Il gioco costante di Kounellis tra passato e presente

Alla Fondazione Prada di Venezia la prima grande retrospettiva dedicata all'artista greco scomparso nel 2017

Giuseppe Fantasia

Venezia. Un cappotto e un cappello appoggiati su un attaccapanni risaltano su una parete di foglie dorate. Il nero sull'oro - due “noncolori” - di cui il secondo è la sintesi di luce e di spazio, un'astrazione massima e anti-naturalistica da non intendere però mai nell’accezione barocca di massima esaltazione dell’ornamento, ma solo come vertice strutturale della forma che racchiude la luce nella sua materia. Una scena-simbolo che allude in realtà a una crisi storica e personale, un'installazione che Jannis Kounellis (Pireo, 1936 – Roma, 2017) realizzò nel 1975 e che chiamò Senza titolo (Tragedia civile), il suo ritratto assente e più sacrificato con cui riuscì ad esprimere la personale e sofferta condizione esistenziale e creativa. Un grande artista andatosene via troppo presto che la Fondazione Prada ha deciso di omaggiare con la prima grande retrospettiva a lui dedicata proprio in quegli spazi minimali e magici che sono la sua sede veneziana dal 2011. Quella parete che troverete al piano nobile di Ca’ Corner della Regina - un palazzo settecentesco situato nel sestiere di Santa Croce e affacciato sul Canal Grande, poco distante da Ca’ Pesaro e da Ca’ d’Oro - “è il simbolo - spiega al Foglio Germano Celant, curatore della mostra - di una scissione netta tra passato e presente che ha ancora qualche speranza di ricomporsi”. L'intero progetto, realizzato con la collaborazione dell’Archivio Kounellis, è davvero impressionante visto che riunisce più di sessanta lavori dal 1959 al 2015 provenienti da musei e importanti collezioni private in Italia e all’estero.

 

Pittore e scultore, nel corso della sua lunga carriera Kounellis fu un artista anticonformista ed eclettico animato da un tessuto umano rigoroso fatto di libertà e di inventiva, di coraggio e di ideologia, di meditazione del pensiero e di un’irrefrenabile e decisa propensione al futuro che stava per arrivare, senza mai dimenticare il passato. Misterioso e ombroso, amante delle tonalità scure dei quadri di Goya, girava il mondo in lungo e in largo, ma poi amava sempre tornare nel suo studio, “il mio posto abituale”, “il mio teatro”, “quello dove si prendono gli appunti per un lavoro che si fa altrove”. Con i suoi immancabili pullover, sostituiti solo in poche occasioni formali dalla giacca, con la zazzera e i baffi sempre uguali nel tempo tranne che nel colore, spesso con la sigaretta in mano, amava inventare, creare, stupire, trasgredire ma – soprattutto – amava osare. Per farlo, era necessario “uscire dal quadro” – come disse – perché solo in tal modo “si possono ritrovare le intese” e si può “ristabilire una relazione dialettica con lo spazio”. “Uscire” era allora un atto rivoluzionario e solo nel tempo divenne per lui un atto anche liberatorio.

 

L’intera mostra – continua Celant - va a ricostruire la storia artistica ed espositiva di Kounellis  cercando di stabilire sempre, anche quando risulta più difficile, un dialogo tra le opere e gli spazi settecenteschi di quel luogo”. Il fumo e il fuoco, ognuno complementare all’altro, li ritroviamo in molte di quelle stanze e funzionano sia come residuo di un processo pittorico di transito energetico, sia come prova della trasformazione delle sostanze e dello scorrere del tempo”. Provate anche voi, come suggerisce Celant, a muovervi tra le tante stanze del palazzo senza seguire un percorso preciso, ma solo personale. Così facendo, percepirete ancora di più il linguaggio dell’artista che, come pochi prima di lui, riuscì a passare, con grande facilità, da quello scritto e pittorico presente all'inizio nelle prime opere a quello fisico e ambientale in quelle successive. “In tutta la sua ricerca, aggiunge, riuscì a sviluppare una relazione tragica e personale con la cultura e la storia, evitando però sempre ogni atteggiamento aulico e reverenziale”. Nelle installazioni realizzate dalla fine degli anni Sessanta, riuscì a innescare persino uno scontro dialettico tra la leggerezza, l’instabilità, la temporalità dell’elemento naturale e la pesantezza, senza dimenticare la permanenza e la rigidità delle strutture industriali da lui rappresentate da superfici modulari in metallo dipinto di grigio.

 

Nei suoi primi lavori, presentati nel primo piano nobile del palazzo veneziano, è il linguaggio urbano ad avere il sopravvento con tutta una serie di scritte, di segnali e di insegne visti per strada da lui poi “trasportati” su quelle enormi tele che attraggono e confondono, veri e propri veicoli di una scomposizione di un linguaggio, il suo, che è sempre in accordo con la frammentazione del reale.  Lo studiò, vivendoci fino alla sua morte, a Roma, dove arrivò nel 1956, a soli venti anni - come ci raccontò lui stesso due anni fa nel nostro ultimo incontro, iniziando la sua avventura artistica prima all’accademia di Belle Arti (sotto la guida di Toti Scialoja) e poi, nel 1960, con la sua prima mostra, nella storica galleria La Tartaruga in via del Babuino, tappa obbligata per tutti gli intellettuali e artisti di quel periodo. Indimenticabile e visionaria fu una sua performance che lo consacrò come artista facendolo conoscere in Italia e all’estero. Correva l’anno 1969 e tutto si svolse nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini, allora al numero 22 di via Beccaria, a pochi passi da piazza del Popolo. Esattamente lì dove oggi c’è una rimessa privata, lui riuscì a esporvi dodici cavalli vivi, portando qualcosa di nuovo e di mai visto nel mondo dell’arte. “Ho fatto sempre tutto senza mai pensarci troppo, non sono un borghese, peggio per me”, amava ripetere, e non fu certo un caso se a chiamarlo fu la Biennale di Venezia, dove partecipò per la prima volta nel 1972 e dove tornò sempre nel corso degli anni, cui seguirono altri e tanti inviti, persino alla prestigiosa documenta di Kassel e poi a New York, da Ileana Sonnabend, la ricca mercante d’arte rumena tanto amata da Warhol, artista, quest'ultimo, che invece Kounellis detestava.

 

In questi giorni in cui è in corso la 58esima Biennale d'Arte veneziana, è tornato, anche se non più da vivo, nella città lagunare e al suo posto “parla” questa mostra, visitabile fino al 24 novembre prossimo, ricca di opere, sculture e installazioni, ad esempio quella con il caffè, profumatissima, presente nella scala interna, o quella con la grappa, una maniera per uscire dai limiti illusori del quadro fino a congiungersi con il caos vitale della realtà nei cui confronti fu sempre abbastanza insofferente. Emblema di insofferenza per eccellenza furono per lui le porte, presenti in mostra in tre diverse declinazioni, simboli della libertà di comunicazione da lui identificata anche in una composizione di assemblaggi e materiali elementari duri che ritroviamo poi in altre installazioni di grandi e piccole dimensioni realizzate con ferro, legno, juta, fuoco, pietre (usate, insieme ai libri, per murare le porte) e carbone (“un’idea dolorosamente sociale”), fino ad arrivare alla drammaticità dei quarti di bue macellati, fissati con ganci a lastre metalliche e illuminati da lanterne a olio, esposti a Barcellona sul finire degli anni Ottanta.

 

Ad un certo punto della sua vita - leggiamo nel prezioso catalogo progettato dallo studio 2×4 di New York e pubblicato da Fondazione Prada - decise di sperimentare il sonoro esplorando quel mondo che in un suo dipinto si traduce in uno spartito da musicare o da danzare. Se nel 1960 recitava da solo le sue lettere su tela, dieci anni più tardi lo faceva in presenza di un musicista o di una ballerina. In molti ricorderanno il suo Atto Unico alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, quando decise di invadere il grande ingresso trasformandolo in un immenso labirinto protetto da lamiere di ferro, pezzi di carbone e altri materiali. Ne seguirono molti altri, sempre diversi, tra cui quello negli spazi industriali della Fondazione Pomodoro, raccontato in un libro (Skira) e nell’omonimo documentario di Ermanno Olmi che lo seguì per un mese realizzando un piccolo “film-pedinamento”, “un bellissimo viaggio”, “una giostra delle suggestioni più coinvolgenti che tornano e si ricompongono secondo una libera consequenzialità di tempo”.

 

Un gioco costante, il suo, tra passato e presente che nella mostra veneziana è rappresentato con un insieme incompleto di frammenti di statue classiche o attraverso la maschera, ad esempio nell’installazione del 1973 costituita da una cornice in legno su cui sono disposti calchi in gesso di volti. A fine percorso, troverete le grandi installazioni che realizzò dagli anni Ottanta, insiemi che inglobano mensole o costruzioni metalliche che contengono oggetti di varia provenienza: da calchi in gesso a pietre, da cappotti a bicchieri (che potrete calpestare) e ingranaggi meccanici che esplorano i temi della gravità e dell’equilibrio in confronto con lo spazio architettonico e urbano. Davvero suggestivi gli armadi di diversi colori e forme appesi sul soffitto, un intervento da lui realizzato tra il 1993 e il 2008 ed esposto per la prima volta, due anni fa, al Palazzo Belmonte Riso di Palermo. Anche quelli sono il simbolo di un’arte, l'arte magica di Kounellis che è sempre stata una presentazione - e non una rappresentazione - della vita che, in tutte le sue mostre, ha occupato lo spazio per il tempo di un atto unico.

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