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Lacrime benedette

Simonetta Sciandivasci

L’educazione al pianto delle femmine. Un libro degli anni Trenta e quello che non abbiamo capito

Se solo fosse possibile contare quante ragazze magiche, di quelle che trasformano un pomeriggio in un capolavoro e lanciano in aria il mondo e lo riprendono al volo, chissà che numero verrebbe fuori. Chissà quante ce ne siamo perse e ne abbiamo inibite, intristendole ed educandole alla seriosità. Quanta allegria abbiamo arrestato, e che danno incalcolabile. “Devo imparare a prendere la vita sul serio, ma com’è che si fa?”, dice la piccola protagonista di “Una bambina da non frequentare” di Irmgard Keun (L’Orma Editore,per la prima volta in Italia), scrittrice tedesca che decise di ambientare il romanzo nel 1918 e di infilare la guerra nelle battute di una bambina vispa, convinta di poterla arginare, di sopravviverle, forse addirittura di poterla debellare, vedendone la piccolezza e la miseria. E’ un libro sorprendente perché racconta questo particolare tipo di resistenza e di opposizione al male attraverso il buonumore e il riso e lo scherno (se state pensando a “La vita è bella”, vi sbagliate: lì è tutto affettato e il buonumore è strategia; qui, invece, è una specie di gaiezza genetica e incontenibile). Ancora più sorprendente è la consapevolezza che ha la protagonista del tentativo coercitivo, spacciato per educazione, a cui è sottoposta (dalla famiglia, dalla scuola, dalle amichette e dalle loro famiglie, dalla guerra: da tutto); la lucidità con cui si rende conto che una bambina come lei è inaccettabile non solo perché è insopprimibilmente contenta (e lo è perché semplifica, rifugge e non accetta le sovrastrutture) ma pure perché è (si sente) forte.

 

“Potrei scaraventare macigni su e giù dalle montagne, sollevare mio padre, attaccare briga per strada con trenta bambini”: se solo non avesse un esercito contro, intenzionato a fare di lei una signorina a modo, una che esagera e piange, una che al cimitero si dispera, ma rimane compìta e mai e poi mai farebbe quello che fa lei, che ruba i fiori e li porta a sua madre, e men che meno penserebbe quello che pensa lei, e cioè che “i morti non ridono più, loro battono le ossa, che è il loro modo di ridere e il vento è eccitato”. Anche in “Re Mida ha le orecchie d’asino” di Bianca Pitzorno il cimitero è, per le due amiche protagoniste, un posto misterioso, pacifico e affascinante, pieno di tipi molto buffi: i morti. E Bianca Pitzorno e Keun non possono essersi incontrate ed è altrettanto difficile che una abbia letto l’altra. Le correzioni apposte dal nuovo femminismo alle favole per bambine non si curano mai di questo aspetto, concentrandosi su quello (ormai disinnescato, se ne faranno mai una ragione?) dell’assistenzialismo principesco: la violenta induzione al dramma somministrata alle bambine. La protagonista di Keun s’accorge anche di questo e infatti quando suo padre vuole leggerle le favole, lei lo obbliga a giocare a gavettoni. Che libro meraviglioso. Chissà quanto dev’essere suonato scandaloso quando uscì, nella Germania del primo Novecento. E per noi? Le tolleriamo, noi, le ragazze magiche?

 

Le sfrenate, infuocate ragazze che non prendono mai niente sul serio? Gente allegra il ciel l’aiuta, ma i frignoni li aiutiamo quaggiù, noialtri terrestri umani troppo umani, intossicati dal senso di colpa e dall’ossessione per l’empatia, incapaci di sopportare che un altro, specie se femmina, ci pianga davanti. Drammatizzare si porta sempre, conviene, e per molto tempo ci siamo convinti che fosse un talento spiccatamente femminile. Poi no, poi ci siamo convinti che fosse un’induzione culturale per tenerle a bada. Poi ancora che fosse un miscuglio delle due cose, come effettivamente è. “Non piango spesso, a eccezione di quando ho un attacco di panico o di quando guardo la pubblicità dei cereali. Per il resto, non una lacrima, nemmeno davanti a un film triste o quando mi capita qualcosa di brutto”, ha scritto Katie Heaney su The Cut, rispondendo alla domanda che dava il titolo al pezzo: vivrei meglio se piangessi di più? La risposta è sì. Ed è stato scientificamente sondato e provato. In uno studio di Vingerhoets, che ha un paio di anni ma che torna sempre utile e viene costantemente aggiornato, emerge che le donne che riescono a ottenere più attenzioni sono sempre e ancora quelle che piangono, che si lamentano, che esasperano i malcapitati intorno a loro, quelle che sono non semplicemente emotive, ma vittime dell’emotività. Ed è dimostrato anche che la cultura che abbiamo prodotto e continuiamo a produrre le costringe a simulare dolore anche quando non soffrono, a illanguidirsi, a commuoversi, perché se non lo fanno, si sentono sbagliate. “Accidenti, ma perché non piango, sono così orribile?”, quante volte ce lo siamo domandato, ragazze?

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