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