Leonardo Sciascia

Gli amici sono d'accordo anche se la pensano diversamente. Sciascia e Vilardo

Annalisa Chirico

“Nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli”, le lettere indirizzate da “Leonardo” a “Stefano”

Roma. Leonardo Sciascia e Stefano Vilardo si conoscono sui banchi di scuola a Caltanissetta, sono quasi coetanei, il primo è più vecchio di un anno soltanto, sono quasi compaesani, il primo è di Racalmuto, il secondo di Delia, e pur nelle divergenze di personalità e destino i due sono legati dal filo di un’amicizia sincera, di quelle che resistono all’usura del tempo e agli accidenti della vita. Li accomuna inoltre la passione per la letteratura: Sciascia diventerà per tutti Sciascia, Vilardo si affermerà come autorevole scrittore e poeta di dimensione isolana.

 

Nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli” (De Piante ed., pp. 32) è un epistolario snello che racchiude le lettere indirizzate da “Leonardo” a “Stefano”: la voce in campo è quella del racalmutese che incoraggia l’amico a coltivare la scrittura, talvolta elogia una sua poesia, talaltra la stronca spronando l’interlocutore a fare meglio. Non ci sono dunque le profezie politiche sul compromesso storico e sul caso Moro, non c’è spazio per la mafia né per la giustizia. Nella raccolta di lettere vergate a mano la colleganza intima tra i due oltrepassa l’opera letteraria, l’uno si aggiorna sull’esistenza altrui, il mal di denti passa, i figli restano, e poi, d’un tratto, incombe il “male di vivere” di un intellò inafferrabile: “Nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli. L’infelicità è una condizione necessaria all’intelligenza. Ma sereno lo sono”. “Sono qui, fisicamente attediato (la vita del paese: soltanto) e spiritualmente pronto e vorace – confida Sciascia – Che cosa farò? Oggi potrei occupare con invidiabile dignità una cattedra universitaria e invece aspetto un incarico in questo ginnasio e la pubblicazione di qualcosa sul giornale di Caltanissetta. Ho tradotto poesie di Baudelaire: e ne sono contento come della cosa mia più bella. Te ne manderò qualcuna. Questo sfogo di orgoglio e di scontento io me lo permetto soltanto con te”.

 

Si legge del falegname che sta ultimando i lavori nelle due stanzette che l’autore di “Todo modo” andrà ad abitare, i ritratti di Pirandello sono affissi alle pareti, sullo sfondo la vita familiare gli si apre serena: “Comincio ad avere per le persone, ed anche per le cose, un affetto che la mia volubilità di ieri ignorava”. Certi animi inquieti, non inquadrabili in nessuna chiesa, allergici a ideologie e inquisizioni, giammai trovano requie. In un’epistola del maggio 1940, il ventenne Sciascia trasmette alcuni suggerimenti, l’abbozzo di un trattato di poetica: “Ricordati sempre che bisogna distinguere, vagliare e soprattutto non improvvisare. Quando comincerai a sentire che scegliere una parola e farla poesia è più faticoso di un qualunque lavoro normale, allora vuol dire che hai qualche speranza per diventare poeta. D’altra parte non credere che con le mie poesie io faccia sul serio. Allo stesso modo devi fare tu, anche se le tue poesie siano senza paragone più ben nate delle mie. Non scherzo, ti ripeto che mi fa piacere notare i tuoi progressi”. Come emerge da una missiva del 1944, Sciascia nutre scarsa fiducia nel giudizio del pubblico: “Ti consiglierei di pubblicare, pubblicare: il buono piacerà ai pochi. Il brutto piacerà ai più – ed in queste due alternative qualcosa di te comincerà a restare nella memoria degli altri, finché da solo ti solleverai a quello che sarà uno stile, una inconfondibile espressione”.

 

Da dove trae impulso il mestiere del poeta? “Per scrivere una poesia tu per ora avverti il bisogno di un avvio ‘tematico’: una parola una frase una vivida espressione. Questo avvio lo trovi negli altri in Quasimodo, in Ungaretti, magari in Pirandello, anche in una notizia di cronaca. Poi finirai per non cercarlo più. Con questi due brani, o quadretti, vedo che tu cammini per la strada della creazione poetica, e tenti con tutte le tue forze e con tutti i tuoi sentimenti e con tutto il tuo vocabolario. E allora ti do un consiglio: saccheggia, svuota, piega il vocabolario: soltanto così dominerai il sentimento. Anche la poesia è una tecnica, suprema, sfuggente, miracolosa – ma tecnica”. E poiché l’amicizia impone franchezza, Sciascia non lesina qualche censura: “In quanto alla tua poesia, con la mia consueta brutalità, ti dico che non mi va. Tu hai scritto cose di molto migliori: e quando avrai denaro da buttar via, come io ne ho avuto per le Favole, potremmo farne una selezione da pubblicare. Io posso soltanto agevolarti l’ingresso presso Bardi e poi scriverti una recensione. La mia situazione, per ora, non è tale da potermi arrischiare a prometterti un certo numero di recensioni”. Se il risultato dello sforzo creativo gli pare lodevole, il tono s’ingentilisce: “Ho letto le tue poesie, ma bisognerebbe un po’ serenamente parlarne: in complesso, buone. Continua a scriverne”.

 

Quando l’amico bagherese Renato Guttuso, da devoto di Botteghe oscure, gli rimprovera la decisione di scendere in campo al fianco di Marco Pannella, in una lettera su Repubblica, datata 8 maggio 1979, Sciascia ribadisce la ferma volontà di candidarsi nelle liste del Partito Radicale, e aggiunge: “Ho scorso parecchi processi inquisitoriali, e specialmente del secolo Diciassettesimo: ti assicuro che nella maggior parte di essi viene fuori, autentica, sincera, commossa, la volontà degli inquisitori di salvare l’anima degli inquisiti”. Al pittore Sciascia rammenta che la vera amicizia non comporta costante identità di vedute né si prefigge di salvare l’anima altrui: “Il mio più vecchio e caro amico, di una amicizia cominciata quarantacinque anni fa a scuola e che dura inalterata, è stato democristiano per almeno vent’anni – scrive Sciascia con un chiaro riferimento a lui, al cattolico Stefano – Tra noi c’è stato sempre un sereno ragionare sulle illusioni e delusioni sue, sulle illusioni e delusioni mie. A un certo punto non è più stato democristiano: ma perché in quel partito aveva consumato la sua esperienza ed esaurito le sue illusioni. Era il punto cui doveva, per la sua onestà, inevitabilmente arrivare; il punto cui lo aspettavo. E non trionfalisticamente, lo aspettavo, ma amaramente. E’ una persona onesta, ha combattuto la sua battaglia: e l’ha persa. Ma quel che conta nella sua vita, e conta anche per me suo amico, è che l’ha combattuta. Il fatto che io sapessi fin dal principio quale amaro frutto avrebbe raccolto, non mi ha fatto mai sentire, nei suoi riguardi, dalla parte della verità”. Gli amici sono d’accordo anche quando la pensano diversamente.

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