Paolo Di Paolo, Gina Lollobrigida e Giorgio De Chirico, Roma, 1961 ©️ Archivio Paolo Di Paolo / Courtesy Collezione Fotografia MAXXI

Paolo Di Paolo, un mondo senza paparazzi

Michele Masneri

Incontro con il fotografo prediletto da Pasolini e Magnani. La Dolce Vita, Roma, e "il Mondo".

 

Il segreto meglio conservato della fotografia italiana stava in una cantina sulla Nomentana. Fino al ’66 Paolo Di Paolo ha fotografato tutti: il popolo e Re Umberto, l’Autostrada del sole e il treno Settebello, i contadini sardi e i bagnanti delle prime estati romagnole; i balli dei principi romani, i funerali di Togliatti, le mondine della pianura padana, Tennessee Williams a Tor San Lorenzo; è stato il fotografo prediletto di Pasolini e della Magnani. Sempre attento a non confondersi mai coi paparazzi: anzi quando questi hanno preso il sopravvento ha sotterrato l’archivio e si è nascosto. La figlia Silvia a un certo punto scopre, cercando gli sci, migliaia di foto, chiede al padre dove le abbia comprate, forse nei frequenti giri ai mercatini?  Qualche stampa finisce in una galleria, lì viene notata da un entusiasta Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci. Da lì, i trionfi: martedì prossimo verrà presentato al Maxxi il volume “Paolo Di Paolo. Mondo perduto”, a marzo aprirà una grande mostra. Bruce Weber sta facendo un documentario su di lui.

 

Di Paolo, novantatré anni, è stato scoperto: oggi è un signore minuto e raffinato nel suo tweed. Nel suo studio, in una palazzina di un elegante Bauhaus nomentano, ecco il “Mondo”, di cui fu il più assiduo fotoreporter. Il mitologico settimanale di cui tutti parlano, in raccolte: l’annata 1959 con i reportage di Arbasino dal Londra e i fondi di Antonio Cederna. Ma al Mondo, Di Paolo capitò non subito. Dal Molise era venuto a studiare a Roma, dove viveva una sorella che ha sposato un poliziotto. Quartiere Appio, liceo classico in banco con Lucio Colletti, amico per una vita, poi faranno filosofia insieme. Di Paolo è  innamorato, prima ancora della fotografia, dei giornali.  Per mantenersi fa il vetrinista, il rappresentante di libri, il redattore di una “Gazzetta dei concorsi”: “facevo tutto, scrivevo, disegnavo, portavo pure il giornale in bicicletta”, dice al Foglio.

 

E’ bravissimo a vendere la pubblicità, entra alla Guida Monaci, poi  alla Cit, compagnia italiana turismo, diventa il capo della pubblicità e rivoluziona il loro mensile. Nel frattempo si è messo a frequentare la bohème romana, “andavo sempre a mangiare in un posto che si chiamava il Menghi, all’inizio di via Flaminia, di fronte a un deposito della nettezza urbana. A pranzo c’erano i netturbini che si portavano il panino e prendevano il fiasco di vino. Era un posto dove si pagava poco; si diceva che si potesse anche non pagare”. Lì c’erano “Turcato, la Accardi, Mafai, tutti gli artisti noti poi come Forma1. Non avevamo la cucina a casa, tanti nemmeno la casa, e si stava lì fino alle 4 di mattina”.

 

Li fa collaborare al suo giornale, “chiamo Carla Accardi e Turcato, lo faccio ridisegnare, vien fuori una cosa bellissima, e faccio un sacco di soldi”. Ma intanto sogna la fotografia. “Gli uffici della Cit erano al primo piano della stazione Termini. Sotto, c’era un grande negozio di ottico. C’era una Leica IIIC in vetrina. Ogni volta che ci passavo ci facevo l’amore con quella macchina”, dice oggi con l’occhio ceruleo. “Non sapevo niente di fotografia. Ma io compravo il Mondo, come tutti. Il Mondo aveva questa bella fotona in copertina, una foto che non c’entrava niente con gli articoli. Era una cosa molto moderna”. Dopo un po’ gli amici della bohème gli dicono:  “devi portare le tue foto al Mondo”. “Io pensavo che fossero pazzi”. “Il Mondo era notoriamente illeggibile, nessuno lo leggeva, ma tutti lo compravano”. Era il New Yorker italiano. “Ci collaborava anche un mio professore di filosofia, Carlo Antoni. A lezione non si capiva niente, pensavo che sul giornale fosse costretto a essere più chiaro. Invece non si capiva niente neanche lì”. Però c’erano le foto.

 

Un giorno si decide a salire le scale “di via Campo Marzio 24, dietro il Pantheon, dove mi riceve una ragazzotta un po’ truce, che mi chiede chi sono e cosa voglio, le mostro senza alcuna speranza delle foto, mi dice ‘aspetti’, poi torna, e dice: ‘tre’. “Tre cosa?” A scegliere gli scatti è, dietro le quinte, Mario Pannunzio. L’augusto fondatore che “era anche art director e photoeditor. Teneva attorno al collo una cordicella con dei nodi, che gli servivano per misurare le foto”.

 

La redazione erano “quattro stanzoni disadorni. C’era la stanza di Cederna, solitario, c’era quella di Flaiano” (dateci una macchina del tempo, presto!); “si diceva che fosse stato lui a disegnare la testata del giornale”, e allora era nota la rivalità con Pannunzio.

 

C’era  “uno stanzone con Nina Ruffini, nipote di Giacosa, antifascista, impettita”, torinesità in purezza. “Capelli bianchi, pelle trasparente, tic tic tic alla macchina da scrivere” (mentre parla scorriamo foto di gruppo magnifiche di Di Paolo). Mino Maccari, il vignettista, rideva tutto il tempo con Pannunzio, che “usciva e li guardava malissimo”. E poi c’era un divano liso su cui stavano due signori vecchissimi, non ho mai capito chi fossero; uno dei due aveva un cappello, forse dormivano anche lì. Ogni tanto uno dei due bofonchiava qualcosa, e l’altro dopo un quarto d’ora solennemente commentava, e poi dopo interminabili minuti anche la Ruffini chiosava, con la sua vocina”.

 

“Nella stanza di Pannunzio arrivavano le bozze che lui appendeva nel suo tavolo da architetto, e con la cordicella che teneva al collo misurava gli ingombri delle foto”. Il Mondo – eccolo qua!, l’abbiamo sulle ginocchia, era formato quotidiano, come poi sarà il primo Espresso. “Arrigo Benedetti, fondatore dell’Espresso, e Mario Pannunzio” dice Di Paolo, “erano entrambi di Lucca.  Pannunzio era un concentrato di snobismo. Mamma contessa, mezza inglese, lui teneva sopra di sé in ufficio un ritratto di Cavour e sulla scrivania una foto di un vecchio. Pensavo fosse suo nonno, invece era Benedetto Croce”.

 

A un certo punto questa entità leggendaria lo vuole conoscere. “La sera, perché i fotografi li ricevevano la sera. Mi interroga: liceo classico, Kant, allievo dei suoi collaboratori, Calamandrei, Carlo Antoni”, dunque bene. “’Adesso capisco’, dice”.  Sul Mondo Di Paolo pubblicherà 573 fotografie, più di ogni altro. Il Mondo, “sedici pagine, a volte ventiquattro”, nato sul modello di  Omnibus, il giornale di Longanesi, “era un club: frequentato soprattutto da professori, politici; i giovani collaboratori come Arbasino e Scalfari venivano poco. Si imparava di più la sera a orecchiare le conversazioni che non il mattino all’università”.

 

Pannunzio sarà stato pure figlio di contessa ma nelle foto, con camicia a maniche corte, sembra un po’ un salumiere, con cordicella al collo. “Era velocissimo a scegliere le foto”, dice Di Paolo. La bocciatura più celebre, quella di una foto di Pasolini. Un reportage che il Poeta aveva affidato a Di Paolo: con PPP sul Monte dei Cocci a Testaccio, “con un ragazzo che sembra scappare dall’obiettivo e PPP che lo guarda dolente”, e in mezzo Roma sotto il cielo livido. “Una foto perfetta ma casuale, questo ragazzo venne su a spiare che succedeva, senza il coraggio di fermarci, e Pasolini lo guardava. Feci finta di allacciarmi una scarpa, misi un grandangolo e scattai”. Non piacque. “No”, disse solo Pannunzio. “Grazie e arrivederci”. “Tieni presente che lui è un crociano”, mi spiegarono. “In Croce l’estetica ha due elementi, la forma e il contenuto: quando nessuna delle due prevale, solo allora c’è la bellezza”. “Quella foto era troppo bella”.

 

Di Paolo faceca parte di un’aristocrazia sentimentale di fotoreporter:  “eravamo pochi, quattro-cinque. Gaio Garruba, i fratelli Nicola e Antonio Sansone, Enzo Sellerio, Mario Dondero, Pablo Volta. Non sembravamo neanche fotografi: raramente andavamo in giro con la macchina al collo, c’era una forma quasi di pudore”.  Il maestro era ovviamente Cartier Bresson, “però puntavamo a un minor formalismo: pensi che le sue foto venivano continuamente proposte al Mondo, ma ne prendevano poche. Grande pulizia formale, certo. Ma l’aspetto sociale non lo riguardava più di tanto. Io seguivo più Werner Bischof”.

 

Con Pasolini si erano incontrati in uno strano prequel del Sorpasso. “A inizio estate 1959 propongo un reportage al Tempo Illustrato, un giornale di Milano, un giro di spiagge per raccontare le nuove vacanze degli italiani. Il direttore ne fu entusiasta e volle Pasolini per i testi; anche se lo scrittore non aveva mai fatto un reportage. Fu contattato, rassicurato che lavorassi per il Mondo, accettò”. I due partono “sulla mia MG Arnolt carrozzata Bertone coupé, rossa, una macchina abbastanza rara, che poi vendetti pentendomene,  e poi ne ho ricomprata una uguale da un texano anni dopo”. “Pasolini mi prese in giro”. Ma come: al Poeta piacevano le macchine sportive. “All’epoca però aveva una Millecento e mi prese in giro”. “Prendemmo l’Aurelia, e dopo poco la macchina si fermò per un problema di candele. ‘Ah, sei pure meccanico’, mi dice. Silenzio e incomunicabilità. Avevamo la stessa età, trentacinque anni circa, pensavo che avremmo parlato un po’, invece niente. Arrivati a Forte dei Marmi, non sapendo che dire, gli suggerisco di andare al Cinquale, la spiaggia cantata da Rilke. ‘Ma come, conosci Rilke?’. Il fotoreporter cita i versi giusti. Il Poeta si tranquillizza. Il Poeta non intervista nessuno, “non prende appunti, scruta solo tutto e tutti, è un fantasma”, mentre Di Paolo scatta turisti tedeschi, Walter Chiari, autostoppisti, cantieri navali, la modernità balneare, e chiama Milano preoccupato del suo compare fantasmatico. Ma il testo è già arrivato, “formidabile”. Verranno fuori un reportage celebre, “La lunga strada di sabbia”, e tutte le foto più celebri di PPP, dalla tomba di Gramsci a quelle con la mamma, al set. E qualcosa di simile a un’amicizia, se mai è possibile essere amici del Poeta. “Era sempre assente. Un animale terribilmente solitario”. PPP prosegue il suo viaggio con la sua Millecento per il resto dell’estate. “Il cuore mi batte di gioia, di impazienza, di orgasmo. Solo, con la mia millecento e tutto il Sud davanti a me. L’avventura comincia”, scrive al Circeo.

 

Lo stesso Circeo dove Di Paolo arriva dalla Magnani, nella villa a Punta Rossa. Si fidano di lui, l’antipaparazzo. Tante foto non le pubblica. Così la Magnani, che era braccata da tempo per via del figlio Luca, poliomelitico, “per cui si era sviluppato un interesse morboso da parte della stampa”. Un fotografo era arrivato a sedurre la cameriera dell’attrice, e poi entrarle in casa per scattare. Lei riuscì a far ritirare i negativi. “Mi fece chiamare, d’estate. A un certo momento si mette in costume, mi prende per mano, sulla spiaggia privata, e ci sono dei ragazzi tra cui il figlio Luca, e mi dice: “e mò datte da fa”, e lui scatta, meglio lui che gli altri, e le foto col figlio sono già leggenda.

 

C’è poi il periodo mondano. Di Paolo è l’unico a fotografare il 6 dicembre 1958 il grande ballo a palazzo Pallavicini-Rospigliosi. Di fronte al Quirinale c’è il debutto in società di Camilla Pallavicini, figlia della principessa Elvina. “L’invitato d’onore era il principe del Belgio. C’erano i reali di tutta Europa, ma io non è che li riconoscessi. Non ero un esperto. E c’era il piano, lo scoprii dopo, di far maritare la giovane Pallavicini col futuro re del Belgio. Duemila invitati. Arrivai a palazzo, che mi parve il Louvre, con l’amministratore di casa Pallavicini che mi scruta dall’alto in basso e mi dice: ‘caro giovanotto, lei sa quanti sono venuti a chiedere di poter fare le foto prima di lei? Duecento. Ma noi non ammetteremo alcun fotografo’. Io ringrazio e mi scuso, faccio per andarmene. Quello mi guarda le scarpe, e dice: ‘aspetti qui’. Riviene a prendermi, mi porta in giro per decine di saloni, poi entriamo in uno stanzino piccolo, con una signora arcigna, tutta vestita di nero. Io saluto, lei non risponde, si infila gli occhiali, fa solo un cenno con la testa all’amministratore: era la principessa Pallavicini” (un mito a Roma, capa dell’aristocrazia nerissima, ospitò Lefevre, tifava per lo scisma). L’amministratore gli chiede: “lei ce l’ha un frac, vero?”. “Io avevo lo smoking, bello, del sarto Litrico, ma non il frac. Vado ad affittarlo in una sartoria teatrale, ‘ma che è, tutti volete il frac oggi?’”.

 

“Il giorno dopo mi chiamano: hai le foto di Alberto e Paola? Ma quale Paola?” Era Paola Ruffo di Calabria, che, in un classico plot, era arrivata come damigella della festeggiata, e quella sera aveva danzato fino all’alba col principe, e sarebbe poi diventata Paola del Belgio. “Io non avevo capito niente, ma per fortuna li avevo fotografati”. “Lì nacque la leggenda che io avessi chissà quale entratura mondana. Un po’ grazie a quel servizio cominciai a frequentare quell’ambiente con un po’ di disinvoltura”. Per un po’ fa coppia con Irene Brin. Anche lei arrivata fortunosamente al Mondo. “Scriveva su un giornaletto di provincia, mandò un pezzo di prova, a Pannunzio piacque, lui le telegrafò: “articolo bellissimo, da oggi ti chiamerai Irene Brin”, lei in realtà si chiamava Maria Vittoria Rossi”. “Eravamo la coppia più odiata di Roma. Divenne poi Rome Editor di Harper’s Bazaar. Sempre guantini e veletta, la chiamavano donna Irene. Abitava a palazzo Torlonia, vicino a piazza di Spagna. Voleva solo fotografi stranieri. Di Paolo viene invitato per un tè e supera la prova. “Belle case, belle macchine, bei vestiti. Ero anche uno dei pochi ad adoperare il Penhaligon’s a Roma. Forse la frequentazione col Mondo mi aveva contagiato”, dice oggi nel suo tweed, tra varie foto di principesse sparse per la casa. La figlia ha parlato di una vita “tra attrici e nobildonne”, ma lui dice macché, sciocchezze, e sorride, e in questa riservatezza deve stare il suo segreto.

 

Nel ’66 il Mondo chiude. E’ finita un’epoca e son finiti i soldi. “Pannunzio non voleva la pubblicità, per non essere condizionato ma anche per non turbare la grafica del giornale”. Le uniche due ammesse, due aristo-réclame, quella dell’Olivetti e quella dell’Alitalia dell’ad conte liberale Carandini.  E poi arrivano i paparazzi. “Quando ci fu l’esplosione dello scoop scomposto io mi sentii perduto”. Mette in cantina l’archivio, torna a studiare, e incredibilmente diventa direttore delle pubblicazioni dell’Arma dei Carabinieri, compreso il calendario, di cui naturalmente ripristina prestigio e vendite. “Ogni tanto qualche studentessa telefonava per fare una tesi di laurea su di me, stupendosi che fossi ancora vivo”. Adesso è stato scoperto, e tra il libro e la mostra e il documentario rischia di diventare una celebrità lui stesso (orrore). Ma perché le teneva in cantina, quelle foto?  “E dove le dovevo mettere, scusi?”.

 

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