L'omaggio di Mattarella al Sacrario Militare di Asiago. Foto LaPresse

Dopo l'impero europeo arrivarono Hitler e il Duce

Maurizio Crippa

Il 4 novembre 1918 fu il crollo di una grande (e inconsapevole) élite europea travolta da nazionalismi che non capiva. Lezione per l’oggi

Crollo! Da dove giunge all’improvviso questa parola carica di sventura? Non stanno ancora i nostri eserciti vittoriosi tutti in territorio nemico? Non ci resta che da affrontare i soli italiani… Non si trova un solo pugno di ferro capace di dominare il caos?”. Dieci anni dopo quel 4 novembre 1918 che segnò la fine della Grande guerra e il crollo degli Imperi centrali – per noi italiani il giorno della Vittoria, il giorno di Vittorio Veneto – il capitano dell’Imperiale e Regio Esercito Asburgico Karl Inziger pubblicò a Vienna i suoi Ricordi. Ha ancora negli occhi il furore attonito di allora, al fronte, davanti a una disfatta di cui era protagonista e testimone ma che non riusciva a vedere, non poteva capire. Come lui, tanti suoi colleghi e superiori – il nerbo di una classe militare feudale e multi-nazionale che aveva dominato gran parte dell’Europa per secoli – e molti funzionari dell’efficiente burocrazia che aveva retto le sorti di immensi territori in quei giorni furono sorpresi dallo sgretolarsi imprevisto di un mondo. Un evento impossibile, too big to collapse. O al massimo causato da fraudolenti fattori esterni: il colonnello Hermann Fröhlich nelle sue memorie parla della “dissoluzione dell’Austria-Ungheria, preparata sistematicamente nelle capitali nemiche dall’attività di emigranti e pretesa dalle potenze dell’Intesa”.

  

Il centenario della fine della Prima guerra mondiale sarà celebrato, soprattutto al di qua delle Alpi, con i dovuti modi e la consueta retorica, al netto di qualche stupida sortita sovranista. Le conseguenze di quella guerra meritano di essere rilette con attenzione, se non altro perché molti fantasmi oggi sono ricomparsi. Un modo suggestivo per farlo lo hanno trovato due storici, Mario Isnenghi e Paolo Pozzato, in un interessante libro antologico pubblicato dal Mulino, “I vinti di Vittorio Veneto”, che prende in esame, approccio inconsueto per la nostra storiografia, la fine della guerra dalla parte degli sconfitti. Dopo un saggio introduttivo di Isnenghi, il volume pubblica memoriali e documenti in larghissima parte inediti che testimoniano la percezione austro-ungarica di quei giorni. Non è una semplice curiosità. E’ sorprendente accorgersi dell’impreparazione e dell’incapacità – da parte di una intera classe dirigente politica e militare – a rendersi conto di quanto stava, e da tempo, avvenendo. “Perdere vincendo”, così Isnenghi sintetizza il “paradosso che inquieta” quella potente compagine pan-europea che stava per crollare sotto i colpi di plurimi nazionalismi. Una sconfitta che pareva impossibile per “mentalità militari” in cui dominava “una autonomia auto-centrata dell’esercito” che non attribuiva alcun ruolo “al paese dietro all’esercito – economia, politica, morale”. Invece nel cuore d’Europa agiva da tempo “un agglomerato di paesi e stati potenziali e di popoli che si sollevano, con variegati intrecci di moti insurrezionali di natura sociale e di nuove cittadinanze: un accavallarsi di classi e nazioni che urgono dentro e contro gli antichi apparati e spiriti dell’impero”.

  

C’era una comunità di popoli che aveva convissuto per secoli che si stava disgregando. Le ragioni erano buone o cattive. Però esistevano. Ma l’élite asburgica aveva solo due punti fermi, o elementi di cecità: l’impero non sarebbe caduto e la guerra “ai traditori” e alle insensatezze di incomprensibili tumulti popolari si sarebbe vinta. Eppure, sotto i loro occhi accadeva il contrario.

  

Giocare con i paralleli storici è sempre azzardato (e gli autori si guardano bene dal farlo), ma in questa potente élite europea sul punto di implodere per inconsapevolezza c’è qualcosa che suona attuale. Se non altro perché a sfuggire di mano è la percezione di nazionalismi che nessun “sistema di valori” – in quell’occasione quelli delle fedeltà feudali, oggi sono i valori della democrazia e della società aperta – era più in grado di reggere. La certezza di avere ragione si appannava in una disperata nostalgia.

  

Il comandante di compagnia Josef Pölzleitner scrive: “Le violazioni delle licenze si facevano sempre peggiori… da parte dei galiziani e degli slavi del sud raggiunsero le due o tre settimane”. L’ufficiale d’artiglieria Robert Mimra: “Lo sappiamo già da una settimana che reparti ungheresi si sono ritirati dal fronte!”. Il tenente Seybold: “Per la prima volta venimmo a sapere che dei reparti si erano ammutinati e avevano abbandonato le loro posizioni, che interi reggimenti con banda e bandiera avevano lasciato il fronte e si erano diretti verso casa”. Verso l’Ungheria. Lo stato maggiore imperiale aveva previsto del resto anche un “piano U.”, cioè la possibile invasione dell’Ungheria nel caso avesse deciso di staccarsi dall’impero. Ma negli “autorispecchiamenti dell’epoca e nelle reinterpretazioni della memoria”, scrive Isnenghi, neppure ciò che i cronisti scorgono di persona basta ad aprire gli occhi, su quanto stava avendo: la disgregazione sociale, gli scioperi e i tumulti, il disfarsi di un esercito costituito su basi nazionali e territoriali. “I vinti di Vittorio Veneto” ha un indubbio interesse storiografico. Ma induce inevitabilmente a un “autorispecchiamento”. Si leggono queste memorie, si scorrono documenti in cui lo stato maggiore certifica il contrario di quanto avviene sul campo, e vengono in mente certe battute al vetriolo dei Moscovici, o certe relazioni brussellesi sulla perfetta tenuta delle istituzioni europee. E, girando ancora lo specchio, viene da pensare alla stoltezza dei tanti nazionalisti che oggi soffiano per far crollare un’altra classe dirigente europea, per quanto farraginosa. Crollata quella degli Asburgo, non venne la felicità dei popoli. Di là dalle Alpi arrivò Hitler, di qua Mussolini. (Nota bene: i “traditori”, allora, erano ungheresi e italiani).

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"