Adolf Hitler a Berlino nel 1930 (Foto dall'archivio federale tedesco). "Sindrome 1933" di Siegmund Ginzberg è pubblicato da Feltrinelli

L'ombra del 1933

Giuseppe Marcenaro

Assonanze e analogie del presente con un anno orribile. Anche senza il ritorno del fascismo. Divagazioni sul libro di Siegmund Ginzberg

Durante la lettura di Sindrome 1933 di Siegmund Ginzberg, si è pervasi da una indominabile inquietudine. Da un profondo senso di sgomento. Sono evocate in questo libro sorprendenti similitudini del tempo nostro con giorni “remoti”. Sovrapposizione di accadimenti verificatisi nell’anno 1933 con “certi fatti” dell’oggi. Impossibile, a chiusura di queste pagine, non pensare al passato che ritorna. D’altra parte Siegmund Ginzberg ha scritto Sindrome 1933 (ed. Feltrinelli, 186 pp., 16 euro) con l’intento di confrontare due radiografie: quella d’allora e quella di oggi. E dichiara il suo proponimento, in una “avvertenza”: scopo di questo libro, riflessione d’autore, ha l’aria d’essere una digressione lasciata lì, con distacco confidenziale. Quando nella realtà è una grande lezione di morale politica.

      

Ginzberg presenta gli attori del cartellone della sua rappresentazione: mattatori, comprimari, caratteri, vedette, attori giovani, comparse… e anche il coro, la massa, che per diffusa convenienza, di volta in volta, sta sul proscenio o si nasconde dietro le quinte. Spettacolo con l’occulta regia di astuzie, inganni, calcoli, truculenze… rapsodia corale di tipi “storici” che hanno accanto allo specifico attoriale dei nomi, hélas ben noti… Spesso dimenticati: “E dai, dice l’amico incredulo. Vuoi che non si sappia chi erano Hitler, Hindenburg, Röhm, Goebbels… e Mussolini… e cosa è successo in Germania durante la Repubblica di Weimar?”. No. Non si ricorda, non si vuole sapere… facendo mostra di essere al corrente. Siamo in realtà degli inconsci disagiati, distratti da un edonismo autoreferenziale, addormentati da un universo elettronico, illusoriamente connessi con il mondo che in realtà non è reale ma soltanto una masturbazione ottica, invasati dai selfie scattati in posa con i potenti, abbagliati di esistere in comunione all’immagine festosamente ebete che promana un’apparenza di libertà “sgorgata” dall’incontro e dalle promesse dei leader di turno. Ci siamo dimenticati da dove proviene e su cosa poggia il tempo nostro: “L’odio esplode improvvisamente, senza alcun preavviso, da episodi in apparenza insignificanti. Agli angoli delle strade, nei ristoranti, nei cinema, nelle sale da ballo, nelle piscine; a mezzanotte, a mezzogiorno, nel pomeriggio. I coltelli balzano fuori all’improvviso: si picchiano coi tirapugni, coi boccali di birra, con le gambe delle sedie… Ogni tanto fischiano pallottole… ”. E’ il telegiornale dei nostri giorni, con cui dolenti e distaccati giornalisti annunciano e commentano le “bravate” della contemporaneità, o uno scrap da Goodbye to Berlin di Christopher Isherwood che assisteva, dalla capitale tedesca, al tramonto dell’illusoria Repubblica di Weimar tombata dalle elezioni del 1933?

        


Abbiamo dimenticato su cosa poggia il tempo nostro. “L’odio esplode improvvisamente, da episodi in apparenza insignificanti”


           

“A questo punto – confessa Ginzberg nella Breve nota sul perché di questo libro – devo una spiegazione al lettore… Da qualche tempo quasi non passa giorno senza che le notizie mi diano una sgradevole sensazione di déjà vu”. E al suo lettore è impossibile sfuggire, non ritornare ai propri déjà vu: mettiamo una rappresentazione della Resistibile ascesa di Arturo Ui, con un formidabile Franco Parenti, e sentir affiorare dentro all’animo, nel ricordo ritrovato, l’epilogo di quella pièce che Bertolt Brecht aveva metaforizzato sull’ascesa e caduta del nazismo. Rappresentazione con un “solenne” finale, non riuscendo evidentemente a esser certi d’aver definitivamente sigillato con una lastra tombale gli anni dell’incubo. Quando la vittoria sull’orrore poteva essere stata soltanto un epilogo provvisorio, una sospensione aperta su una possibile consimile ripetizione del dramma. Quanto si era verificato, per strade impervie e ignote, poteva riaffiorare: “… occorre agire e non parlare. Questo mostro stava, una volta, per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo”. Un avvertimento che potrebbe stare quale possibile incipit al libro di Ginzberg, le cui serrate pagine, che nell’immaginario vagheggiante di un lettore, potrebbero anche assumere il carattere di un seriosissimo, drammatico gioco letterario, avvertono l’umanità d’essere implicata sempre, e ancora, in una temperie da grand hotel sull’abisso. Un libro come avvertimento. Un annuncio per schivare il sempre incombente orrore.

       

Nel gioco dei possibili affiorano ovviamente dalla singolare penombra altri déjà vu: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”. Ma l’ineffabile eterno ritorno può anche essere arginato? Non si può credere che tutto avvenga perché alla sorte non si può porre un limite: la presa di coscienza della dignità intellettuale.

        


L’altra ambizione di Goebbels. La visionaria attualità di Benjamin, che raccoglie frammenti di una Germania che si sta perdendo


      

Ginzberg nella sua appassionante narrazione evoca anche un universo di personaggi increduli: al tempo dell’ineffabile 1933 nessuno sembrava accorgersi di quello che stava succedendo e dove il ripetersi di continue elezioni avrebbe portato. Nell’Europa di quel tempo c’erano personaggi già dispersi dagli scrolloni della storia. E tutti guardavano a quanto stava avvenendo in Germania e a quel tal esagitato Adolf Hitler, tutto sommato un tipo marginale, che si stava arrampicando con la sua banda per i meandri del potere. Più come un fenomeno che una vera e propria personalità politica. Era come se nessuno immaginasse quanto si stava preparando. Per fare un esempio: chi sapeva di un tal Werner Schäfer, uno che sentiva dentro di sé il fuoco della creatività? E nel 1933 era in pieno fervore. Aveva scritto un libro, Konzentrationslager Oranienburg, che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo a Berlino, presso Buchverlag. Era una specie di autobiografia dell’impegno ideale dell’autore. Un documento sociologico, una sinistra traccia storica e, per l’inspiegabilità di alcune pagine, un drammatico esperimento di letteratura visionaria.

        

L’opera di Schäfer è il burocratico e puntualissimo resoconto di una eccezionalmente tragica invenzione. Il prototipo di un racconto di sconcertante, orrorifica e sfrenata fantasia. Schäfer deve essere stato un tipo piuttosto intraprendente, zelante e furibondo di gloria perché in quel 1933, subito dopo la “presa del potere” dell’imbianchino, si trovava a essere comandante della Sturm-Abteilung hitleriana a Oranienburg, una cittadina a venti chilometri da Berlino. In quella “residenza” – come racconta con enfasi nel suo Konzentrationslager Oranienburg – gli arrivò l’ordine di catturare tutti i marxisti della zona, da trasferirsi poi nella capitale. Gli uomini al suo comando arrestarono parecchie decine di persone, ma i mezzi per il trasporto dei fermati non arrivavano. Ligio agli ordini, non sapendo cosa fare, Schäfer ammassò i prigionieri – ignare e prime cavie di un’apocalisse – in una fabbrica di birra abbandonata. Si procurò un po’ di balle di paglia che fece spargere nell’ex distilleria predisponendo così un dormitorio. Era il tempo delle grandi retate. Diffusasi la notizia della soluzione trovata da Schäfer furono convogliati a Oranienburg altri arrestati provenienti da altre parti della Germania. Il comandante aveva il suo da fare per contenere la marea che lo stava investendo e soprattutto non sapeva come impegnare tutta quella gente, altrimenti ridotta all’inerzia. Ebbe un’altra idea, evocata nel suo libro con entusiastico e strabocchevole fervore: pensò che facendoli lavorare li avrebbe “resi liberi” . Il libro di Schäfer illustra nel dettaglio le scelte organizzative che stavano all’origine del Lager di Oranienburg, il primo della Germania nazista, aperto nel febbraio 1933, e dal quale, per imitazione, derivarono tutti gli altri. Konzentrationslager Oranienburg è il serto “professionale” con cui si fregiò orgogliosamente chi inventò la sinistra macchina concentrazionaria destinata a segnare tragicamente il XX secolo. La notte del 10 maggio 1933 a Berlino, la visione dei libri che si stavano consumando tra le fiamme per Schäfer fu determinante. Nel suo ardore “artistico”, vedendo andare in cenere la grande deprecata tradizione, aveva visionariamente vagheggiato la nascita di una nuova letteratura. Lagerkommandant e scrittore, come si autopresenta in frontespizio del suo libro, il capolavoro lo aveva comunque realizzato.

               


Un libro come avvertimento: l’umanità è implicata sempre, e ancora, in una temperie da grand hotel sull’abisso


       

Vizio sempiterno degli uomini che si occupano di politica, quello di scrivere anche libri: opera prima di Goebbels fu un dramma, Judas Iscariot, in cui rappresentava Giuda come un gregario che tradisce Gesù non per denaro, bensì nella speranza di poter assumere egli stesso il compito di instaurare il Regno di Dio sulla terra. Nel 1919, con pervicace convinzione, aveva aggiunto al mondo una nuova opera: un’altra pièce, Heinrich Kämpfert, ispirata ai problemi e alle difficoltà degli operai a seguito della disfatta tedesca dopo la fine della Prima guerra mondiale. Produttore a getto continuo di versi, abbandonato il filone poetico, si era dedicato a un monumentale romanzo autobiografico, Michael Voormans Jugendjahre, pagine di furibonda effervescenza narcisistica in cui sono riversati tutti i macerati recrimini di chi soffre un fisico deforme e il conseguente insuccesso con le donne. L’ambizione del giovane Goebbels, oltre a quella di diventare Herr Doktor (come volle essere chiamato) era l’essere riconosciuto scrittore. Chissà come avrebbe voluto essere individuato nella “neonomenclatura” letteraria del tempo nostro, dove ogni politico che si rispetti deve anche aver pubblicato un romanzo: in una sublime declinazione coniugando il proprio specifico con quell’aggiunta dell’ impertinente e stradiffusa desinenza “… e scrittore” – che nobilita a livello di una commenda: … ministro e scrittore, … parlamentare e scrittore, … giornalista e scrittore, … cantante e scrittore, … economista e scrittore, … alpinista e scrittore, … canottiere e scrittore, … dentista e scrittore, … matematico e scrittore. L’aspirante letterato Goebbels rimise le mani nel suo capolavoro. Cambiò titolo: Michael: Ein deutsches Schicksal in Tagebuchblättern. Tentò anche di collaborare ai giornali Vossische Zeitung e Berliner Tageblett.

       

Davanti ai volumi allineati nelle librerie di Berlino, Werner Schäfer, l’inventore dei campi di concentramento, si doveva essere lustrato gli occhi con Il mito del XX secolo, di Alfred Rosenberg, settecento pagine sulla supremazia dei popoli nordici; esaltato accanto a un romanzo di Baldur von Schirach, il capo della Hitlerjugend; alle opere di Hans Carossa, Richard Billinger, Ernst Barlach, scrittori di romanzi esaltanti il germanesimo. Karl von Mechow, Friedrich Griese, Ernst Wiechert erano dei bestseller fortemente consigliati dall’Ente per la tutela letteraria.

       

Schäfer si era compiaciuto che la sua opera di scrittore stesse accanto a un libro pubblicato in quei giorni: Dall’U-Boot al pulpito, autobiografia del pastore Martin Niemöller. Pluridecorato comandante di sommergibile nella Grande guerra e ardente nazionalista nei successivi caotici tempi, salutando calorosamente l’ascesa al potere di Hitler, Niemöller aveva osservato che per lui, come per tanti altri pastori protestanti, i quattordici anni della Repubblica di Weimar erano stati un “tunnel nell’oscurità”. In una nota in calce al libro aggiungeva che il trionfo di Hitler aveva finalmente portato la luce alla Germania e avrebbe dato avvio a quella “rinascita nazionale” per la quale anch’egli aveva combattuto così a lungo – per un certo periodo dopo la guerra anche negli irregolari e facinorosi Corpi liberi, dai quali erano emersi tanti tra i più duri capi nazisti. La stampa aveva esaltato Dall’U-Boot al pulpito e ne aveva fatto un bestseller.

                


 Un universo di personaggi increduli: nessuno sembrava accorgersi di quello che stava succedendo. Il fervore di Schäfer


      

E mentre gli attori della gran rappresentazione, portati sugli scudi dalla vittoria elettorale che avrebbe sancito la presa del potere, cominciavano a esaltarsi della “pacchia finita” di quanti consideravano avversari, percependo dove tutto quel marasma di esaltazione avrebbe portato, un silente uomo berlinese raccoglieva a frammenti le testimonianze letterarie di una Germania che stava perdendo se stessa. Quell’uomo si chiamava Walter Benjamin. Nel 1936, in piena bufera, con lo pseudonimo Detlef Holz, avrebbe pubblicato a Lucerna un piccolo libro, Deutsche Menschen. Eine Folge von Briefen (in italiano Uomini tedeschi, Adelphi 1979, Einaudi 2015). Recava un’epigrafe: “Dell’onore senza gloria, della grandezza senza splendore. Della dignità senza mercede”. Quel piccolo libro produsse un effetto straordinario. Sotterraneo. Mantenne viva la dignità della letteratura. Il libro di Holz-Benjamin sottintendeva una ferma opposizione a quanto stava dilagando. Giocando sul semplice contrasto con la produzione libresca del Reich, stigmatizzava l’essenza devastatrice dell’autoincensamento nazista in cui era degenerata la produzione scrittoria.

        

L’antologia di Benjamin era una protesta contro l’annientamento dello spirito, degradato dai nazionalsocialisti a pura e semplice ideologia. E ciò che sorprende nella considerazione di quella antologia è che nella sua visionaria attualità, anticipa il tempo nostro in una specie di déjà vu al contrario. Una preveggenza e una anticipazione di quanto si sarebbe potuto ripetere in futuro… Benjamin aveva vagheggiato di relazionare una contingenza storica montando materiali che parlassero da sé, rinunciando, per quanto possibile, a interpretarli. Lasciando ovviamente al lettore di dare un significato a quanto aveva assemblato. E’ l’elogio della sacra sobrietà che affiora dal dolore e dall’angoscia dall’esplorazione di una propria contemporaneità ammalata di distrazione. Coniugata alla grazia e alla forza che si irradia dalla parola che potrebbe mutare il senso di una società che a se medesima non sembra più trovare senso. Quello che profila antologizzando fatti e misfatti d’oggi Siegmund Ginzberg con una specularità da specchio infranto nel suo Sindrome 1933.

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