A Ennis e a Jack di “Brokeback Mountain” l’unica cosa che rimane è quell’estate indimenticabile tra i pascoli (nella foto, Jake Gyllenhaal nel film omonimo, dal racconto di Annie Proulx)

Un'altra America da romanzo

Gaia Manzini

Shteyngart, Proulx, Powers: tre sguardi letterari sul paese dove l’erba delle praterie non sta mai zitta

Ma dove è andata a finire l’America? Abbiamo sempre guardato a occidente in cerca di un riflesso, ma ora più che mai l’America ci disorienta. Assistiamo a una rappresentazione caricaturale, a uno spettacolo disfunzionale. Tre libri usciti in questi giorni – invece – ci offrono una nuova prospettiva; ci permettono di ricostruire un ritratto prismatico, a tratti contraddittorio, di un intero paese: un ritratto che va oltre la cronaca o l’analisi politica. Tre sguardi letterari, diversissimi tra loro, suggeriscono l’ispirazione per frapporre una distanza con gli Stati Uniti o, forse, per costruire una strada comune fuori delle rotte.

  

“Destinazione America” è un caustico on the road alla ricerca di un’ex fidanzata e di un padre lontano. Un grande senso di perdita

“Il giorno delle elezioni, Joey Goldblatt di Icarus Capital Management diede un party nel suo appartamento su due piani in Fifteen Central Park West. C’erano due bar agli angoli opposti della distesa di 450 metri quadrati, uno serviva il Nasty Woman, un miscuglio di limone e vodka, e l’altro il Bad Hombre, un cocktail a base di tequila. ‘Non mi piace che a entrambi i cocktail abbiano dato nomi che si riferiscono a cose dette da Trump’ urlò Seema per farsi sentire al di sopra del baccano degli invitati e delle voci del notiziario via cavo che uscivano dalle casse. ‘Come se le uniche cose importanti in queste elezioni fossero le cose che dice lui’”. Donald Trump aveva definito nasty woman Hilary Clinton e bad hombres gli immigrati ispanici durante la corsa alla Casa Bianca nel 2016. Le parole del futuro presidente degli Stati Uniti diventano nomi di cocktail: è la crisi di una lingua e di una cultura, l’inizio di un equivoco. L’America non è più l’America.

 

Gary Shteyngart, autore di origine russa segnalato dal New Yorker nel 2010 come uno dei miglior scrittori americani under 40, firma Destinazione America, pubblicato da Guanda nella traduzione di Katia Bagnoli. Il romanzo è, appunto, la storia di una crisi. E’ in crisi il protagonista, Barry Cohen, ex appassionato di letteratura – Hemingway e Fitzgerald i suoi fari -, diventato importante uomo della finanza newyorkese non solo per le innate doti affaristiche, ma anche per la prodigiosa simpatia. In crisi perché accusato di insider trading e di aver fatto aumentare il prezzo di alcuni medicinali salvavita di oltre venti volte. La sua è anche una crisi coniugale con la bellissima moglie di origini indiane e una crisi come padre, davanti al figlio affetto da autismo. E’ struggente questo rapporto muto e congelato tra padre e figlio, in cui l’amore sembra non essere sufficiente: nulla sembra esserlo, perché anche le parole sono deprivate della loro forza. Ma non è un caso che al centro della crisi di Barry ci sia proprio un problema che colpisce l’interazione e il contatto umano. Insieme al protagonista, in quell’estate del 2016, è in crisi l’intera America, a un passo dall’elezione di Trump. Quello di Barry è un caustico on the road – in autobus – alla ricerca di se stesso, di un’ex fidanzata, di un padre lontano; anche se le vere tappe sono gli equivoci che compromettono la corretta visione del mondo. Primo tra tutti l’equivoco sul capitalismo come luogo senza regole, dove chi diventa gestore di un hedge fund è semplicemente un abile storyteller. Poi l’equivoco sull’amore e sull’amicizia. E quello degli elettori tutti, che non si rivedono in nessun candidato, perché non comprendono la vera natura del loro paese. “Barry cominciò a sospettare qualcosa sul nostro paese. Che in fondo in fondo a ben vedere eravamo tutti sottoposti a una severa disciplina militare. Nonostante l’etica da cowboy individualisti, in realtà obbedivamo tutti a degli ordini, e qualunque cosa dicessimo o facessimo per protestare poteva essere considerata una ‘polemica’, e chiunque poteva essere lasciato a terra”. Barry si sente circondato da una noia generale: è la noia di un paese marziale quando non è impegnato in una guerra vera e propria. In fondo, è proprio questo che Trump stava promettendo ai suoi sostenitori: un conflitto a oltranza, a loro scelta.

 

“Il sussurro del mondo”, che ha vinto l’ultimo Pulitzer, ci porta tra gli alberi e le loro voci. Una continua ramificazione di personaggi

“Nessuno sapeva chi era veramente. Nessuno”. I personaggi di questo libro sono figli di immigrati; Barry è ebreo e l’ex fidanzata è vittima di attacchi razzisti su Twitter: chiunque sfugga alla “normalità” trumpiana – nonostante l’abnegazione e le borse di studio - si trova ai margini o vede un futuro di marginalità. E’ la crisi del sogno americano. O forse il sogno americano era solo un grande equivoco fin dall’inizio.

 

Lungo le pagine di Shteyngart, il senso di perdita ci prende la mano; è lì, sempre con noi. Seema, l’ex moglie di Barry, si rende conto che “il suo paese stava morendo e lei avrebbe voluto essere un po’ meno americana e un po’ più indiana, sarebbe voluta andare in cerca delle radici come la madre aveva fatto per tutta la vita”. La nostalgia e il suo continuo ticchettio. Barry e la sua collezione di orologi preziosi: il vano tentativo di possedere il tempo e di capire quale valore assegnargli. La crisi culturale che descrive Shteyngart ruota intorno al quadrante di una memoria da mettere a fuoco: una memoria nella quale radicarsi per poter ritrovare un contatto autentico con il mondo e con se stessi. Per potersi considerare umani, prima ancora che cittadini nell’America trumpiana.

 

A vent’anni dalla prima edizione, i racconti di Annie Proulx – tra le più grandi autrici americane, vincitrice del Pulitzer nel 1993 – portano il nostro sguardo altrove, indagando il cuore ancestrale del Paese. Proulx ci conduce nel mondo dei cowboy derelitti e spacconi, tra paesaggi sconfinati – montagne e praterie, tempeste di sabbia e vento inclemente, campi bruciati e nuvole di cavallette –; paesaggi bellissimi e definitivi, senza sfumature. Distanza ravvicinata è il primo volume delle Storie del Wyoming, riproposto ora da minimum fax nella traduzione di Alessandra Sarchi.

 

Diamond Felts, protagonista di Il pantano, ha solo diciotto anni quando trova lavoro in un ranch e prova a montare un toro. Non è alto né troppo prestante, ma in un attimo è in groppa, una mano libera e l’altra stretta alla corda. Quella volta era rimasto lassù, come se ci fosse nato, ed era saltato dal toro senza cadere. Dopo quell’esperienza, gli sembrava che la sua vita fosse grande il doppio: era diventato un uomo da rodeo. “A volte, cavalcare un toro era il meno, ma soltanto quella cavalcata turbolenta gli dava una carica indescrivibile, gli faceva provare un piacere pazzesco. Nell’arena tutto era reale perché nulla lo era, a parte la possibilità di morire. Avvertiva la scarica, pensava, perché era vivo. Tutte le cose selvagge intorno a lui cadevano a terra”. E’, questo di Proulx, un epos moderno e questa è un’America tutta diversa da quella di Shteyngart, lontana dalle grandi metropoli, ma forse con una stessa matrice di ferocia. Un’America dove lo scontro tra uomo e natura è una lotta impari, che coltiva negli animi una rassegnata disperazione. Il Wyoming è il cuore selvaggio del Paese e il cuore selvaggio è ciò da cui si scappa e a cui si ritorna. Non un posto completamente reale, forse un luogo della mente dove risiedono gli incubi e le contraddizioni del nostro animo umano. Dove Mero può sentirsi seguito in mezzo alla neve da un manzo scuoiato a metà o dove uno dei cowboy di Purosangue, per assicurarsi gli stivali di un uomo morto congelato, arriva a tagliargli gli interi stinchi in una scena alla Tarantino.

 

Il Wyoming è il cuore selvaggio del paese, ciò da cui si scappa e a cui si ritorna. Negli animi una rassegnata disperazione

In una terra inospitale che concede poco o niente, i personaggi della Proulx sono titani di solitudine capaci talvolta di sorprese inaspettate e commoventi. “Non era nessuno, solo Ottaline che in quella luce pungente e inquietante desiderava tutto quello che si poteva desiderare. Allora la cruda solitudine, il silenzio delle giornate, il desiderio della carne le facevano premere le labbra nell’incavo del suo stesso gomito bollente”. Ottaline, protagonista del Confine erboso del mondo, è incapace di andarsene dal ranch della sua famiglia; ma come ogni ragazza sogna l’amore, si strugge nel desiderio. Nei suoi pomeriggi solitari inizia a conversare con un vecchio trattore dismesso e abbandonato che la chiama “dolce signorina”. Forse frutto di allucinazione, ci fa sorridere e commuovere, ci dice tutto della gente del Wyoming. Dell’importanza di sentirsi vivi a dispetto dell’indifferente potenza della natura. Perché poi anche a Ennis e a Jack di Brokeback Mountain, nella loro vita ondivaga, senza un vero lavoro né un vero sogno, l’unica cosa che rimane è quell’estate indimenticabile tra i pascoli. “In seguito, quell’abbraccio assonnato si era solidificato nella sua memoria come l’unico momento di autentica, incantata felicità nelle loro esistenze separate e difficili”. L’unica cosa che rimane è la scoperta dell’amore più vero e più puro, anche se indicibile per due cowboy.

 

Se nei racconti di Proulx si legge che l’erba delle praterie “non stava mai zitta”, Il sussurro del mondo (La Nave di Teseo, traduzione Licia Vighi) di Richard Powers, vincitore dell’ultimo Pulitzer, ci porta tra gli alberi e le loro voci. Gli alberi sono indaffarati quanto noi, sebbene più lentamente. Fanno sesso e si prendono cura dei propri figli, amano i rapporti di buon vicinato, sanno vedere i colori e conservano i ricordi, amministrano le proprie risorse e, se necessario, si trasferiscono in luoghi più ricchi di opportunità. Ma soprattutto gli alberi hanno una portata sovversiva, perché ci costringono a ripensare al nostro concetto d’identità. Se l’individuo è unico, l’albero è un’entità divisibile. Le piante sono più vicine a una rete che a un individuo. Stringono simbiosi e alleanze con le creature che le circondano, progettano un sistema armonico di connessioni. “Creando il terreno. Il ciclo dell’acqua. Negoziando sostanze nutrienti. Formando il clima. Costruendo l’atmosfera”, ci circondano senza che ce ne accorgiamo.

 

In una terra inospitale che concede poco o niente, i personaggi della Proulx sono titani di solitudine, ma capaci di sorprese inaspettate

La figura centrale del romanzo è Pat Westerford. Fin da piccola la chiamano la bambina-pianta, perché lei degli alberi sa tutto. Sa “che le piante sono creature caparbie e abili e alla ricerca di qualcosa, proprio come le persone”. Sa che non c’è nulla di meno isolato o di più socievole di un albero. Ora che è una professoressa, dopo anni passati da sola nella foresta, sa con certezza che mandano segnali d’allerta, avvertono presenze, chiedono aiuto. Che insomma gli alberi “parlano” tra di loro. “Tutto nella foresta è la foresta. La competizione non può essere separata dalle infinite fragranze della cooperazione. Gli alberi non lottano di più delle foglie su un unico albero. A quanto pare, in fondo la maggior parte della natura non sparge sangue come un animale feroce”.

 

Intorno a Pat, come se l’intero libro partecipasse di una continua ramificazione, crescono le storie di altri personaggi: di Nick e del castagno piantato dai suoi avi, unico sopravvissuto dopo un’epidemia, fotografato di generazione in generazione; di Mimi e del ricordo di suo padre sotto un gelso ricurvo; di Adam e della sua famiglia, in cui ognuno aveva un albero piantato alla nascita; di Douglas, salvato da una chioma nella sua caduta dal cielo; di Neelay che inventerà un gioco elettronico in cui ricreare il mondo intero – comprese la piante, tutte – provando la sensazione di ramificarsi, raggiungere luoghi, trasformarsi in altre entità; di Ray e Dorothy a cui gli alberi sembrano non interessare. E di altri ancora.

 

I veri eroi di questo romanzo polifonico però sono faggi, ontani, sicomori, castagni, pini, sequoie; alberi che si ammalano, altri che devono essere abbattuti, altri ancora che vengono difesi a costo della vita da uomini rifugiati tra le loro chiome come baroni rampanti in guerra. Protagonisti alti anche cento metri che, meglio di noi, sanno cosa significa co-abitare, accogliere, creare coesione. D’altronde non ci sono individui in una foresta, né eventi separabili. “Stiamo vivendo in un’epoca in cui si reclama un’autorità morale che vada al di là dell’orizzonte umano”: Il sussurro del mondo non ci parla solo dell’America, ma di qualcosa che ci coinvolge tutti. Forse arriva fin troppo al momento giusto, ma prende sul serio il non-umano e tenta di riconnettere l’umano a un mondo dal quale siamo alienati. In giorni di emergenza ambientale, sembra suggerire una soluzione spirituale. O forse solo il desiderio di un’America e di un mondo completamente diversi da quelli finora immaginati. “Sta succedendo qualcosa di meraviglioso sotto terra, qualcosa che stiamo solo imparando a vedere.”