La vittoria finale del turpiloquio, non più solo accettato ma anche incoraggiato

Marco Archetti

L'impietoso referto di chi siamo quando parliamo. Un libro

"Parto da una piccola provocazione". Ma poi parte da una grande stupidaggine. Quante volte vi è capitato di assistere al fallimento di un’opinione? Quante volte il vostro interlocutore ha deragliato a causa delle proprie stesse premesse, confidando in boutade scambiate per pensiero e paralogismi creduti ragionamento? “L’italiano”, scriveva nel gennaio del 1913 D. H. Lawrence in vacanza sul lago di Garda, “è come un bambino. Percepisce e ascolta senza capire”. Anche se stesso.

 

Con un piede nella linguistica e un altro nella contemporaneità, fedele alla propria natura di poliedrico che si rifiuta di suonare il disco rotto del mainstream e non si nega a un’analisi della realtà utilizzandone con profitto ogni sua manifestazione – dagli emoji per smartphone all’Hypnerotomachia Poliphili – il professor Massimo Arcangeli nel suo Sciacquati la bocca: parole, gesti e segni dalla pancia degli italiani si immerge nelle forme e nel difforme della lingua italiana e dei suoi segni. Mettendosi alla ricerca del rapporto più essenziale tra la nostra lingua e il mondo e conducendo una ricognizione compiutissima tra gesti offensivi, male parole e stereotipi culturali, ci consegna un referto impietoso di chi siamo quando parliamo, pensiamo o ci autorappresentiamo. Lo fa analizzando corsi e decorsi, frugando in antecedenti triviali per capire da dove provenga la trivialità che oggi ci caratterizza, non disdegnando il gioco e il gusto del puro aneddoto – anche in questo senso il libro è una continua strepitosa miniera, o forse più un banchetto crudele – sempre tenendo presente il canone di De Saussure: “Più studiamo la lingua più arriviamo a convincerci che nella lingua tutto è storia. Cioè che essa è oggetto di un’analisi storica e non astratta”. Storia, appunto. Perché alla fine il maggior pregio di questo studio, che forse non è sempre perfettamente proporzionato in ognuna delle sue parti, è la sua forza complessiva, la visione globale, quella capacità di tenere il presente come riferimento anche quando di presente non sta parlando, al punto che per il lettore, spesso, è inevitabile istituire riferimenti e correlazioni in proprio. Come quando, nel capitolo “Vai col corpo”, grazie a una lunga e dotta digressione sul dito medio – il tertius impudicus – e sul suo valore ingiurioso, si scopre che questo gesto supremamente volgare è anche supremamente antico, e che perfino il pittore Geofried Schalcken (1643-1706) in un autoritratto a lume di candela si ritrasse così, pare per citare il gesto di un giovanotto sullo sfondo di un proprio quadro precedente, il cui tema era una prova di castità: la figuretta comparirebbe a fare il gestaccio alle spalle di un medico che sta esaminando le urine di una giovane in lacrime. Il gesto era molto popolare anche ai tempi della Guerra dei Cent’anni: i medi erano sventolati a mo’ di scherno dagli arcieri di Enrico V che invitavano così gli avversari a venirseli a prendere – l’amputazione sarebbe stata particolarmente debilitante per chi avesse dovuto tendere un arco. Gesto diventato anche linguaggio politico: chi avesse voglia di documentarsi sulle occasioni (decine e decine) e sui destinatari (svariati) del gesto ossessivamente ripetuto da Umberto Bossi, si dovrà districare in una vera e propria selva di dati ed episodi – e si renderà conto di come Besozzo sia teatro importantissimo di questa sguaiata drammaturgia gestuale.

 

L’ultimo capitolo del saggio tratta proprio del rapporto tra la lingua e la politica, partendo dalla considerazione che, come mai in precedenza, la communis opinio sembra ormai disposta a concedere al turpiloquio le attenuanti generiche: codice onnipresente, il “becerese” è una lingua non solo generalmente accettata, ma auspicata e incoraggiata; da qui le numerose patenti di genuinità, autoattribuite sulla base dell’arcinoto “io parlo chiaro”, che poi è sempre un “io sono volgare, ho il coraggio di esserlo, e questo è un valore”. La riduzione all’osso di trafile argomentative giudicate noiose è la forza motrice di ogni semplificazione politica di successo – secondo l’autore siamo al nadir, dal punto di vista della qualità espressiva e dei contenuti – insieme al reiterato utilizzo di formule triviali (“marcire in galera”) capaci di offrire agli italiani-bambini ciò che da sempre essi desiderano: essere presi per mano dal loro condottiero, farsi forti nel trasgredire con lui e sentirsi spalleggiati mentre lo spalleggiano, sedotti dal fascino della facezia e incantati dalla magia del paralogismo; Beppe Grillo, inscrivendosi in un processo degenerativo già abbondantemente in corso (e non da ieri), ha poi definitivamente trasformato i consumatori in proseliti.

 

A completare il ritratto della nostra tragica resistenza alla razionalità, e giusto per non sconfessare Lawrence, lascia senza parole anche il bestiario elettorale. Ippocampi, asinelli, coccinelle, gabbiani, delfini, cavalli alati, farfalle, mucche, civette, cinghiali: i simboli presenti alla campagna elettorale del 2001.

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