Rosso veneziano

Corrado Beldì

Da Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia, alla Red Regatta. A passeggio per la Biennale sulle tracce di un colore

Una stazione di servizio Ip, in mezzo ai campi a Borgo Val Tidone, sotto le prime colline del piacentino, una strada dritta come uno sparo di fucile, di tanto in tanto ci passo a far gasolio, due chiacchiere con suo padre Piero, il gabbiotto, i calendari, le foto della caccia al cinghiale. Zona rossa, almeno ai tempi che furono e tanti figlioli coi nomi dell’est. Milovan Farronato viene da lì e si è fatto da solo come altri figli dei benzinai, tipo Joe Cocker che da Sheffield ha conquistato il mondo. Conosco Milovan da vent’anni, infatti sto correndo all’Arsenale perché quest’anno il curatore del Padiglione Italia è proprio lui. Avrei preferito venirci a luglio, la Biennale non si può perdere, ne ho già viste ventuno e se campo quanto Dorfles potrei arrivare anche a cinquanta. La mia prima è stata a sei anni, era il 1979 e il Teatro del Mondo di Aldo Rossi me lo ricordo bene, era un miraggio all’ingresso del Canal Grande, la laguna abbagliava mentre inseguivo mio padre su una riva degli Schiavoni più deserta che mai. Invece oggi c’è una marea di gente e il vero sforzo è non parlare con nessuno, la vernice è come una spiaggia in cui non riesci ad ascoltare il mare, a ogni passo incontro qualcuno e arrivano raffiche di whatsapp su cosa vedere. E’ come una partita fallosa, se non ti smarchi il gioco effettivo si riduce a nulla.

 

Guardo tutto il tempo per terra, come anni fa mi ha insegnato a fare Jimmy Durham, era venuto a Milano per fare un ritratto alla città e aveva riempito mille scatole di oggetti trovati per strada e ognuna era diversa dall’altra. Un paesaggio così potrei farlo anch’io, sono i vantaggi dell’arte concettuale, non siamo ai tempi di Canaletto, niente più pigmenti né giorni col pennello in mano. Basta avere qualche buona idea. Purtroppo, vedo soltanto tappi e cicche di sigaretta, se trovassi un quadrifoglio potrei portarlo a Jimmy, gli hanno dato il Leone d’oro alla carriera ed è meritatissimo, corro subito a vedere il suo bestiario, c’è un armadio con un cranio di bufalo, nella mia nuova casa sarebbe perfetto, peccato che ormai costi un patrimonio. Meglio buttarsi sugli esordienti, collezionare arte è come giocare al fantacalcio, c’è una sottile eccitazione, speriamo tutti di aver preso il prossimo Picasso ma poi ci ritroviamo con la casa piena di orrori. Non sono l’unico con questa mania, ho sempre le antenne alzate, anche su chi vincerà gli altri premi della Biennale. Tra gli amici fioccano le scommesse. C’è chi punta sul padiglione lituano ma il mio cuore batte altrove. Tifo Haris Epaminonda, Tomás Saraceno e Cyprien Gaillard. Il mio terno sulla ruota della Biennale.

 

Gli artisti in mostra sono settantanove e alcuni hanno portato dieci opere o video di un’ora, vedere tutto da cima a fondo è un’impresa impossibile. Faccio un’eccezione per il padiglione del Ghana, c’è un film di Selasi Awusi Sosu, hanno chiuso una fabbrica di bottiglie e gli operai si sono dovuti reinventare, la manodopera non manca, ci sarebbe da aprire qualche nuova attività. Forse dovrei andarmene a vivere ad Accra, si sta al caldo, la musica è stupenda e potrei allenarmi ogni mattina con Azumah Nelson, il più grande pugile africano dopo Siki, ha una palestra sgarrupata di quelle che piacciono a me, piena di rumori e umanità. Come i vetri sottili di Teresa Margolles, sono fragili come la vita e chissà come fanno a resistere alle vibrazioni dei treni e agli annunci di donne scomparse. Anche Lara Favaretto ha tentato di scomparire, si è immersa in una colata di calcestruzzo e ci è rimasta fin quando è diventato così duro da non riuscire quasi a muoversi. I segni nel cemento raccontano la sua lotta per uscirne. Un giorno dovrei provarci anch’io, questi blocchi sono una forza della natura, fossi stato il curatore ne avrei messi almeno cento per l’Arsenale e senza niente intorno, invece Ralph Rugoff ha scelto di ammucchiare gli artisti e chissà che fatica poveretti a dividersi certi spazi in cinque. C’è scampo solo per i videoartisti, loro almeno hanno una stanza tutta intera ed è una vera fortuna, così posso fermarmi un’oretta a guardare il video di Christian Marclay, che ha messo insieme 48 film di guerra, in verità soltanto i bordi ma i suoni si sommano e l’effetto è potentissimo, non ha inizio né fine e dura per sempre, senza mai ripetersi, proprio come la guerra.

 

Anche le Corderie non finiscono mai e si capisce, ci filavano i cordami della Serenissima, cammino da tre ore e ho una gran voglia di un gelato e quello della Biennale è una garanzia, il peggiore dell’anno e mi va pure di traverso quando vedo il barcone che Christoph Büchel ha portato fin qui dalla Sicilia. Ottocento migranti morti in mare il 18 aprile 2015, aveva ragione Thomas Stearns Eliot, aprile è il più crudele di tutti i mesi, genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera, è un pugno nello stomaco, butto il cono in un cestino e per un attimo penso che dovrei andarmene via. Ci pensa Milovan a farmi cambiare umore quando arriva coperto di un rosso che non saprei, forse ha qualcosa a che fare con Venezia, giacca, pantaloni e pure le pantofole ed è rosso anche il Negroni e anzi sono due e questo è per il Beldì, lo stringo forte ed entriamo insieme nel suo labirinto a inseguire i ricami di Enrico David e un gran tappeto di Liliana Moro e gli ombrelloni che sanno di Romagna e soprattutto i ricordi di Chiara Fumai, una vita irregolare e chi l’avrebbe mai detto, il disegno sul muro è un progetto irrealizzato, ripensato cento volte e svanito con lei, anche il titolo s’era perso ma Milovan l’ha ritrovato in una lunga mail di Capodanno, this last line cannot be translated. Continua a parlare ma ho smesso di ascoltarlo perché ripenso ai tanti frame della nostra amicizia, la mia festa dei trenta e le serate a Stromboli, il memorabile pollo marocchino di Rita Selvaggio e le code da Mimmo al kebab in via Farini e poi l’amica americana che mi aveva piazzato sul divano, vedrai che starà tre giorni al massimo e invece era stata per sei mesi e io a insegnarle parole indispensabili per parlare un italiano perfetto come scosceso e imbrunire e poi a East London a cercare una certa curatrice coreana dietro un bus mezzo bruciato, sembrava una scena alla Ken Loach ma era l’inizio della sua una nuova storia inglese che in effetti l’ha portato fino a qui, Milovan mi ha raccontato un mese fa la sua idea del labirinto e a essere sincero non ci ho capito una mazza, ma certo avrei voluto essere con lui quando l’hanno chiamato dal ministero per dirgli che avevano scelto il suo progetto per la Biennale, era a Birmingham al Selfridges di Future Systems, l’unico centro commerciale al mondo dove mi sia venuta voglia di entrare, alla fine della telefonata si era chiuso tutto solo a esultare in un camerino e poi sul treno a brindare con strisce di tequila in un lungo viaggio verso Londra.

 

Di certo in mongolfiera avrebbe fatto molto prima, bastava chiedere a Tomás Saraceno che continua a menarla con la sua idea di città sospese, trascinate dai venti intorno al mondo, più verde di così si muore, anche lui una volta ci ha provato attaccandosi a un pallone, ho la foto appesa in cucina, aveva fatto un bel volo e atterrando per poco non si rompeva l’osso del collo. Quando si dice che l’arte è pericolosa. I suoi lividi me li ricordo bene, d’altra parte anche a me sono venuti i piedi gonfi a camminare per la Biennale, come alla moglie di Alberto Sordi in Vacanze intelligenti e in effetti ci vorrebbe una stanza come quella, una sedia e una palma per far finta di essere una scultura di John De Andrea, potrei chiudere gli occhi e farmi un pisolino, quasi quasi mi piazzo in quella torretta laggiù in fondo che non si fila nessuno, mi avvicino, è buio e c’è pure una bella panchina. Mi sdraio ma parte una proiezione, è proprio il video di Cyprien Gaillard, una bella fregatura, ho scommesso su di lui e mica me ne posso andare. Ci sono fossili imprigionati nei marmi di una stazione che potrebbe anche essere a Mosca, poi ecco una chiatta piena di vagoni dismessi della metro di New York, una gru li prende e li butta in mare, si aggrovigliano sul fondo in una specie di barriera e arrivano i pesci e presto cresceranno i coralli e saranno coperti di sedimenti e forse tra seicento milioni di anni nelle lastre di pietra cavate laggiù troveranno maniglie con scritto Manhattan. Rimango ipnotizzato e lo guardo tre volte di fila e c’è da preoccuparsi perché sono all’inizio e ho ancora una marea di cose da vedere, la Biennale non finisce più e le mostre sono ovunque, in città, in laguna, persino a Mestre, finiranno per farne un pezzo anche a Rovigo. Per fortuna ho un biglietto per domani, voglio vedere il lavoro di Kaari Upson che ha una vera ossessione per sua madre, ero capitato per caso alla sua prima mostra e c’era una lattina di pepsi in cemento e l’avevo comprata senza pensarci, però poi quando me l’hanno spedita ho scoperto che le lattine erano quattrocento e adesso non so più dove cacciarle, ho lattine di cemento ovunque, negli armadi, in garage, sotto il divano e pure in frigorifero, del suo My Mother Drinks Pepsi ormai non ne posso più, al prossimo giro mi prendo un video, così lo salvo sul computer e ho risolto una volta per tutte.

 

Dovrei cominciare dal film che racconta la vita degli esquimesi, c’è l’incontro del vecchio Noah Piugattuk con un inviato del governo canadese. Siamo nel 1961, il paesaggio è di un bianco abbagliante e c’è una ferrovia da costruire e Noah non vuole andarsene dai suoi ghiacci e ci credo, dove lo trovi un posto come quello e poi anch’io non mi farei mai cacciare da Oleggio, il dialogo è serrato ma i motivi per resistere ci sono, la memoria delle cose primordiali, il grasso di foca, una lingua da difendere, le storie degli avi e poi il suo amatissimo igloo, cacciarlo sembra proprio impossibile ma poi lo convincono con la promessa di una casetta con tanto di stufa elettrica, maledetta globalizzazione, ora i suoi nipoti saranno tutto il giorno rincoglioniti davanti ai social, non potevano spiegargli meglio come sarebbe andata? Le ragioni dei No Tav per una volta mi conquistano, sarà che sono esquimesi e poi il padiglione del Canada lo adoro, per amore e non solo, è lo sviluppo di una tenda indiana, protetta ma aperta sulla natura, tutto vetri e legno, con due alberi passanti e garguglie in alluminio e c’è un bel muro di mattoni facciavista, l’ha disegnato BBPR ed è tutto così armonioso, non esiste ai Giardini un edificio che racconti così bene lo spirito del suo paese.

 

Stavolta è d’accordo anche la mia amica Miroslava Hajek, lei di resistenza se ne intende, era bella a Praga in piedi sul carrarmato sovietico nell’agosto del 1968, poi l’avevano condannata a morte per sovversione e chissà come era fuggita a Novara, il posto meno cool di tutto l’occidente e nella grigia provincia si era messa a fare mostre di Beuys, Munari, Tinguely, Colombo e di Vaccari, ricordo le polaroid scattate sulla via di Ferrara per la mostra su Ariosto e poi tanti artisti cecoslovacchi che nascondeva a lavorare in garage. Anche Stanislav Kolibal era stato da lei. Le sue opere di corda degli anni Settanta sono fatte di niente, pensavo fosse morto da tempo invece a novantacinque anni è qui che sorride come un bambino e allora Miroslava come al solito mi spiega le ragioni per cui non esiste un artista più bravo, fa così con tutti quelli che le piacciono e per fortuna non mi chiede come sto, ogni volta ripenso alle sue cene di Natale davanti al camino, a mezzanotte ci obbligava a fare antico rito praghese di fusione di piombo, con crogiuolo e bacinella e lei a leggere nel metallo il futuro di ciascuno, ogni anno cercavo di migliorare il tiro ma era sempre peggio, tipo vedo sei immerso in grande mucchio di letame e altri simili squarci di ottimismo.

 

Invece non si direbbe, in questi giorni mi sento fortunato, sul lavoro, in amore e poi quante sorprese, mentre corro in una calle qualsiasi trovo uno che somiglia a Joseph Kosuth, guardo meglio, è proprio lui, l’inventore del concettuale, l’uomo che ha dato speranze ad artisti che non saprebbero disegnare nemmeno un fiore, è seduto su una sedia, come la sua One and Three Chairs del 1965, un’idea che ha cambiato la storia dell’arte e anche la mia vita, quando vedo un’opera che non capisco la desidero da morire, mica mi accontento delle lattine, ho la casa piena zeppa di cumuli di sabbia, opere sonore, busti di cioccolato, prove di discussioni, quando i ladri sono entrati non sapevano cosa prendere, poi hanno visto una scatola di cartone e l’hanno divelta e dentro ce n’era un’altra e poi un’altra ancora e alla fine di tutte queste scatole al centro c’era una pietra e ovviamente non l’hanno portata via, ma intanto hanno distrutto per sempre la mia scultura di Ryan Gander.

Dovrei raccontarlo a Joseph Kosuth ma non ho un minuto da perdere, un amico può imbucarmi al Guggenheim solo se mi presento all’istante, c’è una mostra di Hans Arp ed è una vera gioia per gli occhi, i suoi primi collage, l’amicizia con Kurt Schwitters e le sculture che avvolgono l’aria, mi viene nostalgia di mio padre, a quest’ora vorrei tanto aggirarmi qui con lui, come ai vecchi tempi. Il gioco era sempre lo stesso. Quale porteresti a casa? Mio padre avrebbe scelto il Risveglio del 1938, un uomo che si fa germoglio o forse il contrario, io invece avrei preso Concrezione Umana del 1934, una figura che sembra fuggire dalla materia per entrare nel tumulto dei giorni o più semplicemente per salire al tramonto su questa terrazza in cui tutto è perfetto, la vista sul Canal Grande, le gondole che passano, le rondini, gli incontri, resto fino alla chiusura per non perdermi un grammo di questa bellezza ma prima di andare passo un attimo alla tomba di Peggy e dei suoi amatissimi cani, Cappuccino, Peacock, Toro, Pechino, Gipsy, ne ha avuti quattordici a Venezia. Che donna e collezione impareggiabili, ogni volta che osservo quel Magritte con la città di notte e il cielo azzurro mi vengono i brividi lungo la schiena e non mi resta che andare a dormire.

 

Ho dormito come un ghiro ed eccomi di nuovo a camminare nel profumo dei canali, avrei ancora da vedere trenta padiglioni ma finisco come sempre per tornare sui miei passi, un attimo a San Zaccaria e un bel cesto di ciliege nelle vie attorno a Santa Maria Formosa e poi a piedi fin sulle Fondamenta Nove per la regata di Melissa McGill, sono almeno cento barche che salpano in fila e hanno tutte le vele di un rosso diverso, è una macchia purpurea che vola sulla laguna, anche qui c’è vento e nient’altro, finisco su una barca insieme a una tipa americana, abbiamo la stessa età e si chiama Tracy K. Smith, mi chiede che faccio, dico che sono qui per scrivere un racconto, le recito quei versi di Eliot e insomma per un attimo me la tiro. Una bella figuraccia, la vera poetessa è lei, insegna a Princeton scrittura creativa, è la American Poet Laureate in carica. Appena si distrae un secondo trovo un suo poema sul cellulare. Una stazione di servizio, due angeli brizzolati, sono vestiti da motociclisti e lei è lì che sta dormendo, li ascoltavo con gli occhi chiusi, giocano a carte e se penso al loro odore, mi vengono in mente rhum e gasolio. Dovrei leggere questi versi a Milovan, magari ci troverebbe una immagine d’infanzia. Il titolo è Life on Mars, ha la copertina di un rosso che non saprei, forse ha qualcosa a che fare con Venezia, come la giacca e i pantaloni di Milovan, come i nostri due Negroni, come le cento vele di Melissa McGill.

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