L'infinito di Lucio Fontana tra terra e oro

Fino al 28 luglio a Roma la mostra dedicata all'artista italiano. I suoi “Concetti” e i “Crocifissi” inseriti tra le opere della Galleria Borghese

Giuseppe Fantasia

Roma. “Io buco e non c’è bisogno di dipingere perché è lì che passa l’infinito. Ciò che conta davvero non è l’estetica, ma l’aver bucato. Non ho mai distrutto, ho solo costruito”. Con queste parole, Lucio Fontana (1899-1968), l’artista borghese sempre in giacca e cravatta, definiva il suo modo di fare arte, dei veri e propri buchi e dei tagli netti, essenziali ed assoluti su quelle tele a cui dava forme ed espressioni che lo hanno fatto poi apprezzare, conoscere ed imitare in tutto il mondo. Ogni quadro era per lui un oggetto e le sue opere con quei buchi e con quei tagli li chiamò, non certo a caso, “concetti”, perché non amava altre parole per descriverli al meglio. Creò così sculture speciali ma su tele, un esperimento mai fatto prima d’allora, una maniera, la sua, per scoprire una prospettiva, un ideale che va oltre, una nuova dimensione che è proprio l’infinito, il cosmo a cui corrisponde ogni buco, ogni taglio. In quei Concetti spaziali realizzati dagli inizi degli anni Cinquanta in poi, c’è lo stesso desiderio della pittura simbolista e, da parte sua, quello di superare il limite imposto dalla pittura necessario proprio per raggiungere l’elemento cosmico.

 

Roma ricorda questa sua produzione mai esposta fino ad oggi con “Lucio Fontana: Terra e Oro”, una mostra imperdibile nella scenografica Galleria Borghese visitabile fino al 28 luglio prossimo, un grande omaggio all’artista italiano (nacque a Rosario di Santa Fe’ dove suo padre Luigi faceva lo scultore, ma visse tra l’Argentina e l’Italia), il primo ad essere esposto all’interno del Museo dopo le rassegne dedicate a grandi figure quali Bacon, Giacometti e Picasso, dei veri e propri “giochi a contrasto” (nel senso più buono del termine) con quell’ambiente, un’esperienza già provata ai massimi livelli con gli abiti/scultura di Azzedine Alaïa esposti tra il Ratto di Proserpina, l’Apollo e Dafne e il David del Bernini, l’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano Vecellio, la Deposizione di Raffaello, la Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio, il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina e la Melissa di Dosso Dossi. Una maniera sicuramente originale – e anche molto copiata da altri musei in Italia e nel mondo - per accostare il visitatore alla conoscenza della Galleria Borghese con l’evidenza flagrante delle opere stesse. Tra ceramiche e dipinti, sono cinquanta le opere esposte nelle due sale nel piano delle sculture e nelle sei sale nella galleria delle pitture. A volte si mimetizzano con le pareti, altre volte spiccano al meglio, ma in tutti i casi realizzano l’obiettivo tipico di Fontana che era quello di far uscire la sua arte dalla superficie pittorica ma solo per poterla infrangere.

 

L’oro è dominante in quasi tutte le tele esposte, è un non-colore, è sintesi di luce e di spazio, una vera e propria astrazione massima e antinaturalistica da non intendere però mai nell’accezione barocca di massima esaltazione dell’ornamento, ma come vertice strutturale della forma che racchiude nella sua materia visivo-compositiva la luce stessa. Fontana – spiega al Foglio la curatrice Anna Coliva – non rappresenta mai lo spazio, ma lo crea fino a superare quello rappresentato creandone uno nuovo”. “Il luogo concreto del reale – aggiunge - quello in cui noi tutti viviamo e interagiamo con le opere, il nostro ambiente fisico, non è più contrapposto allo spazio ideale, in sé definito e altro, che è quello dell’opera d’arte, ma si unisce con esso attraverso le fenditure sulle tele”. Il risultato di creare una dimensione altra è ancor più esaltato proprio in quei dipinti d’oro che vanno a fondersi con la fisicità del luogo in cui vive lo spettatore. Splendido il Concetto spaziale del 1961 con buchi e pietre preziose che richiama i gioielli della giovane donna con unicorno bianco realizzata da Raffaello Sanzio nel 1506, o quello dell’anno successivo, molto più lungo e lucido, posizionato al centro della parete, tra Cranach il Vecchio (Venere e Amore) e il Brescianino (Venere tra due amorini). Assieme ai Concetti spaziali, troverete poi, sin dall’inizio della vostra visita, una serie di Crocifissioni, la sua produzione di ceramiche fortemente scosse – come scrive Germano Celant nel suo saggio introduttivo al catalogo della mostra (è pubblicato da Silvana Editoriale) – da un fremito scomposto di origine ancora barocca dove l’idea spaziale è trattata come rappresentazione”. La mostra avrebbe dovuto chiudersi con una Fine di Dio d’oro di Fontana che l’ambasciatore italiano a Tokyo ha però deciso di non prestare alla Galleria Borghese. “Si tratta dell’unica Fine di Dio d’oro esistente al mondo che nessuno ha più visto dagli anni Sessanta”, ci confida la Coliva. “L’ambasciatore ci ha risposto con un secco ‘no’, nonostante lo avessimo esortato più volte e informato che avremmo contribuito anche a un suo eventuale restauro”. Un atteggiamento, quello dell’ambasciatore (e di chi è gerarchicamente sopra lo stesso)  tutt’altro che spaziale e che dimostra, precisa la direttrice, “una mancanza di senso istituzionale, anche perché è nella sua residenza privata e non nell’ambasciata”.

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