“Preferisco di no”. A Torino Spiritualità la nuova devozione è la decrescita

Antonio Gurrado

Strane coincidenze tra una città ammosciata e una fede negativa

Certo, è ironico che proprio ora che la città si scansa e si ripiega su se stessa, ad esempio sfilandosi dall’organizzazione delle Olimpiadi, il festival “Torino Spiritualità” abbia scelto come argomento “Preferisco di no”. Rifacendosi all’antecedente di Bartleby lo scrivano – perfetto punto di equilibrio fra snob e mainstream – il tema può essere declinato nei modi più vari così da accontentare gli intelletti più sofisticati e quelli che dalla trasferta piemontese cercheranno soprattutto sollievo dell’animo contro il logorio della vita moderna. Per questo non bisogna compiere l’errore di lasciarsi distrarre dalla parte più interattiva del festival, quella che coinvolge direttamente il pubblico imbandendogli molteplici possibilità di praticare l’educazione al no: ci sarà una scuola di otium (ingresso dodici euro ma con una confezione di tè in omaggio) che “offre spazi per mettersi in cerca della più autentica espressione di ciò che siamo” perché essere umani “è una meta, una conquista, una sorpresa”; una scuola di yoga come via di consapevolezza per dire no alla violenza e no alla falsità; un centro buddhista in house per apprendere la storia di An Shiagao, principe dei Parti che nel II secolo rinunciò al trono per farsi monaco; una serata musicale che parte dal “no tu no” di Jannacci e uno spazio bambini per insegnare ai più piccoli a essere disobbedienti come “promessa di futuro, potenzialità del presente”.

 

Si tratta, né più né meno, di nuove forme di devozione popolare; di un modo più ingenuo di fare processioni. Merita piuttosto soffermarsi sull’operazione ambiziosa che il complicato programma del festival – ci saranno anche Annalena e altre firme foglianti – si ripropone benché non dichiarandola: trasformare la teologia negativa in teologia del diniego. E’ da secoli infatti una tendenza tipicamente gnostica, per iniziati, quella di definire Dio sfrondandone le caratteristiche e procedendo per contrari in quanto la limitata gittata della mente umana può soltanto arrivare a concepire ciò che Dio non è, non ciò che è. Se però si prende questa teologia negativa e la si traspone sul piano del tutto immanente in cui la spiritualità contemporanea è fiera di muoversi, ecco che si ottengono due risultati: il trasferimento dell’indagine dalla definizione di Dio alla definizione dell’uomo; l’utilizzo del no come forbice per sfrondare quelle caratteristiche o quelle azioni alienanti che ci impediscono di entrare nella ristretta élite di chi è libero di essere sé stesso. E infatti “l’essere umano non è solo ciò che fa ma anche ciò che sceglie di non fare, di non accettare, di non legittimare”, scrive sulla pagina introduttiva del programma il curatore Armando Bonaiuto.

 

La ricerca di un vero io, per mezzo di autoraccoglimento e ripiego sull’essenziale è il sottotesto (non l’unico, chiaro) del festival torinese e attesta la trasposizione della spiritualità dall’ideale del martirio a quello del nirvana; mutamento in atto da decenni, di cui il festival torinese non è causa ma sintomo. Come un tempo la definizione più vera di Dio era quella ritagliata dalle caratteristiche che non aveva, così oggi la definizione più vera di un individuo è quella che gli consente di dissociarsi da quello che fa. Del resto il no è un monosillabo polisemico, e il programma di Torino Spiritualità dimostra che può indicare indignazione, dissenso, disobbedienza civile, resistenza attiva, nonviolenza, donchisciottismo o cyranismo di fronte alle ingiustizie, retto rifiuto del mondo come nella tradizione orientale, riluttanza di stampo oblomoviano, perfino antidogmatismo. Può essere usato per esprimere un concetto e il suo contrario: con un no ci si può distaccare dall’andazzo del mondo (e un evento del festival ne parla) oppure chiudere la porta a ogni tentazione nostalgica (e un altro evento del festival ne parla); hanno detto di no gli eretici (e un evento del festival li elogia), dicono di no gli intolleranti (e un evento del festival li biasima).

 

La più interessante riprova sta nel modo in cui Torino Spiritualità affronta il filone cristiano. Gesù viene visto come segno di contraddizione, che non viene a portare la pace ma la spada, e nel Vangelo oppone almeno due rifiuti fondamentali, quando viene tentato nel deserto e quando un ladrone lo incoraggia a scendere dalla croce per salvarsi; oltre ad ammonire: “Sia il vostro parlare sì sì, no no; il di più viene dal maligno”. Curiosamente però l’incontro su questo tema è contemporaneo a quello dedicato allo “spirito che dice sempre no”, secondo le parole con cui Mefistofele si presenta nel “Faust” di Goethe. Il no è dunque salvifico o demoniaco? Ci saranno cinque giorni per parlarne, da mercoledì a domenica prossimi. Nel frattempo conviene ricordarsi che il Cristianesimo è nato da un sì, quello della Madonna all’Arcangelo, ma la Chiesa è sorta da un no, quello di Pietro che rinnega Gesù prima della Passione. E anche che, nel racconto di Melville, Bartleby viene presentato come il più strano uomo mai conosciuto dal narratore, e la larga fortuna della sua ossessione per il no può essere interpretata per massificazione della pretesa di essere eccezionali. Se non che, mentre il no di Pietro è caduto su terra feconda, quello di Bartleby lo riduce a personaggio triste, solitario, che vive in ufficio e finisce per non far niente (mentre i suoi colleghi, pur essendo un mangione e un beone, a orari alterni se la cavano) fino a che per puntiglio finisce in prigione e, rifiutando il cibo, muore lì. Senza nemmeno aver frequentato la scuola di otium.

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