Toni Negri (foto Imagoeconomica)

L'ultima avanguardia italiana è un patchwork che fa una certa impressione

Alfonso Berardinelli

L’“Italian thought" di Negri, Agamben, Tronti, Esposito, ossia niente letteratura ma teoria biopolitica, teologico-politica e filosoficamente sovversiva

L’avventura dell’ultima avanguardia italiana, quella letteraria del Gruppo 63 (Sanguineti e Arbasino, Eco e Pagliarani) si concluse al più tardi con l’inizio degli anni Ottanta. Il Novecento finiva in anticipo con una serie di Neo: neomarxismo, noveau roman, nuovelle critique, new left, new journalism. La moda strutturalista e semiologica agonizzava e si spegneva. Uno dei più noti e attivi leader neoavanguardisti, Umberto Eco, stufo delle illeggibili “opere aperte” che aveva teorizzato da giovane e di cui aveva incoraggiato la produzione, si scopriva, con enorme soddisfazione personale, romanziere neo-pop. Quel famoso must che fu e restò per vent’anni Il nome della rosa (1980) nasceva per rispondere alle aspettative neopopuliste degli acculturati di massa. Questo nuovo popolo di lettori voleva leggere un solo libro dal quale imparare mille cose nuove e vecchie: che i libri sono anche pericolosi, che la detection e la ricerca dell’assassino fanno sempre comodo, che la realtà è un tessuto o testo di segni e di indizi, che il Medioevo è misterioso, tenebroso, magico, criminoso, attuale. Sembrava che l’autore di un tale libro fosse una specie di abilissimo Mickey Mouse che aveva studiato all’università semiotica enigmistica, comunicazioni di massa, estetica medievale e pop culture.

 

Tempi lontani. Da allora non si erano più visti gruppi italiani d’avanguardia ben collocati a livello internazionale. Negli ultimi tempi è però nata una nuova avanguardia, tutta nostra ma ben esportabile. Questa volta niente letteratura. Si tratta di un’avanguardia biopolitica, teologico-politica e filosoficamente sovversiva. Il suo nome è “Italian Thought”, secondo l’astuta formula identitaria e autopromozionale lanciata dal talento pubblicitario di Roberto Esposito. Principali autori sono Toni Negri e Giorgio Agamben con l’aggiunta, un po’ sullo sfondo, del più puro teorico dell’operaismo italiano anni sessanta Mario Tronti: allora un marxista “gentiliano” che vedeva l’essere della classe operaia come “atto puro” rivoluzionario, oggi divenuto un poco credibile riformista anticapitalista con qualche lettura mistica. Di questa tendenza o gruppo o scuola ci parla esaurientemente Pier Paolo Portinaro nel suo libro Le mani su Machiavelli. Una critica dell’Italian Theory (Donzelli, 178 pp., 18 euro) libro a metà strada e un po’ indeciso fra lo studio e il pamphlet.

 

Di che parla, di cosa si occupa l’Italian Thought o Theory? In che linguaggio? Usando quali riferimenti e riusando quali precedenti e autori? Siamo tra un Marx al di là di se stesso, essenzializzato e disossato, depurato di economia e sociologia, un Bakunin eternamente in rivolta e un Nietzsche profetico e terribilistico annunciatore di tempi nuovi e nuova vita terrestre. A questi vanno aggiunti pensatori antitetici come Heidegger e Benjamin, Carl Schmitt e Ernst Bloch, e infine Foucault. Alle spalle di tutti compaiono le ombre lunghe di Machiavelli, Hobbes, Spinoza. Si tratta, come si vede, di un patchwork che fa una certa impressione sugli incolti e sui colti, un montaggio terminologico e concettuale insieme molto prensile e molto sfuggente, che qua e là si anima mostrandosi contundente e ipnotico grazie a una retorica eversiva esplicita e vitalistica in Negri, implicita e mistica in Agamben.

 

Sparita la classe operaia, messa da parte la sua coscienza di classe storicamente e socialmente determinata, evitata per prudenza pratica l’idea di un partito rivoluzionario, di che cosa si tratta? Naturalmente di tutto e di ogni cosa di cui umanamente si può parlare (in questa attitudine e grazie alla sua passione per le citazioni erudite, Agamben supera tutti, risulta ubiquo, imprendibile e indecifrabile nelle sue intenzioni). Molto comode e funzionali restano tuttavia alcune dicotomie conflittuali indistruttibili come: oppressione/liberazione, espropriazione/riappropriazione, alto/basso, scambio mercantile/uso comune (o comunitario o comunistico) e infine potere dell’Impero/insurrezione delle Moltitudini… Invece degli operai, categoria sociale un tempo assolutamente riconoscibile e reale (benché mitizzata) oggi la rivoluzione dell’Essere contro l’Avere (sì, siamo a Erich Fromm) è nelle mani della Moltitudine, che non è propriamente un concetto sociale, ma un’entità aritmetico-visionaria.

 

Sto semplificando? Certo, ma proprio perché i protagonisti dell’Italian Thought complicano e velano esibendo formulazioni e bibliografie ora eccitanti e ora esoteriche. Secondo il pubblicitario del gruppo Roberto Esposito, questa attuale avanguardia italiana che vuole lasciarci tutti alla retroguardia, sarebbe emersa trionfalmente all’orizzonte dopo il tramonto dei suoi due famosi precendenti: la German Philosophy e la French Theory. Nella prima si aveva a che fare con Weber e Freud, Cassirer e Wittgenstein, Benjamin e Adorno, Horkheimer e Marcuse, Lukacs e Korsch, fino al loro onesto e un po’ pallido erede Habermas. Nella seconda ci si muoveva tra Saussure e Lacan, Artaud e Bataille, Marcel Mauss, Claude Lévi-Strauss e in conclusione la triade Deleuze, Derrida, Foucault. Con tutti loro eravamo, secondo Esposito, in un mondo di idee disincarnate, finché non intervenne il pensiero italiano ad apportare la fondamentale correzione: quella che fa scendere il cielo in terra, lo spirito nella carne, l’idea nell’esistenza, la teoria nella storia.

 

All’inizio quella di Esposito sembrò una sensata rivendicazione dell’importanza specifica dei nostri Machiavelli, Vico, Gramsci. Quando però si passò all’invenzione e al manifesto di una nuova avanguardia tutta italiana di tipo bio-teo-filosofico-politico, si capì che c’era sotto un gioco delle tre carte. Se i nostri Negri, Agamben, Tronti, Esposito e alunni possono andare in giro per le università del mondo, dagli Stati Uniti al Brasile, dalla Turchia al Giappone, non è perché sono eredi di Machiavelli, Vico e Gramsci (di cui parlano ben poco) ma perché citano e manipolano Marx o Sorel, Marcuse o Lacan, Heidegger e Arendt, marciando soprattutto sulle orme lasciate dal successo di Foucault e viaggiando sui binari ad alta velocità costruiti nel mondo dalla French Theory.

 

Per il resto rimando al libro di Portinaro, di cui mi limito a segnalare qualche riga: “Pochi ambiti, tra quelli frequentati dagli Italo Teoreti, hanno riscosso più successo della teologia politica: un dispositivo teorico per difendere quella che Sartori avrebbe definito un’entità immaginaria: la politica pura’. La bardatura teologico-politica non è che la spia del fatto che questi autori sono incapaci di pensare il potere al di fuori della teologia politica di Carl Schmitt (anche quando la rifiutano) non sapendo rinunciare alle categorie dell’assoluto e dl miracolo” (p.134).

 

La loro politica non è politica, come la rivoluzione, soprattutto in Agamben, è una specie di “apocatastasi”, una “profanazione” del capitalismo in vista della restaurazione dello stato edenico o adamitico… O ancora: una messianica reintegrazione del mondo creato nell’essere divino. Ma è meglio non dirlo in questi termini! Meglio lo stile del ’68 parigino, con i suoi più famosi slogan: “L’immaginazione al potere” e “vietato vietare”. Ai giovani piace.

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