Belle con l'anima
Foto di innamorati e operai, di nudi e dello “spettacolo della strada”. Parigi nel bianco e nero di Willy Ronis. Una retrospettiva a Venezia
Un ragazzo elegante, con giacca nera, camicia bianca e cravatta, sussurra qualcosa all’orecchio di una donna girata di spalle, elegante anche lei come solo nella Parigi degli anni Cinquanta (e successivi) si poteva essere. I corpi si sfiorano, le loro mani si intrecciano, ma resta intatta una passione pudica, evidenziata dai dettagli dell’ambiente che i due sovrastano da quella posizione, la colonna di Place de la Bastille eretta per celebrare Les Trois Glorieuses, le “tre gloriose” giornate del luglio 1830 che videro la caduta di Carlo X di Francia e l’inizio della “monarchia di luglio” di Luigi Filippo.
Da quell’altezza e in bianco e nero, la Ville Lumière in piena rinascita economica è ancora più bella, anche se alcuni particolari non sono definiti: all’orizzonte, si intravedono comunque la Tour Eiffel e Notre-Dame, gli inconfondibili tetti in ardesia, le vie e qualche boulevard, persino l’Opéra Garnier, simboli che, insieme, ne dettano il segno e lo stile. Riton e Marinette, Les amoreux de la Bastille, sembrano non far caso a cotanta bellezza, perché così presi da altro da riuscire a trasformare quello spazio storico che vivono in quel preciso momento (il 1957) e segnato da duecento anni di lotte, nel luogo più romantico del mondo. Il merito va tutto al fotografo Willy Ronis (1910-2009), l’autore di quello scatto destinato a diventare in breve tempo una delle immagini più amate e riprodotte del dopoguerra.
A lui e alla sua opera, il parigino Pavillon Carré de Baudouin prima e adesso uno dei luoghi più suggestivi di Venezia, la Casa dei Tre Oci, dedicano due grandi retrospettive. Quella alla Giudecca, uno dei principali episodi di architettura neogotica acquistato dalla Fondazione di Venezia nel 2000 e riaperto al pubblico dodici anni dopo, si intitola “Willy Ronis: Fotografie 1934-1998”, ed è la più completa retrospettiva del grande fotografo francese in Italia. Organizzata da Civita e coprodotta da Jeu de Paume e dalla Médiathèque de l’architecture et du patrimoine con la partecipazione della Fondazione di Venezia, presenta ben centoventi immagini vintage, tra cui una decina inedite dedicate proprio alla città lagunare, oltre a documenti, immagini video, libri e lettere mai esposti prima d’ora. Una gigantografia dei due innamorati, la troverete appena entrati nell’edificio, sulla destra, un benvenuto speciale che il curatore, Matthieu Rivallin, e il direttore artistico, Denis Curti, hanno voluto riservare all’attento e colto pubblico dei Tre Oci che, proprio di recente, ha ospitato la mostra dedicata a Fulvio Roiter, una delle più viste di quest’anno.
Willy Ronis, “Le Petit Parisien”, 1952. Ministère de la Culture/Médiathèque de l’architecture et du patrimoine/Dist RMN-GP © Donation Willy Ronis
Reporter, fotografo industriale e illustratore, dagli anni Trenta ai Duemila, Ronis ha puntato l’obiettivo sui francesi, ma mai in maniera sciovinistica, riuscendo a percorrere con un piacere sempre rinnovato le strade della sua capitale come il sud del paese, che lo accolse nel 1941 in seguito alla promulgazione delle leggi antisemite. Fotografo “della casualità felice” – come lo ha definito il curatore – riuscì a cogliere con gioia gli istanti di vita ordinaria di chi gli era vicino – la moglie Anne-Marie e il figlio Vincent in primis – ma anche perfetti sconosciuti incrociati all’angolo di una piccola strada del suo quartiere, Belleville-Ménilmontant, come di altri. Lì, ci finì per scelta, dopo aver lasciato, subito dopo la Liberazione, lo studio del padre (che lo avrebbe voluto violinista) in boulevard Richard-Lenoir, ed è lì che divenne fotografo della Francia del Fronte popolare di cui – come testimoniano i lavori degli esordi al piano terra – fu un testimone entusiasta. Non certo a caso, riviste dell’epoca come Regards e L’Humanité pubblicarono le sue immagini delle grandi manifestazioni del 14 luglio 1936 e dello sciopero degli operai della fabbrica Citröen, in Quai de Javel, nel 1938.
“Le mie sono fotografie che potrebbero fare tutti”, disse. “Io sono un uomo qualunque che va in giro e fissa il riflesso dello spettacolo della strada”. Lo testimoniano alcuni suoi primi lavori realizzati per le strade come in luoghi chiusi, dalle gambe di una donna che superano una pozzanghera su cui si specchia la colonna coclide di Place Vendôme ai tre ragazzini incappucciati in Lorraine en hiver (1954), fino al suo autoritratto aux flashes del 1951. Quella gioia di vivere, nonostante tutto, traspare, e non potrete non notarla, se vi soffermerete a osservare con attenzione Le Zoo Circus d’Achille Zavatta” (1949) – dove due ragazze sfilano in vestiti di scena bianchi che ne evidenziano le forme sotto lo sguardo malizioso dei curiosi – ma, soprattutto, in un’altra foto simbolo di quel periodo, Le petit parisien (1952), raffigurante un bambino in pantaloncini alla zuava che corre spensierato portando sottobraccio una baguette più grande di lui. Protagonista della corrente umanista francese insieme a maestri come Brassaï, Gilles Caron, Henri Cartier-Bresson, Raymond Depardon, Robert Doisneau (con cui spesso viene confuso), Izis, André Kertész, Jacques-Henri Lartigue e Marc Riboud, Ronis fece di Parigi, nel giro di poco tempo, il suo terreno preferito di caccia alle immagini.
Durante le sue passeggiate, come testimoniato dai lavori al primo piano della casa-museo veneziana, catturò scene pittoresche di passanti affaccendati, di innamorati abbracciati sulle panchine o di ragazzi felici al luna park. Interessato alle atmosfere notturne, colse i ballerini nelle caves di Saint-Germain-des-Prés così come aveva fatto, negli anni precedenti, con i movimenti sociali delle fabbriche o con il ritorno dei prigionieri di guerra nel 1945, difendendo sempre con vigore e passione il mestiere del fotografo, essendo, tra l’altro, membro del Groupe des XV. Attraverso le sue immagini, sviluppò una sorta di micro racconti costruiti partendo dai personaggi e dalle situazioni tratte dalla strada e dalla vita di tutti i giorni, che lo portarono a estasiarsi davanti alla realtà e a osservare la fraternità dei popoli. Come altri suoi colleghi in quel periodo, fu un umanista e orientò sempre il suo interesse verso la condizione umana e la quotidianità più semplice e umile fino a scoprirvi un significato esistenziale universale. Se uno come Daniel Pennac ha esaltato e fatto scoprire il quartiere di Belleville-Ménilmontant raccontandolo e descrivendolo nelle avventure di Malaussène pubblicate nei suoi libri bestseller (in Italia da Feltrinelli), lo si deve in parte anche a Ronis.
Willy Ronis, “Le Nu provençal, Gordes”, 1949. Ministère de la Culture/Médiathèque de l’architecture et du patrimoine/Dist RMN-GP © Donation Willy Ronis
Il fotografo dell’anima (di una città o di una persona poco importa), fu infatti il primo ad apprezzare e a far conoscere poi, le bellezze, le stravaganze, le contraddizioni e la multiculturalità del quartiere sito nel ventesimo arrondissement parigino. Realizzò anche un libro intitolato proprio come il nome di quel quartiere (pubblicato da Arthaud nel 1954), in cui suggerisce a Pierre Mac Olrlan, autore della prefazione, “di andare insieme a odorare gli effluvi e gli umori di quei luoghi”. Un “villaggio” speciale è Belleville, così come tanti ce ne sono a Parigi, dall’alto Marais a Montmartre, giusto per citarne qualcuno. Noto anche per il suo rigore e la qualità delle immagini, Ronis realizzò importanti servizi sul lavoro nelle fabbriche per aziende come la Régie Renault o le industrie tessili del Basso Reno e ogni volta che visitò le officine, andò sempre a caccia di episodi che definì “imprevisti, molto interessanti e impossibili da ricostruire a posteriori”. Un esempio è dato da La Forgia di Boulogne-Billancourt e da Il filo spezzato in cui, invece, rimette in scena il gesto evocativo di un’arpista dopo averlo notato nel corso di una prima visita.
“Da uomo impegnato quale era, illustrò le battaglie del suo tempo”, spiega al Foglio Rivallin. “Le sue immagini dei bisognosi della società, dei picchetti di scioperanti e dei sindacalisti militanti, senza insistere sugli aspetti più miserevoli, sono frutto di una reale solidarietà con la lotta operaia e di un impegno attivo presso gli esclusi”, aggiunge. Poliglotta e curioso, si aprì molto presto all’estero. Viaggiò sin dagli anni Trenta in Italia e in Inghilterra come negli Stati Uniti; fotografò in piena Guerra fredda Mosca, Berlino e Praga. “Per lui, quei viaggi erano altrettante occasioni per scattare foto senza i vincoli di una committenza”, continua il curatore. “Se nei Paesi Bassi era affascinato dai costumi tradizionali delle donne e dei bambini a Volendam e Spakenburg, trent’anni dopo furono i sussulti della città che lo portarono a New York”.
Amava i nudi, soprattutto femminili (li troverete al secondo piano), sempre eleganti e mai volgari, fatti a modelle incontrate a Parigi come a Roma, Djerba o Gordes, poco esposti fino ad ora fatta eccezione per il Nudo provenzale. Spesso ambientati nell’intimità, nascondono i volti per meglio seguire i contorni del corpo e sono stati oggetto di un album molto amato dai suoi estimatori pubblicato nel 2008, un anno prima della sua morte, quando aveva 98 anni. Il suo stile restò sempre intimamente legato al suo vissuto e al suo modo di intendere la fotografia, non esitava a rievocare la sua vita e il suo contesto politico e ideologico. I suoi scatti e i suoi testi raccontano sempre di un artista desideroso prima di tutto di esplorare il mondo, spiandolo in segreto, aspettando pazientemente che esso gli sveli i suoi misteri. “Ai suoi occhi è più importante ricevere le immagini che andarle a cercare, assorbire il mondo esteriore piuttosto che coglierlo e, da qui, costruire la sua storia”. Il suo incontro con Venezia, la città che lo ospita in questo momento, risale al 1938, dopo essersi fatto assumere come fotografo su un piroscafo che fece scalo proprio in Laguna. Desiderava conoscere quel posto e ne testimoniò la bellezza e gli angoli meno conosciuti e popolari grazie alla sua Rolleiflex. Vinse la medaglia d’oro alla Biennale di fotografia nel 1957, ma solo due anni dopo la riscoprì davvero sfruttando l’invito del critico Romeo Martinez. Sono di quel periodo la serie dedicata a Fondamente Nuove (1959) cui seguirono, trent’anni dopo, i tanti scatti dedicati a La Giudecca, una delle zone più suggestive della città, che ospita fra l’altro anche la casa dei Tre Oci e quindi questa mostra visitabile fino al 6 gennaio del 2019. Una volta fuori, mentre aspetterete il vaporetto (o una lancia) alla fermata Zitelle, ancora inebriati da cotanta bellezza, ne troverete un’altra – il paesaggio che vi circonda – che continuerà a occupare il vostro sguardo e la vostra mente a lungo, facendo restare in voi “il momento unico”, quello a cui Ronis dedicò la sua attenzione per tutta la vita. “Un momento troppo bello per essere vero – diceva - che può soltanto svanire nell’istante successivo e che provoca un’emozione impossibile da ottenere con gli artifici di una messa in scena”.
Intervista a Gabriele Lavia