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Salvare il tempo perduto raccontando la Torino piccola che non c'è più

Alfonso Berardinelli

Un libro di Bertini e la differenza tra memoria e storiografia

Il piccolo, perfetto e incomparabile libro Torino piccola scritto da Mariolina Bertini e pubblicato da Pendragon (110 pp., 13 euro) si apre con una pagina che non riesco a non citare, in cui l’autrice parla della sua amica Adriana, figlia dello storico Aldo Garosci, scomparsa nel febbraio di quest’anno. Si era infortunata e aveva vari problemi di salute: “Nessun ostacolo però riusciva a tenerla lontana dal Mercatino di via Tenivelli, di cui contemplava i banconi coperti di piatti scompaginati, colonnine tortili azzurro-dorate, statuette africane e scrigni finto-medievali con lo sguardo di un bimbo riuscito a insinuarsi nel laboratorio di Babbo Natale. Nell’attrazione che la folgorava davanti a una brocchetta di peltro o a una ciotola di Limoges non entrava mai la minima considerazione utilitaria; le cose che comprava non erano mai cose di cui avesse bisogno ma – come mi ha spiegato una volta – cose che aveva l’impressione di ‘salvare’. La sua felicità davanti a una bambolina in costume giapponese o a certi piattini dal bordo dorato raffiguranti le principesse delle Mille e una notte, mi era difficile condividerla (…) Adriana però non vedeva quegli oggetti come li vedevo io, racchiusi in un’aura di lutto e di oblio (…) Li leggeva come reperti dello sterminato Novecento in cui suo padre aveva combattuto per la Spagna repubblicana e lei aveva, giovanissima, corretto le bozze del giornale anarchico ‘Umanità nuova’; in cui sua nonna materna, polacca, aveva vissuto nella Capri di Gorkij e di Lenin”.

 

Senza questa lunga citazione mi sarebbe stato difficile, forse impossibile, spiegare due cose: sia lo stile e la materia di questo libro che la contemplativa felicità con cui l’ho letto e che sa trasmettere, credo, a ogni lettore. Andare dagli oggetti esposti nel Mercatino, così magneticamente inutili, alla Capri di Gorkij e Lenin, dà le vertigini ma mostra anche di che misteriosa stoffa è fatta la storia: grandi eventi e minime testimonianze di una vita quotidiana tanto effimera da sapere di eterno. E’ questa vertigine che quasi sempre sfugge agli storici e alla loro vocazione a spiegare e sintetizzare. Il salto fatale è quello che permette allo storico di passare da testimonianze, documenti e reperti a idee e interpretazioni generali, che da un lato danno senso a tutto e dall’altro ne violentano e annullano le presenze reali, innumerevoli, concrete e sfumate, inutili e ipnotiche. E’ il sapere inspiegabile del collezionista a mostrare la qualità distruttiva del pensare in grande che caratterizza lo storico. Nel passaggio dalla percezione al concetto, le cose spariscono. La memoria è una cosa, la storiografia un’altra. Ma che cos’è la seconda senza la prima?

 

“Agli inizi del XXI secolo – scrive Mariolina Bertini – mi sono trovata a contatto con molte persone che, proprio come Adriana, avvertivano il dovere e l’urgenza di ‘salvare’, in un modo o nell’altro, la memoria del Novecento e di trasmetterla alle generazioni a venire”. Importante e nobile proposito. Ma qui entra in campo la Storia in grande, mentre in Torino piccola e nello stile di Mariolina Bertini non conta il grande, conta il piccolo. La piccola Torino che ispira questa singolare autobiografia, non è quella di Gramsci e di Gobetti, dell’antifascismo, della classe operaia, della Einaudi, della Fiat e più tardi dei “Quaderni rossi” e del ‘68, che compare e sparisce nelle ultime pagine: tutte cose per le quali l’autrice sembra non avere neppure il lessico adatto, o meglio non avere nessuna voglia di usarlo.

 

La vera magia di un tale piccolo libro emana tutta dalle cose piccole, viste con occhi infantili, spesso più ottocentesche che novecentesche, quindi considerate di “cattivo gusto” da chi è stato conquistato dai vari stili del Novecento: rigorosi, geometrici, funzionali, astratti e generalmente (per dirla con Ortega), “disumanizzati”. L’amore per le strofette rimate, gli aneddoti umoristici, gli interni famigliari, le paure e i piaceri tra infanzia e adolescenza, nonché una precoce affezione per i versi di Carducci e la prosa di Croce, percorrono tutto il libro. L’autrice come scolara, in una Torino ancora avvolta da una nebbiolina tardo ottocentesca o anni Cinquanta, arriva infine all’Università, entrando in un’epoca nuova, più reale ma stranamente meno narrabile. Allora compaiono le riunioni nella Federazione del Partito comunista, i tascabili della BUR avidamente collezionati, i compagni che “accanitamente” leggono Marx e la triade dei famosi cattedratici torinesi, i tre volti del “potere accademico” a cui dichiarerà guerra il movimento studentesco nell’autunno del 1967: Giovanni Getto, il volto euforico “mai sfiorato dal sospetto che quel potere possa un giorno essere messo in discussione”. Luigi Pareyson, il volto disforico: “per lui, palesemente, quel potere è un peso quasi insostenibile”. Nicola Abbagnano, il volto scettico: “a quel potere, lui ci crede molto poco, e sembra dirci con il suo sorriso canzonatorio che il potere vero è tutt’altra cosa” e ce ne accorgeremo più tardi.

 

La conclusione è un po’ triste, come il finale di Pinocchio. La Torino piccola raccontata fino a poco prima, che somigliava a quella minuscola enciclopedia di fiabesche minuzie raccolte nel Mercatino, è sparita all’improvviso. E’ contro la sua sparizione, è per amore del suo “tempo perduto” che è stato scritto questo libro da Mariolina Bertini, non per caso la nostra migliore e più appassionata studiosa di Proust.

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