Arata Isozaki (foto LaPresse)

Storia di Arata Isozaki, il giapponese ottimista nuovo Nobel dell'architettura

Manuel Orazi

Un allievo brutalista, una storia italiana e il Premio Pritzker

Neanche si fa in tempo a commemorare Kevin Roche, unico Premio Pritzker irlandese appena scomparso quasi centenario, che come in Vaticano subito ne viene eletto un altro, Arata Isozaki. Classe 1931, la stessa di Aldo Rossi, primo italiano a vincere l’ambito premio nel 1991, Isozaki è l’ottavo giapponese a essere incoronato, quattro solo negli ultimi nove anni: Kazuyo Sejima (2010), Toyo Ito (2013), Shigeru Ban (2014). Nei lontani anni ’50, Giancarlo De Carlo notava come ai Congressi Internazionali di Architettura Moderna europei ed americani si azzuffassero spesso e volentieri finché la parola non veniva data a un giapponese, Kenzo Tange, l’unico che per aplomb e buone maniere riuscisse a raffreddare gli animi. Il fatto che, per sua stessa ammissione, capisse poco l’inglese e dunque facesse molti inchini per scusarsi veniva comunque letto come segnale di grande saggezza e autorevolezza. Insomma, quando le giurie sono divise e non trovano un compromesso, quasi sempre vince un giapponese.

 

Per carità, il titolo a Isozaki è strameritato, viene solo da chiedersi perché la giuria del prestigioso premio istituito a Chicago nel 1979, nella quale siede oggi anche l’italiana Benedetta Tagliabue – in passato c’è stato a lungo l’Avvocato Agnelli –, abbia atteso che l’architetto nipponico compisse ottantotto anni, ma del resto lo scorso anno hanno aspettato che il suo predecessore, l’indiano Balkrishna Doshi, ne compisse novantuno. Allievo brutalista di Tange, coetaneo e fiancheggiatore dei Metabolisti, “l’unica avanguardia non di pelle bianca in duemila anni di storia” (cit. Rem Koolhaas), Isozaki ha uno studio proprio dal 1963 ed è un ottimista dal carattere estroverso e molto allegro come tutti i nativi di Kyushu, la Sicilia giapponese. Naturalmente ama moltissimo l’Italia, il suo ristorante preferito di Tokyo è “Amore”, negli anni ’80, quelli del postmodernismo imperante, ha curato la prima grande mostra internazionale su Gio Ponti (1986) fino ad allora autore piuttosto trascurato; è inoltre bibliofilo e collezionista di libri di e su Palladio, fra gli altri, e ha molti amici nel nostro paese come il direttore di “Casabella” Francesco Dal Co che, in qualità di editore, gli ha commissionato un grande volume pubblicato da Electa nel 2005 sulla Villa Imperiale di Katsura, luogo di ispirazione e pellegrinaggio per tutti i modernisti europei da Walter Gropius e Bruno Taut in poi perché l’ariosità e luminosità dei suoi spazi sommate alla sobrietà degli elementi strutturali hanno fatto intravedere in questo capolavoro dell’architettura classica del Sol levante un’anticipazione dei principi del Bauhaus e non solo.

 

Isozaki ha lavorato moltissimo nel suo paese, a Barcellona, a Los Angeles per il Museum of Contemporary Art (1986), a Monaco di Baviera per il Museo d'arte moderna (1993) e, insieme con il suo socio italiano Andrea Maffei, da noi ha costruito il Palasport per le Olimpiadi invernali di Torino del 2006, la Biblioteca di Maranello (2007) e da ultimo l’iridescente Torre Allianz nel complesso milanese di City Life (2015), così simile a una scultura infinita di Brancusi sostenuta però da due stampelle dorate. E' anche rimasto impantanato nel progetto di ingresso posteriore su Piazza del Grano alla galleria degli Uffizi, approvato poi bocciato poi riapprovato ma mai realizzato con la solita salsa di retrive polemiche ideologiche e provinciali: meglio lasciare l’area incompleta e senza servizi com’è ora, perché mai modernizzare il principale museo d’arte italiano? Da molti anni Isozaki gestisce una galleria d’arte insieme con la moglie a Tokyo, dal nome raffinatissimo: Ma, un concetto chiave della cultura nipponica, che indica un intervallo, uno spazio intermedio tra le cose che ha a che vedere sia con il tempo sia con lo spazio. Nel corso degli anni Isozaki e signora hanno curato decine e decine di mostre, libri ed opuscoli, raffinatissimi anche loro ça va sans dire.

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