Un'esposizione dedicata a Vivian Maier

Una scatola di rullini comprata all'asta creò il mito di Vivian Maier

Giulia Ciarapica

"Dai tuoi occhi solamente". Un libro sulla grande fotografa

Vivian Maier, scomparsa nel 2009 a ottantatré anni e “scoperta” dall’agente immobiliare John Maloof, il quale comprò all’asta, per meno di 400 dollari, una scatola piena dei suoi rullini senza immaginare minimamente il tesoro che avrebbe avuto fra le mani, viene ricordata come una delle fotografe più invisibili e solitarie del panorama artistico internazionale, ed è probabilmente partendo da questa ormai celebre invisibilità che si alimenta il mito stesso della Maier, la bambinaia che nell’arco di tutta la vita rincorse sempre la luce giusta per i suoi piccoli “esperimenti” fotografici, come li chiamava lei. Ma oltre gli scatti, al di là dell’obiettivo, dietro il riflesso del suo volto immortalato ripetutamente dalla Rolleiflex, si intuisce un non detto, una specie di desiderio muto e sofferto, dolorante, a cui Francesca Diotallevi ha provato a dare voce attraverso un libro in uscita per Neri Pozza (e che verrà presentato dall’autrice il 9 ottobre all’Associazione Civita di Roma, insieme a Paolo Di Paolo) dal titolo piuttosto evocativo, Dai tuoi occhi solamente, un’opera di finzione che prende però spunto da una realtà inconfutabile: la vita e l’arte di Vivian Maier.

 

“Io non so vivere. Non sono capace di esserci fino in fondo, di esserci per davvero. Nelle vite degli altri, nelle loro gioie, nei dolori. C’è in me qualcosa di difettoso, di… mostruoso. Un desiderio di rovina, di autodistruzione”: è questo il punto di partenza per tentare di raccontare la persona “Viv” oltre il personaggio Maier, questo il punto di avvio per cercare di interpretarne la solitudine, quella condanna alla sofferenza che decise di autoinfliggersi nell’impresa impossibile di scontare il peso di un’infanzia disastrosa. Dove bisogna andare a scavare per capire cosa si nasconde dietro gli occhi inquieti di Vivian, che si rincorre continuamente – senza raggiungersi mai – mentre si fotografa riflessa in qualche vetrina di New York o di Chicago, o in uno degli specchi dei bagni delle case in cui lavora come nanny? Ogni cosa sembra ruotare attorno al suo passato, attorno a quella famiglia sconclusionata e problematica formata da un padre alcolista, un fratello drogato e soprattutto una madre, Marie, anaffettiva, algida, scostante: è questa l’ombra che continuerà a incombere su Vivian nonostante i suoi numerosi tentativi di lasciarsela alle spalle, una presenza prima e un’assenza poi tanto ingombranti da trasformare la vita della Maier in un’eterna fuga da sua madre. Marie è indubbiamente una delle protagoniste indiscusse della vita privata di Vivian, è l’amore che le è stato negato e che non riesce a coltivare dentro di sé, è la femminilità che non possiede, è la stima e il rispetto per se stessa che non ha, la dolcezza di cui non è capace neanche con i bambini che accudisce. Marie è la superficie eterna su cui Vivian sarà destinata a riflettersi. Marie è sottrazione, è diniego, è proibizione: proprio da qui, forse, deriva quell’urgenza di restare nell’anonimato tipico della Maier, che quando compì diciotto anni e iniziò a lavorare in una fabbrica tessile, desiderava proprio accedere a un lavoro che le permettesse di “mescolarsi tra decine di altre operaie, svanire dietro i macchinari. Avere tempo per pensare”. E il sollievo che le procurava il non essere costretta a rivelare troppo di sé, del suo trascorso e della sua identità, l’aveva portata a fingere di essere qualcun’altra in più occasioni, come quella volta che comperò a Manhattan la pellicola necessaria per la Rolleiflex e disse al commesso del negozio di essere la signorina Smith. Era diventata, quella, un’abitudine confortante, che la metteva al sicuro perfino da se stessa.

 

Forse era proprio questo, Vivian Maier, una donna che aveva trovato nella solitudine un rifugio dai fantasmi della vita e nella fotografia un’alleata silenziosa che l’aiutasse ad affrontare il resto del mondo, uno scudo con cui catturare scintille di eternità; in sostanza, “l’unica medicina che conosco, al male di vivere”.

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