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Murgia misura di tutte le cose

Simonetta Sciandivasci

Dai grandi romanzi ai minuscoli bignami. Tutti i fascistometri della scrittrice dell’impegno

Lo scrittore si occupa di narrazioni e il politico di numeri, ha detto una volta Michela Murgia. Di recente. Alla tv. Ed è stato strambo sentirglielo dire: ha suonato come suonerebbe un grammofono al Sonar di Barcellona, quel festival in cui si balla elettronica per giorni, tutti sudati e impasticcati e prossimi al coma. Ha suonato un po’ stonato e fuori tempo, in questo tempo qui, così liquido troppo liquido, e multitutto e intertutto, tanto che chi gli briga contro rivuole discrimini, distinzioni, muri, frontiere, gerarchie. Solidità, nel senso proprio di stato solido. Ma usciamo fuori dal tempo, dove c’è la letteratura – e un paio d’altre bazzecole: l’infinito e la cioccolata. Nella letteratura c’è tutto: i numeri, le parole, le virgole, i libri di Michela Murgia. Tutto. Vista da lì, dai suoi libri, la sua posizione, quel dire chi deve occuparsi di cosa, quell’attribuire i numeri ai politici e le narrazioni agli scrittori, è una contraddizione piuttosto insopportabile.

 

Dire chi deve occuparsi di cosa, affidare i numeri ai politici e le narrazioni agli scrittori, è una contraddizione insopportabile

“Nascere maschi in un sistema patriarcale e maschilista è un po’ come essere figli maschi di un boss mafioso”, ha scritto su Facebook

Inciso: il tipo di politico che si occupa solo (quasi solo) di numeri è Mario Monti. Fine dell’inciso. Anzi, no: se c’è una cosa che politica e letteratura condividono è il campo d’azione: tutto. Comprereste una macchina da un commercialista? Sì. Gli affidereste la vostra felicità? Valutate voi. Ora sì, inciso finito.

 

La letteratura serve a disordinare, non a ordinare. A descrivere, non a prescrivere. I romanzi migliori sono dirupi, non uffici di collocamento. Interrogano, non rispondono. E lei, che è una gigantesca scrittrice, lo sa molto bene: lo ha perfino scritto. Quando Michela Marzano ebbe a dire che “Bruciare Tutto” di Walter Siti era “un romanzo inaccettabile”, descrivendolo come una sorta di apologia della pedofilia, a dirle che pazziava, e a spiegarle magnificamente perché, fu una Michela Murgia oggi quasi impensabile. Scrisse: “La letteratura non è tale perché risponde alle domande, ma perché resta lo spazio dove possono essere ancora poste e, nel porle, rivela l’ipocrisia di tutte le risposte inadeguate, che sempre prendono la forma del tabù”. E, cogliendo a pieno uno dei nodi del lavoro di Siti, scrisse anche: “Nel resistere a oltranza alla tentazione c’è l’arroganza presuntuosa del salvarsi da soli: se davanti al richiamo del peccato Dio non ti serve, il tuo inferno è già in quell’essere l’unica misura di te stesso”. Sono passati poco meno di due anni da allora e, incredibilmente, Michela Murgia è diventata misura, se non di sé stessa, di molte cose (tutte? C’è qualcosa su cui non si sia espressa, dall’utero in affitto – per lei grande libertà femminile – ai romanzi di Fabio Volo – che ha stroncato su Rai3, da Augias, ma poiché a tutti, ogni tanto, dev’esser concesso vincere facile, condoniamo) .

 

La militanza, l’attivismo politico e specificamente femminista l’hanno convinta che il tempo della letteratura scritta nelle torri d’avorio dovesse finire e s’è messa a sfasciarne gli orologi. Ha scelto l’impegno civile, quasi paramilitare, è andata a casa di Zerocalcare insieme a Marco Damilano e ha inaugurato l’epoca della responsabilità. E’ tutto documentato su un numero dell’Espresso di luglio scorso (e voialtri al mare), con loro tre in copertina, sul divano (sberleffo ai sovranisti qualunquisti populisti che agli intellettuali rimproverano di leggere la realtà dai loro salotti, spesso senza sapere che sono salotti Ikea, ma questi dettagli li lasciamo a Milena Gabanelli). In copertina: lei e Zerocalcare; un murales; la scritta “RIBELLIAMOCI!” in alto e, in basso, il trafiletto con la sintesi delle loro ragioni: “La destra egemone, il razzismo diffuso, l’opposizione banale”.

In Italia, come sapete, la rivoluzione non si può fare perché ci conosciamo tutti. In caso non ci conoscessimo tutti, però, un altro modo certo per impedirla sarebbe sobillare gli intellettuali, dalle colonne di un settimanale, facendo appello al loro senso di colpa, spacciato però per senso di responsabilità (una confusione che non si permette neanche in quella orrenda canzone che ha vinto l’ultimo il Festival di Sanremo – “Non mi avete fatto niente” di Fabrizio Moro ed Ermal Meta). Ricordiamocelo, casomai dovesse succedere che diventiamo un paese dove la si smette di conoscersi tutti e, quindi, la rivoluzione o almeno la ribellione diventano possibili. Peggio dei genitori che dicono ai figli di occupare scuola (“amore di mamma, in caso ti porto io il thermos di caffè o preferisci il guaranà?”) e di non farsi andar bene la società, ci sono gli appelli al dissenso scritti a sei mani in un pomeriggio d’estate e pubblicati su un settimanale.

 

Da quella copertina, Murgia ha profuso la maggior parte del suo impegno nel mostrare al paese la deriva razzista e xenofoba e fascista e neonazista, e lo ha fatto nello stesso modo in cui, mesi prima, aveva mostrato quanto fossimo tutti, femmine comprese, sessisti e maschilisti e innamorati, a nostra insaputa, del patriarcato. Ricordate quando, per settimane e settimane, aveva cerchiato le firme delle prime pagine del Corriere della Sera e della Repubblica, e aveva poi fotografato e inviato, affinché ne prendessimo e ci indignassimo tutti, all’hashtag #tuttimaschi? Sembrano passati secoli e invece è successo solo la scorsa primavera. I movimentisti e le movimentiste del #metoo si erano incaricati anche loro della computazione dell’equilibrio di genere nei quotidiani e, così, un piccolo ma coraggioso esercito di cerchiettisti aveva inondato Twitter di denunce e irritazioni e schemi e conti e dati e statistiche. E quando succedeva che, a firmare i pezzi delle prime pagine c’erano tante donne quanti uomini, i cerchiettisti capitanati da Michela Murgia facevano notare che si trattava di pezzi minori. Niente politica per le donne, a parte rare eccezioni: solo costume e cultura, magari moda, al limite sport. Diagnosi: i giornali sono in mano ai maschi allo stesso modo in cui la politica è in mano ai maschi. Inferenze facili, ma piuttosto indiscutibili. Se stabilisci che un corpo è bello se e solo se è un 90-60-90, non c’è modo di obiettare che un 100-80-200 sia bello lo stesso (e che non ci sia grasso in eccesso, ma solo ossa grosse, come dicono certe zie). Allo stesso modo, se stabilisci che la politica è rilevante e la cultura no, non c’è modo di obiettare che Matilde Serao fondò e diresse giornali fregandosene della politica e inventando il costume, che la politica non solo la contiene, e la spiega, ma – pure – la disinnesca.

 

A Michela Murgia, però, interessa il potere. E siccome il potere o lo hai o non lo hai, è chiaro che la sua posizione non può che essere manichea. O le dai ragione o le dai torto. Lei non è un leader: è un capo (distinzione che conosce, e che ha descritto perfettamente nel suo ultimo libro). In mezzo non scorre nessun fiume: in mezzo s’alza un muro. Notevole, per un’intellettuale che proprio l’innamoramento per i muri rimprovera al suo paese.

 

Quando Matteo Salvini è diventato viceministro, il codice rosso del sessismo è diventato giallo ed è passata in secondo piano l’urgenza di misurarlo nei giornali, dopo settimane di gallerie fotografiche che tentavano di restituircene un’immagine assai simile a quella di un reparto di ostetricia cinese di qualche anno fa. In primo piano, con una certa prepotenza, tra le sue priorità – che sono quelle dello spirito del tempo (sempre, fateci caso) – è finito il ritorno del fascismo. E poiché la storia non insegna niente e gli esseri umani – tutti, uomini e donne, specie se italiani – sono mediamente dormienti e, come diretta conseguenza, negazionisti, Murgia ha ritenuto opportuno impegnarsi, prima ancora che nella lotta all’emergenza, nella segnalazione della sua fenomenologia. Ha scritto un libro, “Istruzioni per diventare fascisti” (Einaudi), che fingendosi un sarcastico manuale d’intolleranza e tenendo sempre a mente la banalità del male mostra e dimostra come ci stiamo arrendendo all’autoritarismo per stanchezza, per esautorazione, per noia, per comodità. Perché la democrazia è bella, ma fa troppo male. Perché amarci ci affatica, e ci svuota dentro. Che crediate o meno al fatto che lo spettro che s’aggira per l’occidente sia il nazifascismo, è un libro interessante. Ne compromette la credibilità l’ennesimo tentativo di misurazione che lo chiude. Anzi, più che di tentativo, si tratta proprio di uno strumento di misurazione: il fascistometro. Un test, pubblicato anche sull’Espresso e inevitabilmente diventato oggetto di scherno da una parte e preoccupazione dall’altra (possibile che, in codesto reame, le avventure debban risolversi tutte con grandi puttane e, invece, le questioni cruciali debbano decidersi con i test a crocetta?) Se siete fascisti, il fascistometro vi dice quanto; se non lo siete, vi dice che invece lo siete ma non ve ne rendete conto; se volete diventarlo, vi spiega come – perché il fascistometro non misura e basta: alla bisogna, insegna, incita, sveglia coscienze. Per sedare le polemiche, Emiliano Brancaccio ha scritto sull’Espresso che l’idea di poter misurare il tasso di fascismo dentro di noi non è un inedito, né un’intuizione di Michela Murgia: lo aveva già proposto Adorno, che nel 1950 aveva elaborato un questionario che misurava la Scala F (F stava per fascismo) di ciascuno. E chissà quando ci decideremo ad ammettere che il vero sport degli italiani non è il calcio, ma la decontestualizzazione.

 

Un modo per impedire la ribellione è sobillare gli intellettuali, attraverso un settimanale, facendo appello al loro senso di colpa

Se siete fascisti, il fascistometro vi dice quanto; se non lo siete, vi dice che invece lo siete ma non ve ne rendete conto

Nel test, si chiede al lettore di spuntare le frasi che gli sembrano di buonsenso tra: “Il suffragio universale è sopravvalutato”, “Non abbiamo il dovere di accoglierli tutti”, “basta partiti e partitini”, “Se ti piacciono tanto, portateli a casa tua”, “Certo, se vai conciata così poi te la cerchi” e tutte quelle irripetibilità che si sentono più nei servizi de “Le Iene” che al bar. Ma magari dipende dalla latitudine a cui ciascuno vive. E pure dalla qualità delle cuffie con cui va in giro. Tanto divisiva come con il fascistometro, Michela Murgia non lo era stata mai, neanche quando propose di abolire la patria e sostituirla con la matria. Il #metoo era appena cominciato, si dibatteva tantissimo di potere maschile e virilità tossica e abusi e mercimonio sulla pelle delle donne e in molte (e pure molti) tentavano di stabilire che il potere è malvagio se è maschile, mentre potrebbe quasi certamente essere buono se fosse femminile. L’emendamento Murgia arrivava a margine di questo ragionamento: poiché in nome della patria i popoli hanno commesso soprusi e atrocità che li giustificassero, è ora di reindirizzare la nostra appartenenza esclusivamente al materno, che “è lo spazio dove a legittimare l’esistenza e l’identità è quello che ti offrono, matrice e conseguenza di ciò che offrirai poi tu”. Osservava poi Murgia che il concetto di patria esclude le donne. “Madre patria” per lei è un ossimoro. D’altronde, che la patria abbia tenuto bordone al patriarcato è un fatto. Quindi, per lei era arrivato il momento non di ritentare l’incontro di maschile e femminile, bensì di ribaltare la discriminazione perpetrata dalla patria in favore delle donne. In una matria non accadrebbe mai di “nascere maschi in un sistema patriarcale e maschilista”, cosa che, ha scritto su Facebook la scorsa settimana “è un po’ come essere figli maschi di un boss mafioso. Non sai cosa sia la mafia, ma da quel momento tutto quello che mangerai, berrai, vestirai, verrà dall’attività mafiosa. E’ colpa tua se sei nato in casa di un mafioso? Ovviamente no, però vivi lì e se hai occhi e orecchie da un certo punto in poi non potrai più dire: non sapevo con chi stavo vivendo”. Voleva dire – è spiegato nelle righe successive – che mondarsi del peccato originale, levarsi la macchia umana, disintossicarsi da ciò in cui si è cresciuti (il maschilismo, il patriarcato, il fascismo, l’intolleranza) non è sufficiente. Rispondiamo di noi stessi e rispondiamo degli altri.

 

Cari maschi, non basta che badiate al vostro: dovete dare una mano alle donne per disintossicare, correggere, denunciare, sorvegliare e punire i vostri colleghi . A “La Tv delle Ragazze” (in presenzialismo televisivo, potrebbe un giorno battere Antonio Maria Rinaldi) Murgia ha spiegato che le favole e l’epica che leggiamo da bambini ci insegnano che gli eroi sono sempre maschi e sempre soli. “Pretendete storie in cui siano i gruppi creativi e la collaborazione a fare la differenza”, ha detto a una generazione cresciuta con i Goonies, mica con l’Odissea. Ma volete mettere l’effetto, il cerchiettismo si porta sempre bene, in tutte le sue propaggini.

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