Witold Gombrowicz

L'Europa è la nostra figliatria, l'ideale nobile contro le nostalgie sovraniste

Micol Flammini

La premonizione di Witold Gombrowicz mezzo secolo fa

A un certo punto la patria non basta più. Ha confini, è piena di sentimenti incattiviti, conflitti irrisolti e lasciati macerare. La patria rischia di morire per sua stessa volontà, impuntandosi, testarda, nella sua voglia di essere forte, rispettata, temuta. Per questo orgoglio – a ogni patria è stato ferito l’orgoglio, punzecchiato, sgonfiato, trafitto, invaso da carri armati – chi nutre il culto della patria è pronto a morire. Per questo, durante la Seconda guerra mondiale, Witold Gombrowicz scrisse un romanzo pazzo, “Trans-Atlantico”, coniando tra le sue pagine la parola, il concetto che segna la rivoluzione, o meglio la rivolta, contro gli istinti mortiferi dell’idea così limitata di patria. Gombrowicz fa nascere la figliatria, ossia la volontà dei figli di opporsi a quel sistema nazionale voluto dai padri. Il libro, scrisse l’autore è come “una nave corsara piena di dinamite” in viaggio verso una patria da distruggere. “Pur restando polacchi – dice Gombrowicz – cerchiamo di essere qualcosa di più ampio e di superiore al polacco”. Nel dramma di oggi, di questa crescita del populismo, del nazionalismo, in cui le istanze e le rivendicazioni della patria, intesa come voglia di rivalsa, prevaricazione, orgoglio da difendere contro le altre nazioni, unicità da proteggere contro l’invasore, la figliatria di Gombrowicz, questa terra dei figli, potrebbe avere un sinonimo: Europa.

 

La nave dinamitarda che vuole lanciarsi contro la nazione, che nel romanzo è la Polonia; Gombrowicz era polacco, scappò dalla sua asfissiante polonità, visse in Argentina, in Francia, un po’ a Berlino. Voleva sentirsi senza patria ma non fece altro che scrivere di lei per migliorarla, renderla più grande, costringerla a uscire dai suoi confini che la rendevano goffa, piccola, emarginata, provinciale. Quando uscì “Trans-Atlantico”, lo scrittore lo definì “un tentativo di psicoanalisi nazionale” che oggi si lega alla storia della Polonia nazionalista, così come la stiamo conoscendo dal 2015. Nel romanzo, Gombrowicz è se stesso, uno scrittore, arriva in Argentina e non sa chi frequentare, sceglie di fuggire dai “Compatrioti” e si unisce agli “Stranieri”. La figliatria è un ideale che all’improvviso si profila nel romanzo, quando un compatriota chiede a Gombrowicz di fargli da padrino durante un duello, in cui ha deciso di sfidare Gonzalo, un argentino. Quest’ultimo gli propone di tradire il compatriota nel nome di una nuova causa, una nuova fede: la figliatria. In questo gioco di specchi, in questo ragionamento deformante, c’è la rabbia di una generazione costretta a morire per la volontà dei padri, per un sentimento nazionale, piccolo e meschino, che non sentono. Questi giovani sono espatriati, fuggiti, qualcuno è poi tornato, per poi rivivere a sessantacinque anni di distanza dalla pubblicazione del libro, la rinascita di quegli stessi sentimenti, delle ansie revansciste, le rivendicazioni sovraniste di chi sogna lo smantellamento dell’Unione europea, la nostra figliatria. Il nazionalismo, espressione dei partiti populisti polacchi, italiani, ungheresi, francesi, tedeschi, piace ai padri come ai figli. I primi attaccati forse a una pericolosa nostalgia, i secondi sedotti dall’ansia di ribellione e assuefatti al benessere che l’Unione ha fornito loro senza che se ne accorgessero. La figliatria di Gombrowicz era la richiesta di un mondo più elevato, di una forza transnazionale in grado di rendere grande ogni piccolo paese, di un ideale più nobile rispetto alla rancorosa patria.

 

Dopo anni da “Trans-Atlantico” è un altro polacco a parlare dell’oppressione della parola patria, Pawel Pawlikowski, che lo fa con un film sulla Varsavia comunista. Nella pellicola i protagonisti, due giovani polacchi innamorati, vogliono stare insieme, lui fugge dalla Polonia, lei non ci riesce. Lei lo raggiunge, lui è di qua dal Muro, in un’Europa che ancora non si chiama Unione europea ma è la libertà. Lei torna a Varsavia perché sente il richiamo della patria, in lei la forza della figliatria non è forte come in lui. Lui la raggiunge nel modo più doloroso, accetta di farsi internare in un campo di lavoro, la patria gli rompe le dita in modo che lui non possa più suonare il pianoforte, lui è un musicista. Quella patria dalla quale sono già fuggiti una volta non la possono più lasciare, li sorveglia. Ma la libertà è altrove, è fuori dai confini, al di là dai muri. E Gombrowicz lo aveva già capito.

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