La poltrona di Arlecchino
Lo spazio libero di Alessandro Mendini, che di sé diceva “non sono un architetto, sono un drago”
Nella notte di lunedì, dopo aver saputo della scomparsa dell’architetto Alessandro Mendini (1931), ho sognato che la sua bara era stata trattata a puntini multicolari come la famosa Poltrona di Proust (1978). Del resto il suo amico Alessandro Guerriero, fondatore nel 1976 dello Studio Alchimia (con Alessandro Mendini, che ne scrisse il Manifesto, Ettore Sottsass, Lapo Binazzi, Franco Raggi e Michele De Lucchi), aveva pensato di progettare “bare d’artista”.
Nel 1982 Mendini aveva dichiarato: “Io sono pessimista, ma il concetto della morte mi sembra qualcosa da giocare anche sotto forma di vitalità perché la morte è l’altra faccia della vita. Se guardi alla vita con la concezione della morte dai alla vita un senso più enorme, un ciclo più complesso, un’idea più globale e cosmica (…) Savinio diceva che pensare vuol dire pensare alla morte…” (A. Mendini, Scritti, a cura di Loredana Parmesani, Skira 2004, p. 276). Infatti, già nel 1975, Mendini aveva progettato per Cassina un impenetrabile grigio e pesante oggetto rettangolare, non sollevabile, anche perché dotato di una maniglia tagliente, con impressa la scritta: Valigia per l’ultimo viaggio.
“Sono pessimista, ma il concetto della morte mi sembra qualcosa da giocare sotto forma di vitalità perché la morte è l’altra faccia della vita”
Quando collaborammo per il catalogo della grande mostra a lui dedicata presso il Museum Narodowe di Pozna, curata da Dorota Koziara, Mendini mi fece notare, col suo sorrisetto che pareva un ghigno beffardo ma era la maschera della sua dolce e gentile timidezza, che nel suo cognome era già racchiusa tutta la divertente e colorata creatività di un mestiere, difficile da definire: “Nel dialetto veneto mendini deriva da “rammendini” e significa “rattoppare” o ricucire vestiti logori attraverso la sutura con il filo o l’applicazione di piccoli pezzi di stoffa. Da qui proviene anche la maschera di Arlecchino, vestito con un costume fatto di pezze di tessuti multicolori”. Mendini amava pensare così alla sua attività, ricordando i suoi antenati che riparavano vestiti. L’originalità della sua arte è consistita proprio nel congiungere materiali o colori apparentemente incoerenti, nell’imporre nuove forme a idee, emozioni o ricordi del passato. Quando gli fu chiesto da un gruppo di giovani designer di rappresentare come si vedeva, rispose facendo uno schizzo: “Le mani in posizione di precisione. E poi… l’abito di Arlecchino”.
E’ difficile riassumere brevemente le mille idee realizzate da questo piccolo individuo laboriosissimo e curioso, sognatore e giocoso, sempre disponibile e ironico: un uomo e un professionista libero nella creazione e anche dai pregiudizi, come dalle lottizzazioni politiche, accademiche e professionali.
Alessandro Mendini ha progettato oggetti, mobili, interni, decorazioni, immagini, istallazioni ed edifici. I suoi lavori e progetti, eseguiti in collaborazione con lo studio Alchimia, sono riprodotti, studiati e commentati in molte lingue ed esposti nei principali musei del mondo. Ha diretto le riviste Casabella (1970-1976), Modo (1977-1981) e Domus (1980-1985) e ha collaborato con aziende come Alessi, Philips, Cartier, Swatch ed Hermés. Nel 1979 e nel 1981 gli è stato conferito il premio “Compasso d’oro” e in Francia è stato insignito del titolo di Chevalier des Arts et des Lettres.
“Credo sempre di più che si debba ‘dipingere’ invece che progettare”. “Sconto l’ergastolo per il reato di ‘ornamento’”
Nel 1989, assieme al fratello architetto Francesco (1939), ha fondato l’Atelier Mendini (al quale, nel 2000, si associano Andrea Balsari, Bruno Gregori, Alex Mocika, Emanuela Morra) dove sono stati progettati, tra l’altro, edifici come le Fabbriche Alessi e il Forum-Museum di Omegna, la nuova piscina olimpica di Trieste, le stazioni della metropolitana (Salvator Rosa e Mater Dei) e le istallazioni del Parco cittadino di Napoli, la Torre di Hiroshima, il Museo Groningen in Olanda; il quartiere Maghetti di Lugano, l’edificio per uffici Madsack ad Hannover, l’edificio commerciale Lorräch in Germania.
Con tutto il rispetto per gli architetti, bisogna dire che Mendini era e si sentiva qualcos’altro. Sin dall’inizio è stato un irregolare: “Non ho fatto l’asilo, ho fatto le scuole elementari a Milano, in lingua tedesca, e poi è venuta la guerra, sono andato via… sfollamenti, paure, tante cose di questo genere; pezzettini di scuole fatte privatamente perché non si poteva andare a scuola; poi, siccome io sono di origine veneta, anche se sono nato a Milano, ho fatto il liceo a Verona e poi sono venuto a Milano a fare il Politecnico. (…) Mi sono iscritto ad Architettura non pensando di fare l’architetto. Mi piaceva moltissimo disegnare, specialmente il genere cartoon e il genere umoristico. Volevo fare il cartoonist, forse. Tanto è vero che uno dei personaggi che mi interessavano di più era Saul Steinberg, anche lui laureato architetto a Milano, del quale forse una certa grafia mi è anche rimasta: quel segno nervoso, sintetico, acuto” (Modo, n. 61, 1982).
Il suo rapporto con l’architettura era improntato a un, anche autoironico, sarcasmo: “Mi sono laureato architetto. Mettendoci molto tempo. A trent’anni. (…) L’università sono stati i più brutti anni della mia vita (…). Mi ricordo solo di Gio Ponti che diceva: ‘Per diventare architetto bisogna fare il contrario di quello che ti insegnano al Politecnico’”.
Mendini era cosciente, e felice, di aver imboccato molto presto un’“altra strada”, lastricata di gioco, libertà e fantasia, tanto da potersi permettere questo lucido bilancio: “Io faccio l’architetto un po’ sì, perché ci sono delle costruzioni, però no, perché io faccio della comunicazione visuale e parzialmente scritta che si estrinseca in oggetti grandi o piccoli, in spezzoni fisici, talvolta funzionali, talvolta anche non funzionali perché una pittura decorativa non ha funzione (…). Il progetto completamente privo di funzione è l’arte, il progetto ad altissima funzione è il jumbo jet, che non mi capiterà mai di progettare: più mi avvicino all’arte e meglio mi trovo. Ad esempio, un vaso che ha bassissima funzione, permette alta espressività, eppure ancora è progetto, è design” (Appunti di design con Alessandro Mendini, ArchIdea 2001).
Introdurre l’arte nell’architettura: “Credo sempre di più che si debba ‘dipingere’ invece che progettare. Dipingere vuol dire, semplicemente, emettere dei segni, svolgere un libero e continuo movimento del pensiero visivo. (…) Anche l’architettura o l’oggetto tridimensionale possono essere intesi come fossero pittura, disegni, come attrezzi scenografici, come pura realtà visiva”. La sua “pittura di design” era necessaria data l’“insufficienza del progetto a fronteggiare il mondo”. Come sostenne in una conferenza a Tokyo (1985), il progetto va sostituito col dipinto che diventa un’opera senza principio, senza fine e senza una giustificazione: una formalistica rete di stilemi e di riferimenti visivi.
Quando gli fu chiesto di rappresentare come si vedeva, fece uno schizzo: le mani in posizione di precisione. E l’abito di Arlecchino
Negli appunti per un’altra conferenza su Arte e Architettura (2002), Mendini esprimeva una decisa preferenza verso l’arte visiva, poiché questa “ricerca immagini” al di là delle funzioni, con un obiettivo ‘puntuale’ che le permette di arrivare più a fondo rispetto a chi è condizionato dalla burocrazia, dal denaro dell’industria, dalle esigenze. Questo non significa che l’artista sia un puro, l’artista è un “uomo di mondo”, e non subisca condizionamenti, ma ha la possibilità di far prevalere l’immagine sulla funzione. Ammetteva che anche in un progetto di architettura, “appena possibile, faccio prendere il predominio all’immagine”. Questo è il ruolo che tradizionalmente ha avuto il design italiano nel panorama internazionale: un ruolo “estetico”. Proprio le nostre caratteristiche genetiche, che si esprimevano bene nelle botteghe rinascimentali, affermava nel febbraio 1997, “ci indirizzano verso un design sensibile all’antropologia estetica, a sporgerci verso la direzione del bello e del rituale (nel bene e nel male)”.
La sua “bottega”, in un palazzone di via Sannio 24, dove con i suoi soci e collaboratori dava vita a fantasmagorici progetti, aveva un fascino tutto particolare. Come ha scritto Massimo Kaufmann (in una preziosa monografia a lui dedicata: Mendini, pondus100copie, 2017): “L’Atelier Mendini appare, a chi vi acceda una prima volta, come un caleidoscopio, uno di quegli ingranaggi a più dimensioni spazio-temporali che paiono esistere per catturare, nella loro complessità scenica, l’insieme delle nostre capacità di percepire simultaneamente un organismo di segni, sia attraverso il senso della vista quanto quello del tatto e persino dell’udito”.
Architetto, designer, progettista, direttore di riviste di settore. Amava più l’arte del progetto. Il suo atelier era un caleidoscopio
Recuperando il valore della decorazione e dell’artigianato, e addirittura del kitsch, dell’eclettismo degli stili, Mendini ha messo in atto il superamento del Moderno portando a compimento il Postmoderno. Era convinto che per andare oltre le aporie del Moderno fosse necessario non essere ossessionati dalla Funzione, cercare la Bellezza, anche fine a se stessa, affidandosi nella creazione a un disinvolto eclettismo: “Credo che l’eclettismo coincida con la natura del mio fare. L’eclettismo fa parte dei miei strumenti tecnici; io non possiedo una tecnica migliore di altri, dispongo di alcuni strumenti e li uso con indifferenza. (…) La mia metodologia progettuale consiste nel sovrapporre al massimo in un solo progetto stili, forme e riferimenti, di accelerare l’obsolescenza del progetto del progetto, che scade prima di diventare visibile. E’ la perdita di collocamento nel tempo e nel luogo, è qualcosa di simile alla tecnica compositiva della musica rock”. Il suo interesse non era quello di progettare ma di “esprimere dei problemi di progettazione e di arte”. E così, amava ripetere: “Mi sento specializzato in dilettantismo”. Un Dilettante che rifletteva a fondo su ciò che faceva e difendeva le sue scelte con una scrittura fantasiosa e uno stile efficace e poetico.
Il Kitsch, che talvolta ha toccato alcuni suoi oggetti e progetti, non gli faceva paura. Mendini aveva chiara la distinzione tra un cosiddetto oggetto di cattivo gusto e un gadget. In una lunga conversazione, ancora inedita, del 2009, con la psicoanalista Mariapia Bobbioni, affermava: “Quando l’oggetto è kitsch, perde in estetica e guadagna in valore antropologico, aumenta l’umanità. Invece gli oggetti gadget, e la progressiva inesorabile trasformazione del mondo in un grande gadget, diventano perdita della dignità, perdono l’identità, non hanno più riferimenti. Il Kitsch è quel fenomeno di un semi-gusto diffuso, che piace a tutti, adatto a tutte le persone normali che cercano un’estetica rilassante e sicura, ricorda con i suoi paradossi linguistici la tradizione, ripete aberrati i modelli noti, ti rende coinvolto e partecipe. Niente di tutto questo nel gadget, fondato sull’aspetto più brutale, dl male prodotto dal marketing. Il gadget è un demonio diffuso”.
La famosa, e già citata, Poltrona di Proust, nelle sue decine di varianti, è un oggetto divisionista che farebbe scoppiare un camaleonte. Come molti altri oggetti creati da Mendini, essa è coperta di pennellate a puntini: “Puntismo inteso non come frazionamento e ricomposizione visiva della materia, ma come attenzione a un universo fatto di infiniti ricordi e frammenti (‘la vertigine del frammento’ citata da Adorno, a proposito di Marcel Proust). In tal senso il puntinismo che iniziai a elaborare per la Poltrona di Proust nel 1975, si pone per me come un metodo e un manifesto, essendo il mio lavoro da considerare come un continuo sistema di miei oggetti, i segni, le pennellate sono parte di una anonima folla di cose, più o meno significanti” (A. Mendini, Miraggi, catalogo della mostra presso la Galleria Jannone, febbraio 2001).
Per il Salone del Mobile del 2016, alla Triennale di Milano fu realizzata una mostra, Stanze e altre filosofie dell’abitare (a cura di Beppe Finessi), alla quale Mendini partecipò con l’inaspettato progetto di un ambiente tutto bianco intitolato Le mie prigioni. Dovendo scrivere un testo di accompagnamento discussi con lui di quell’inconsueta “orgia di bianco” in laminato, specchi e luci. Trovavo sorprendente, da parte sua, questa sorta di cromofobia. Ma lui la spiegò, con malinconica ironia, quasi si sentisse giunto a una tappa finale del suo fantasioso e colorato percorso: “Da molto tempo, anzi da sempre, ho la percezione di vivere chiuso dentro a una prigione. Sconto l’ergastolo per il reato di ‘ornamento’. Mi trovo in una stanza introversa, un perimetro bloccato, uno spazio mentale invalicabile. Piccolo e anche enorme, comunque tutto chiuso. Le mie idee, il mio stile, il mio clima, il mio miraggio: tutto è lì dentro. E’ la cella di isolamento di un Alcatraz romantico e privilegiato. Imprigionato nell’incubo, nella tortura, nella allucinazione, nella voragine della decorazione…”.
In un buffo disegno del 2006, che gli amici hanno voluto mettere dinanzi alla sua bara, c’era un divertente autoritratto-sintesi colorato in forma di ragnetto con scritto attorno: “Corpo da architetto; coda da poeta; gambe da grafico; piedi da artista; pancia da prete; petto da manager; mani da artigiano; testa da designer: IO NON SONO UN ARCHITETTO, SONO UN DRAGO”.