Nadia Terranova, nata a Messina nel 1978, è stata finalista al Premio Strega 2019 con "Addio Fantasmi" (Foto Ilaria Giudice)

Lo Strega e i miei fantasmi

Nadia Terranova

Protagonista e testimone. Nadia Terranova racconta come lei e il suo libro hanno attraversato il premio letterario più famoso dell’anno. “La doppia vita della cinquina”

Per destino alfabetico, a osservare le cose giù dal fondo mi sono abituata presto. È cominciata alle elementari, quando nell’appello dopo la T di Terranova non c’era più nessuno; che si guardasse dal basso o dall’alto ero sempre l’ultima e qualche volta la prima, a sorpresa, ma essere prima non era una sorpresa bella, piuttosto lo scatto senza preavviso di chi si sveglia storto e dice: bene, oggi facciamo tutto al contrario, cominciamo dalla fine, Terranova, cominci tu? Allora a quella novità in forma di sfida preferivo il riparo dell’abitudine, la riposata lentezza di chi ha già sentito parlare tutti gli altri e può prepararsi la risposta: frasi perfette e misurate come le mie non ce le avrebbe nessuno, peccato che arrivino mesi o anni dopo la scadenza del tempo utile, quando alla vita non servono più e tanto vale farne carne da romanzo.

 

Dunque, per quest’abitudine che l’alfabeto mi ha costretto a coltivare e per l’inutile lentezza da cui non riesco a liberarmi, so che il fondo è tutto mio e che nello strapuntino può far palestra uno scrittore: è così che ho attraversato il premio Strega 2019. Mentre giravamo l’Italia da sud e a nord, e ci prendevamo pure un pezzettino di Francia, agli incontri della sera parlavo sempre alla fine; e siccome dal fondo viene bene osservare e ascoltare, e siccome non so tollerare di vivere le cose senza pensare a come raccontarle, ho cominciato presto a chiedermi come avrei potuto raccontarmi questa storia di cui ero insieme protagonista e testimone. Scartati i primi sguardi (due uomini e tre donne; due libri Einaudi e tre no; tre libri dello stesso gruppo editoriale e due no; due romanzi storici e tre romanzi familiari; due scrittrici che vivono a Londra, due scrittori che vivono a Milano e una che vive a Roma – tanto, così ve l’hanno già raccontata tutti), mi sono messa a giocare a Sudoku: due persone nate sotto Roma, due sopra e una lontanissimo; due con un tono di voce alto e tre con un tono di voce basso; due con l’accento diverso dal posto in cui sono nate e tre che si portano la famiglia fin dentro la parlata; tre libri con una donna in copertina (e nessuna delle tre guarda nella stessa direzione) e due copertine senza un viso; tre scrittori che alla sera bevono molto e due che si limitano con l’alcol; tre che senza mettersi d’accordo ordinano la stessa cosa al ristorante e due che invece no.

 

  

Un mese che catapulta cinque estranei in una dimensione di perpetua gita da Ragusa a Lione. La condanna della lettera T 

Stare dentro la cinquina del premio Strega, durante il mese che catapulta cinque estranei in una dimensione di perpetua gita da Ragusa a Lione, significa mangiare dormire spostarsi in pullman autobus van aereo sempre immersi dentro i libri propri e degli altri cinque, anzi dentro tutti i libri del mondo, perché agli incontri, ogni sera, nessuno parla mai solo di sé – non sarebbe possibile, non si può parlare di nulla di ciò che si è scritto senza tirar dentro tutto ciò che si è letto e vissuto e osservato – e allo stesso tempo dover decidere ogni giorno come affrontare l’opposto della scrittura: la mondanità. Se state pensando che sia una parola diabolica, sappiate che non mi sono mai fidata di chi dice di temerla o si vanta di scansarla; se uno ha paura di perdere l’anima perché va a una festa, io non penso che sia puro: penso a quanto piccina debba essere quell’anima. E poi, che le feste siano tra le migliori occasioni di dolorosa o tragicomica letterarietà ce lo hanno detto i più grandi, da Scott Fitzgerald a Dorothy Parker. Tuttavia, un conto è avere precise idee sulla letteratura e un altro praticarle, e quando sul palco di uno dei teatri che hanno ospitato il tour mi sono trovata in preda a un attacco di panico – immotivato, come lo sono sempre quelle cose là – con la sudarella e gli occhi lucidi e la voce paralizzata e la certezza che no, quella sera di fronte a tutte quelle persone non sarei proprio riuscita neppure a balbettare un paio di automatismi salvavita, mi sono girata verso uno dei miei (concorrenti? colleghi? rivali? compagni d’avventura?) e gli ho detto: scusa, io stasera non ce la faccio, vado via. Con la fermezza inequivocabile di chi c’è passato un milione di volte, mi ha risposto: se te ne vai tu, andiamo via in due.

 

 

Chissà se esiste un fotogramma del momento in cui la serenità mi è tornata sulla faccia, il panico è sparito e dentro quel nostro dialogo ho trovato la più esatta definizione di cosa sia una cinquina del Premio Strega: un posto dove tutti segretamente vorrebbero essere gli unici e i soli ma in realtà nessuno, se fosse solo, esisterebbe davvero. Dentro quel luogo un po’ immaginario e molto reale che è stata questa cinquina in viaggio, ascoltare per me è diventato un verbo espanso: immaginate di andare in gita scolastica, ma con la promessa (o minaccia) di un podio quando tornerete in classe. Da fuori, sul podio vedrete uno schema semplice: uno scrittore che vince e quattro che perdono. Ma dentro ognuno sta vivendo almeno una vittoria e almeno un fallimento, non soltanto rispetto alla graduatoria ma nei confronti dell’universo da cui proviene: sentimentale, familiare, letterario, editoriale – e l’essere tutti dentro una battaglia (e non la stessa) è il filo che unisce più ancora del fare lo stesso mestiere. Prima della serata in cui uno dei cinque berrà il liquore, c’è una lunga distesa di piccole e fitte sere di cocktail e cioccolatini che lo contengono, e anche lì la cinquina si spacca; noi, visto che porta male bere Strega prima della finale, anche solo sfiorarne la bottiglia, eravamo divisi così: uno scaramantico che lo evitava rigorosamente e quattro menefreghisti che ingurgitavano tutto.

  

Nell’ultima settimana del premio, io avevo dietro i racconti di Kafka e avevo perso il mio ventaglio. La risposta ne “Gli alberi” 

Intanto, in una pentangolazione di orecchie, ormoni, sbalzi d’umore, citazioni, rimandi, spiritosaggini, eclissi, bisbigli, mutui soccorsi, mezzi di trasporto che andavano in tilt, ascensori rotti e allerta meteo per il caldo, il rumore di quello che succedeva fuori, di quello che del premio dicevano scrivevano e chiedevano gli altri, era un brusio sempre più lontano, ognuno di noi scriveva il suo romanzo e un’altra storia si faceva da sé. Io ho scritto la mia andando tanto lontano rispetto all’idea originale che nemmeno mi ricordo più da dove sono partita, cosa avessi in testa quando sono stata candidata, e poi selezionata, mi sembra un tempo lontano e adesso il mio racconto inizia così: tre scrittrici che a Ragusa, davanti alla sontuosità del duomo, si dicono che bisognerebbe sempre avere “più barocco e meno malocchio”, e poi il giorno dopo, a San Benedetto del Tronto (sì, gli spostamenti del tour Strega sono iperbolici – volendo saremmo riusciti a essere in contemporanea a Melbourne e al Cairo) festeggiano il compleanno di una e si regalano un ventaglio per ciascuna; sventagliarsi, quale risposta migliore all’oceanica domanda: ehi tu, che aria tira allo Strega? Eh già, chissà che aria tira allo Strega, rispondevo io come se la questione non mi riguardasse, e in effetti non mi riguardava.

 

Dentro quel bozzolo mobile a cinque punte, l’aria che tirava era: prestarsi l’eucalipto per far passare la febbre, tirare per la camicia chi all’improvviso si sentiva stanco, e poi anche punzecchiarsi sulla vittoria e sulla sconfitta, certo – vivere una realtà parallela non significa vivere fuori dalla realtà, stare in cinquina è come leggere un romanzo mentre le cose ti scorrono tutte intorno: è un moltiplicatore di sguardi, non una diminuzione. Punzecchiarsi, dicevo, e poi all’improvviso confrontare le agende dei prossimi mesi per capire quando ci si poteva rivedere di nuovo, se magari c’era qualche rassegna a cui eravamo stati invitati in due, o in tre, ché già ci si mancava un po’. Punzecchiarsi, sorridere, innervosirsi, sorridere di nuovo, parlare di libri, dentro e fuori gli incontri, parlare della letteratura italiana, parlarne tantissimo mentre sei in una cinquina che quella letteratura vuole raccontarla (inserire qui il noioso anatema del commentatore sprezzante che dice che se sono questi i libri che la rappresentano stiamo messi male e cita grandi nomi di Strega passati – quello sulla decadenza credo sia il format di commento più longevo della storia del premio, me lo immagino già pronto al secondo anno di assegnazione).

 

Lo Strega è un posto dove tutti segretamente vorrebbero essere gli unici e i soli ma in realtà nessuno, se fosse solo, esisterebbe davvero

 E poi strappare un’ora alla giornata per godersi i posti belli, anche fare un bagno al lago, ché per una siciliana dei due mari un’acqua più esotica della lacustre non c’è, e strappare un’altra ora, anzi due, perché bisogna finire di scrivere un articolo e consegnarlo in tempo (la cinquina è una bolla, ma fuori ci sono le bollette), tirar tardi nelle hall degli alberghi, commentare un’altra giornata pentagonale, rivedersi a colazione dietro gli occhiali scuri e rifare la valigia, tornare a leggere e sentirsi al sicuro dentro un libro, un oggetto talmente magico che è lui ad averti portato fino a lì, e il posto dove ti ha portato è un posto bello e importante, pieno di una ricchezza che non ha solo a che fare con il prestigio e che può diventare persino occasione di scrittura.

  

Prima della serata in cui uno dei cinque berrà il liquore, c’è una lunga distesa di piccole e fitte sere di cocktail e cioccolatini

Nell’ultima settimana del premio, io avevo dietro i racconti di Kafka e avevo perso il mio ventaglio: alla domanda che aria tira allo Strega, la domanda che di solito ti fanno quelli che già pensano di sapere tutto e di sapere di te più di quanto non ne sappia tu stesso, non potevo più sventolarlo, però potevo rispondere col mio preferito, Gli alberi, poche righe che dicono tutto sul premio Strega, sulla vita e anche su di me: “Perché siamo come tronchi nella neve. Apparentemente vi sono appoggiati, lisci, sopra, e con una minima scossa si dovrebbe poterli spingere da una parte. No, non si può, perché sono legati, solidamente al terreno. Ma guarda, anche questa è solo una apparenza”.

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