Cento parole al giorno, e poi una scossa elettrica. I “Puri” che puniscono le donne

Stefania Vitulli

Ecco “Vox” di Christina Dalcher, romanzo distopico di una linguista. Tra dubbi e libertà

Milano. Fossimo costretti a decidere, costretti davvero, quali sono le cento parole al giorno che sceglieremmo di pronunciare? Alla fine, quelle necessarie alla sopravvivenza sono davvero poche. A rifletterci bene è sui sentimenti, le accuse e il senso della vita che ci dilunghiamo parecchio. E in questi cimenti le campionesse indiscusse sono le donne, inutile negarlo. In un mondo in cui scarseggiano acqua, pace e intelligenza, al momento il numero delle parole da dire è l’ultimo dei nostri problemi. Forse però lo diverrà nel futuro, quando, chissà, le parole riconquisteranno quel peso “politico” che oggi sembrano aver perso definitivamente. E le donne, allora, diventeranno più importanti?

 

Ci voleva una ricercatrice britannica in linguistica per concepire una trama distopica ispirata a questo tema – ovvero “Quanto è difficile far star zitte le donne? Urge coercizione fisica” – e farne un romanzo prontamente catalogato tra le letture del #MeToo. In “Vox”, tradotto in Italia da Nord, Christina Dalcher immagina che in un futuro futuribile e ovviamente americano, le donne portino al polso un braccialetto munito di contatore: oltre le cento parole dette, scatta la scossa elettrica. L’idea è dei soliti fanatici al governo, qui chiamati i Puri, che in nome di sottomissione e candore, bei valori di un passato in cui le regole le dettavano i maschi e tutto era più “moralmente corretto” (leggi ossessivo-compulsivo-vittoriano), negano alle donne la libertà di parlare, leggere, scrivere. Abbiamo una protagonista, Jean McClellan, una linguista (il linguaggio è palla al centro per molti narratori contemporanei: su tutti, provate l’apocalittico “L’alfabeto di fuoco” di Ben Marcus, Black Coffee, in cui le parole diventano, sempre in America, piaga tossica mortale) alle prese con due gatte da pelare: la cura dell’afasia di Wernicke – patologia in cui si riesce a parlare, ma non a dare alle parole un senso – e una figlia di sei anni compiacente con il regime, Sonia, che non la fa tanto lunga e vive il limite Cento Parole come un gioco. Ora, dato che il conflitto narrativo Puri-Impuri spesso genera sterminii, è proprio un’epidemia di Wernicke a minacciare il mondo, sicché il ruolo di Jean diventa chiave sia per le buone che per i cattivi. Il romanzo parte anche bene, qualche scossa anche al lettore la dà, soprattutto nella prima metà, poi però si trasforma in un thriller pulp, genere che ha i suoi estimatori, ma che quatto quatto se ne esce dalla distopia per entrare magari in classifica, ma raramente nei memorabili.

 

Voci nemmeno troppo di corridoio hanno sussurrato per mesi che Margareth Atwood non ha vinto il Nobel – e persino Kazuo Ishiguro si è scusato con lei – perché la cricca accademica di Svezia è in mano a improbi maschilisti: ergo “Il racconto dell’ancella”, “L’altra Grace” e le altre opere della pluripremiata e arcigna canadese sono troppo attiviste per questo mondo macho. Da quel momento la Atwood e le sue distopie sono diventate un faro narrativo: ci ha provato la protegé Naomi Alderman con “Ragazze elettriche” – in cui le donne avevano il potere “per” fare molto male agli uomini – e ora “Vox”, in cui cento parole al giorno sono tutto quello che ci meritiamo. Ma siamo sicuri che siano proprio le parole a fare la differenza?

 

“Senza linguaggio siamo inutili”, sostiene la Dalcher (che dice anche che la comunione di intenti con il #MeToo è stata davvero una combinazione). “Sono le parole a renderci umani. Quando un gruppo domina sull’altro, lo mette a tacere”. Può darsi. Tuttavia, oltre alle parole, i Puri tolgono alle donne di “Vox” varie cosette, tipo libero arbitrio e indipendenza, quindi lavoro, passaporto, conto in banca. Senza tutto questo, delle parole che ce ne facciamo? La sensazione è che se una qualche lezione per noi i contemporanei c’è – visto che la Dalcher sembra volerne dare – stia invece all’opposto: diffidiamo di chi le donne le lascia parlare troppo, perché vuol lasciarci solo le parole (per inciso, ogni giorno ne pronunciamo in media circa 16 mila: cominciamo a scegliere).

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