Un gioco d'ombre per realizzare silhouette per gli studi di fisiognomica di Johann Kaspar Lavater. Etienne de Silhouette ha legato il suo nome ai ritratti con il solo contorno (Foto Wikipedia)

La fine del populista Silhouette

Fabiana Giacomotti

Ministro delle Finanze di Luigi XV, s’inimicò la corte e poi anche il popolo. Restò solo un sostantivo

La storia di Etienne de Silhouette, il ministro populista delle Finanze che pensava di riformare la corte di Luigi XV e finì sotto le ruote del dileggio, al punto che noi posteri lo scambiamo con la definizione atemporale di una figurina di carta, secca, nera e di profilo, è talmente bella che avrebbe meritato un cantastorie e un carretto più fastoso di quello sul quale abbandonò il palazzo che aveva cercato di emendare dalle pratiche più disdicevoli, per esempio prendersi pensioni e prebende senza alzare un dito. Dopo aver messo le mani sulla sua unica biografia, pubblicata qualche tempo fa in Francia e non ritenuta all’altezza delle vetrine intéllo fino a quando il movimento dei gilet gialli l’ha fatta diventare vagamente ammonitrice e sono apparsi i cartelloni, siamo finiti sul testo di una ballata che i Blackfeather gli avevano dedicato nel 2009 per l’album omonimo, per l’appunto “Silhouette”.

 

Qualche anno dopo, è stata usata come colonna sonora di “Breaking bad”, il telefilm sul professore di chimica che scopre di essere malato di cancro e diventa spacciatore, e qui non vediamo il nesso ma pazienza. “Etienne de Silhouette” è lunga e verbosa come tutte le ballate, ma c’è una strofa che merita e che dice sostanzialmente come a baciare in bocca i sentimenti dell’odio si finisca per esserne risucchiati (in caso voleste esercitarvi: “Minister of fate / declares that you're remiss / upon the lips of hate / he gives a callous kiss”). Chiunque del gruppo l’abbia scritta, dev’essere andato a guardarsi le carte o a leggere le lettere e i pamphlet con cui i cortigiani di Versailles, colpiti nel portafogli da quel nobilotto del Limousin, assoldarono scribacchini e poeti free lance per fargli terra bruciata attorno, che dev’essere più o meno il sentimento suscitato la settimana scorsa dallo storico olandese Rutger Bregman quando, al World Economic Forum di Davos, ha detto che i miliardari parlano troppo di filantropia e troppo poco di tasse. I ricchi di oggi, i soldi, in genere se li sono pure fatti; quelli di Versailles vivevano invece e notoriamente di pensioni, appannaggi, insomma aiuti di stato a spese di popolo e borghesia.

Voleva risanare i conti del regno tassando i ricchi e le manifestazioni esteriori del lusso. Ma gli umori a Parigi erano fuori controllo

 

Al momento della sua morte, nel 1767, Silhouette non era più un uomo ma un sostantivo che definiva alternativamente un paio di culottes courtes, cioè dei pantaloni al ginocchio senza tasche, strette e aderenti, oppure, come oggi, le figure ritagliate che molti di noi credono siano un’usanza inglese per averli visti nei film in costume tratti dai romanzi di Jane Austen. Per il popolo, che pure dapprincipio lo aveva applaudito, il nome di Silhouette divenne il sinonimo della micragna e della grettezza di spirito: “T’es laid comme un silhouette”. Qualche decennio dopo aveva addirittura cambiato sesso, adesso infatti lo decliniamo al femminile; insomma, una damnatio memoriae rotonda e completa. D’altronde, conoscete la parabola dei riformisti riformati, perché la storia va arricchendosi ogni decennio di almeno di un paio di nuovi casi. Leggi le massime di un filosofo (meglio se orientale, dunque e presumibilmente meno conosciuto; Silhouette si era formato su Confucio), ti infiammi, urli e sbraiti contro il sistema, e poi quelli che ti avevano inneggiato manco accendono la televisione per guardare i tuoi vecchi numeri di intrattenimento. 

 

Il piano di Silhouette per restaurare le finanze del regno di Francia tassando i ricchi e le manifestazioni esteriori del lusso avrebbe forse potuto funzionare se, da uomo di certo intelligente e preparato ma non fortunatissimo com’era, non avesse scontato l’andamento pessimo della guerra dei Sette anni, provocato in gran parte dall’incapacità dei generali che Luigi XV e la sua ex amante sempre potente, madame de Pompadour, avevano nominato secondo le stesse modalità con cui gli altri prendevano le pensioni, e dalle condizioni climatiche avverse in cui l’Europa ancora viveva dopo la piccola glaciazione del secolo precedente. Se negli anni Venti del Diciottesimo secolo la carestia in Irlanda aveva scatenato la penna caustica nel reverendo Swift con la sua “modesta proposta” di mangiarsi i bambini, fra la fine del decennio 1750 e il 1764, un’ondata di indigenza mortale invece toccò l’Italia e Francia, a causa di una serie di cambiamenti repentini di temperatura che distrussero i raccolti e bruciarono o inondarono i campi.

 

Sul finire dell’estate del 1759, quando Silhouette presentò il suo rapporto sullo stato delle finanze a Luigi XV e ai suoi consiglieri, forte di una prima emissione di obbligazioni al 5 per cento di tasso di interesse che, dietro garanzia di pagamento a scadenza e di altre azioni dimostrative a favore della popolazione, aveva portato nelle casse 72 milioni di lire, a Parigi la temperatura aveva toccato i 40 gradi e gli umori erano fuori controllo, esattamente come il deficit: “Da quando Vostra Maestà mi ha affidato l’amministrazione delle sue finanze, ho avuto l’onore di proporgli i mezzi di intervento che mi sembrano meno onerosi per i suoi popoli”. Ci era arrivato lavorando sodo, dopo molti servizi resi come ambasciatore e informatore segreto, cioè spione, e grazie ai buoni uffici della stessa Pompadour che amava l’intrigo certamente più del sesso e che aveva letto con attenzione i primi scritti di questo notabile di provincia, figlio di un ricevitore delle imposte, formato come un gentiluomo di rango più elevato e che si era subito distinto per l’approccio deterministico alla vita e alla scienza.

  

Dopo le prime misure, le folle lo salutavano come “notre bon père”. Applicò una tassa alle porte e alle finestre dei palazzi dei ricchi 

Dopo le prime misure, il popolo lo salutava per le strade come “notre bon père”,  lasciando di stucco anche il barone Grimm: “Il ministro Silhouette è trattato come il salvatore della patria”, scrive nelle sue Memorie. Sulle folle, che certo non avrebbero nemmeno saputo come sottoscriverla, un’obbligazione, avevano fatto presa le azioni eclatanti, le stesse che oggi farebbero incetta di like sui social. Per esempio, la tassa applicata alle porte e alle finestre dei palazzi dei ricchi, che ancora tutti ricordano benché non saprebbero a chi attribuirne la paternità (il conteggio ha funzionato in modo speculare fino all’altro ieri negli uffici pubblici, per segnalare l’importanza di chi lo occupava: ogni finestra equivaleva a un grado dirigenziale: la finestra, cioè l’affaccio protetto sul mondo, è tuttora un simbolo potentissimo). Quindi, le imposte elevate applicate ai pizzi e ai generi di lusso contro l’annuncio, in realtà mai messo in pratica, di tagliare le accise sui generi di prima necessità o di primaria voluttà: sale, tabacchi, pane, burro, formaggio.

 

Per le strade, a colpi di canzonette ironiche e oscene, si confrontavano sostenitori e oppositori del funzionario integerrimo: chi intonava la “lamentazione delle cortigiane”, colpite nei beni più cari dei pizzi e dei gioielli, chi il danno inflitto agli artigiani e ai maestri dei beni di lusso, che presto avrebbero trovato un difensore in Mandeville. Quando arriva a Versailles, “rondelet” e con il mento pienotto evidenziato nei pochi ritratti a stampa giunti, in apparenza ben diverso dalla figurina che avrebbe assunto il suo patronimico, le casse dello stato sono allo stremo: l’audit a cui Silhouette ha consacrato quell’estate di canicola, svegliandosi ogni mattina alle cinque per lavorare almeno un paio d’ore al fresco, dice che con circa 300 milioni di introiti e quasi 500 di spese, la bancarotta è dietro l’angolo, insieme, preconizza di fronte a un sovrano notoriamente godereccio e sventato, con una possibile rivoluzione da parte del popolo che non ne può più di quella “nobiltà oziosa e mantenuta”.

 

Gli epiteti con cui ridicolizza la corte gli procurano in men che non si dica più inimicizie dei tagli di spesa a cui intende sottoporla e che comprende una norma in cui si limita il gioco delle carte e le spese al tavolo del faraone, occasione in realtà prediletta dal re che la usa per incontrare notabili e supplicanti mettendoli sotto pressione. L’arma del ridicolo, che a Versailles uccide più dei vizi e che cerca di usare contro i suoi pari (“i vizi sono senza conseguenza, il ridicolo uccide”, ricordava alle proprie figlie il duca di Guines) gli si ritorce contro. Il duca di Choiseul, che nel suo castello manteneva un intero ufficio addetto alla maldicenza e alla manipolazione dell’opinione pubblica, si incarica di commissionare i primi pamphlet contro chi “sacrifica lo stato, disonora il re e infinocchia il cittadino”.

 

Silhouette, che cerca di aizzare il popolo contro i ricchi, di fronte allo scarsissimo risultato della sua campagna contro vizi e lusso che, come Savonarola, ritiene equivalenti, ottiene l’effetto opposto di coalizzare ricchi e popolo contro di lui. Prova a controbattere con altri pamphlet, ma si trova subito in minoranza. Il gioco delle ombre tanto in voga in quei saloni illuminati dalle torce prende il suo nome, mentre gli abiti dei bellimbusti perdono le tasche e diventano strettissimi perché “tanto, che cosa abbiamo da nasconderci dentro?”. In più, da illuminista della prima ora, ferocemente contrario al tema della predestinazione, Silhouette riesce ad avvicinare al gruppetto di Choiseul perfino il potente partito dei Devoti, che fino a quel momento non si sono nemmeno rivolti la parola. Madame de Pompadour lo abbandona.

  

Di fronte allo scarsissimo risultato della sua campagna contro vizi e lusso, ottenne l’effetto di coalizzare ricchi e popolo contro di lui

Quando il re è costretto a portare il vasellame d’argento a fondere perché chi dovrebbe pagare le nuova imposte dice di non avere i mezzi per farlo, e non intende offrirgli le proprie forchette per il bene della patria (“preferirei offrirvi il castello di Tournay dei miei piatti d’argento, sire”, mormora perfido e contrito Charles de Brosse, conte di Tournay), per Silhouette è la fine. Il duca di Choiseul in persona riceve le sue dimissioni il 21 novembre del 1759, meno di un anno dopo la nomina, e il disgraziatissimo controllore delle finanze si ritira con la moglie Anne nella Val-de-Marne, dove muore otto anni dopo, lasciando tutti i propri beni ai poveri.

 

Aveva scommesso e aveva perso, ma dopotutto ci voleva altro che una tassa sulle partite a faraone o sui vitalizi come, si scoprì più tardi, aveva scritto Voltaire in una lettera a monsieur de Cideville il 29 luglio di quel maledettissimo anno 1759: “Se ci prendono la Guadalupa; se quei maledetti inglesi hanno dei vascelli più veloci dei nostri (…), se le spese immense di una guerra giusta ma rovinosa assorbono i redditi dello stato, né monsieur de Silhouette né Pope (che il ministro aveva personalmente tradotto e fatto pubblicare in Francia, nda) saranno sufficienti a evitarci il disastro“.

 

Tutti i se sarebbero stati confermati. Con Silhouette, rischiò di finire in disgrazia anche il passeggiatore solitario Jean-Jacques Rousseau che, vivendo come sempre un po’ recluso e fuori mano a causa dei pochi denari che le sue protettrici gli concedevano, e non avendo capito per tempo che la stella del potente ministro andava spegnendosi in via definitiva un minuto dopo essersi levata, prima di inviargli una di quelle lettere untuose per le quali andava famoso la fece leggere a madame de Luxembourg, senza immaginare che la sua potente “patronne” faceva parte del gruppetto di “ignobili percettori di denaro” che ne aveva provocato la caduta: “Degnatevi, Signore, di accogliere gli omaggi di un solitario che non conoscete, ma che stima i vostri talenti e rispetta la vostra amministrazione. Avete sfidato le grida di questi vincitori di quattrini; (…) Siate contento di voi, signore. Le maledizioni dei ribaldi sono la gloria dell’uomo giusto”. Madame de Luxembourg si fece fare una copia della lettera, poi la fece circolare a corte. Rousseau perse buona parte dei propri sussidi. “Ho fatto una scemenza”, si lamentava.

 

Si dimise meno di un anno dopo la nomina. Alla morte lasciò tutti i suoi beni ai poveri. Con lui rischiò di finire in disgrazia anche Rousseau

 Ci sono tempi i cui le posizioni nette hanno scarso significato e, soprattutto, non portano a niente di buono. Ne parla in una lunga intervista sull’ultimo numero del mensile GQ anche il curatore del Padiglione Italia della prossima Biennale, Milovan Farronato, quarantenne di solida preparazione e mutevole aspetto: “Alla nomenclatura preferisco le perifrasi, un modo più orientale, se vuole, per trasmettere tutte quelle nuance e variabili che costituiscono un’immagine, una specie, una persona. Si può sempre aggiungere un aggettivo, poiché le cose mutano nel corso del tempo. Cerco, per quanto mi è possibile, di abbracciare un’idea fluida dell’essere nel divenire”. Ecco, nonostante il suo Confucio, Silhouette non era abbastanza orientale.

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