Nanni Balestrini (foto LaPresse)

Nanni Balestrini, l'avanguardista di una cultura politica davvero finita

Maurizio Crippa

Poeta, romanziere, artista totale. È morto a 85 anni

Non per un gesto irriverente o persino gratuito (gratuito nel senso di volontario e non collegato con quel che viene prima o dopo: “Un poeta è uno che gioca con le regole e poi le fa saltare”, per dirla col suo collega poeta “novissimo” Alfredo Giuliani), ma per pura curiosità, sarebbe interessante sapere cosa avrebbe pensato oggi: dopo essersene andato salutato da tutti i giornali e dalla maggior parte degli addetti ai lavori culturali come un venerato maestro. Un quasi monumento. Un pezzo del sistema della cultura. Lui che ha passato la vita, fin dagli esordi, a contestare i maestri e a smontare quel che fino a poco prima era sempre stato definito “il sistema delle arti” liberal-borghese. Poeta, scrittore, ma anche artista visuale, organizzatore o anche agitatore culturale, Nanni Balestrini è morto a Roma, a 85 anni, senza aver mai smesso di fare le cose – espressione che la sua generazione ha spesso inteso come sinonimo di “compiere gesti esemplari” – che aveva sempre fatto. Del resto se all’inizio fu Neoavanguardia, qualcosa vuole pur dire. Così se ne è andato celebrato, omaggiato con molte parole e poche critiche, in una perfetta celebrazione da stampa borghese che non avrebbe amato, battezzato da parole come “artista spiazzante”, “energico” “totale”.

 

Del resto, quando nel clima del Gruppo 63, che si riproponeva come programma di chiudere con “gli infausti anni Cinquanta” e con la sua pattuglia letteraria ben assestata sull’Olimpo del sistema cultural-editoriale – i Calvino, i Moravia, i Vittorini, i Bassani: aggrappati ai cascami del neorealismo – uscì nel 1961 l’antologia dei “Novissimi”, quel gruppetto di giovani poeti tra i venti e i trent’anni (con lui c’erano Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Antonio Porta ed Edoardo Sanguineti), il loro padre spirituale, il critico-teorico Luciano Anceschi, scrisse che “per quel che riguarda la poesia, si può dire con qualche fondamento che il dopoguerra finisce solo ora”. Poi i progetti di rivoluzione sedimentano, si adagiano un po’, forse anche passano di moda, e i “Novissimi” diventano “un classico del secondo Novecento”, finiscono nelle antologie di scuola, nelle tesi dell’università.

 

Ed è anche vero che alla metà degli anni Sessanta nel resto del mondo – ma era comodo guardare soprattutto alla Francia e agli States, scavalcare con gli occhi o il naso la Cortina di Ferro era più dura, roba da impallinati del samizdat – succedevano cose: Kerouac e Chomsky, lo strutturalismo o la Nouvelle Vague e il Nouveau-Roman, e qui ancora stavamo con i Finzi Contini e “il passaggio dal neorealismo al realismo”. Ma è altrettanto vero che il 63 fu gruppo oltremodo eterogeneo, ognuno prese presto una strada diversa, e Nanni Balestrini optò per quella più radicale, o più plateale, della politica.

 

Divenne il romanziere di “Vogliamo tutto” (1971) monologo surriscaldato ambientato nella Torino operaia e alienata della Fiat del ’68 e delle lotte dei lavoratori. Si beccò la prima di una serie pressoché infinita di stroncature da parte di Alfonso Berardinelli, che sui Quaderni Piacentini lo bollò di “estetismo operaista”. Un decennio dopo fu il narratore del movimento del ’77, con “Gli invisibili”. E in mezzo tutta la politica, il movimentismo, la comunicazione e la grafica e l’editoria e le parole come strumento di lotta. Fino all’ordalia giudiziaria del processo 7 aprile, alla mitologica fuga in Francia sugli sci. Ma quegli anni Settanta furono secondo lui i più liberi e creativi, e ingiustamente ridotti da una “leggenda”, disse in una intervista, a “un periodo in cui tra le arti e le discipline, dalla letteratura al teatro alla musica, non vi sia stata alcuna evoluzione”. Fino all’ultimo, anche attraverso la casa editrice DeriveApprodi, ha recitato su una sorta di palcoscenico totale il suo ruolo da avanguardista inalterabile a tutto campo. E chissà, sentirsi oggi salutato come un venerato maestro è forse la prova più evidente di un periodo culturale e politico finito davvero.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"