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Il foliage va ben oltre Instagram, c'è di mezzo il rapporto tra uomo e natura

Antonio Gurrado

La filosofia vegetale è cosa seria. Gli editori l’hanno capito

C’è un ciliegio miracoloso a Milano, in via Giotto angolo Pier Capponi, lungo il tratto della 67 che va da Conciliazione a Wagner. Fiorito a novembre dell’anno scorso, è rimasto fiorito a dicembre e fiorito ancora fino a primavera come perenne monito, evento mitologico, metafora (ma di che?). Non vado a controllare se si ripeta quest’autunno poiché il ciliegio campeggia al centro di un libro – in Foliage. Vagabondare in autunno (Raffaello Cortina editore) il filosofo Duccio Demetrio gli dedica un breve diario – quindi al centro di una teoria. E’ parente degli alberi narrati in libri consimili degli ultimi mesi che nelle foglie trovano simboli e insegnamenti: La vita delle piante. Metafisica della mescolanza di Emanuele Coccia (il Mulino); Il giro del mondo in 80 alberi di Jonathan Drori (L’Ippocampo); Alberi sapienti, antiche foreste del forestale Daniele Zovi (Utet), che dal titolo sembra riprendere classici di Peter Wohlleben come La saggezza degli alberi (Garzanti), che ha fatto seguito a La vita segreta degli alberi, La saggezza del bosco e così via.

  

Wohlleben sostiene l’antropizzazione del vegetale fino a individuare un carattere per ogni albero. Adesso sarei tentato di aprire la porta di casa per scoprire se il tiglio nel cortile sia pauroso o temerario, prudente o spavaldo, secondo la quadripartizione del botanico metafisico; tuttavia a stento so che è un tiglio, forse nemmeno e, appreso dalla stessa fonte che le foglie cadute equivalgono alle feci della pianta, varcando la soglia le calpesterei con tutt’altro spirito. Quanto al ciliegio raccontato da Demetrio, va affrontato come albero metafisico, monumento a una propensione alla filosofia vegetale che pare aver colto l’editoria italiana e che va presa sul serio: affronta infatti il nucleo originario della filosofia stessa, il rapporto fra uomo e natura.

 

Le foglie ci hanno sempre parlato: il primo paragone fra di esse e la vita dell’uomo si trova nell’Iliade e la rima foglie/spoglie, nel senso macabro del termine, è già nel terzo canto dell’Inferno. Come Aristotele individuava l’inizio della filosofia nel thaumazein, ossia il meravigliarsi, così Demetrio si domanda se tale stupore non sorga da bambini quando ci si accorge che le foglie cambiano colore. Il foliage, spiega dottamente, è un termine dall’etimologia inglese che indica il fogliame in genere e poi quello caduco (ma noi lo leggiamo alla francese anche se la radice allora sarebbe feuille) individuando in esso la testimonianza della “solennità dell’annuncio, del ritorno, della ricomparsa”. Per il filosofo la foglia è dunque anzitutto arché: prima meraviglia e – aggiunge Jaques Brosse – presa di coscienza della forma originaria, quella della vita che anima la coscienza stessa.

 

Il successo della filosofia vegetale va tuttavia ricercato in altri temi che animano le pagine di Demetrio. Al filosofo interessa la foglia come segno che comunica qualcosa di essenziale, preesistente all’uomo; un po’ come Marcovaldo che, racconta Calvino, restava disorientato dalle luci di semafori e insegne mentre non gli sfuggiva una singola foglia che ingiallisse, benché destinata a passare inosservata in città. Nella perfezione delle foglie infatti i filosofi cristiani hanno visto l’impronta dell’esistenza di Dio, nella loro difformità quelli atei l’incessante ricamo del caso. Idem, nella foglia il filosofo impegnato trova l’ultimo usbergo di una resistenza: il foliage invoca il campo semantico della defoliazione, scrive Demetrio, della deforestazione, dell’assalto dissennato della chimica inquinante cui la natura cerca di opporsi come può. Josep Maria Esquiriol parla della natura come “resistenza all’attualità”, dove la resistenza è il verde e l’attualità, si presume, la plastica.

 

Soprattutto però per un filosofo la foglia è scoperta, rivelazione intellettuale. Il flâneur che osservi le mutazioni delle foglie abbraccia quella che Demetrio chiama la “filosofia errabonda di chi cammina per cercare senza posa”, una botanica peripatetica che conduce “a non accettare verità rivelate, certezze, sicurezze” come fa invece il pellegrino che ha una meta precisa in terra e in cielo. Quest’itinerario digressivo sfocia in due soluzioni familiari a chi ha letto Heidegger: Lichtung, la radura, il luogo che aprendosi si fa luminoso facilitando la comprensione di ciò che un passo prima sembrava opaco; Holzwege, i sentieri interrotti che, ricoperti di erbe, si perdono nel fitto e sviano.

 

Le foglie sempre ci parleranno: a loro un misterioso versetto alla fine dell’Apocalisse attribuisce la guarigione delle nazioni. Resta però che l’itinerario del foliage, perdendosi nel nulla, svela al filosofo che “non c’è nessuna stazione finale, perché il mondo è infinito”, come scrive Sergio Givone. Deriva dal foliage la sensazione di un’armonia intrinseca – “All that famous harmony of leaves”, secondo il verso di William Butler Yeats – che però Raffaele Milani spiega in termini di “spontanea lingua inafferrabile fatta di tracce, di cenni, che ci rimanda a una sintonia segreta, a un geroglifico delle forme intorno a noi”. Questi due studiosi di estetica, citati a ragione da Demetrio, hanno colto implicitamente il modo nuovo in cui la filosofia guarda alla natura: se essa è un geroglifico, non è più scritta nella “lingua matematica” senza la quale, ammoniva Galileo nel Saggiatore, resterebbe “oscuro labirinto”. Fra le cui volute campeggia il misterioso ciliegio milanese che, sospetta Demetrio, potrebbe trarre forza dal mefitico calore della sottostante metropolitana rossa, fermata Buonarroti.

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