Benito Mussolini, Adolf Hitler e Vittorio Emanuele II a Roma il 6 maggio 1938 (Foto LaPresse)

Assomigliamo all'Europa nazista. Leggere Gombrowicz per capirlo

Marco Archetti

“Ferdydurke” ha 80 anni, torna in libreria e sembra scritto oggi

Il 1938, anno da brividi per l’Europa: le leggi razziali in Italia, l’Anschluss dell’Austria, ma soprattutto la fallimentare Conferenza di Monaco che, di fatto, riunì Inghilterra, Francia, Germania e Italia per autorizzare Hitler a invadere il territorio cecoslovacco dei Sudeti, destinargli lo spazientito rimbrotto che si riserva a un ragazzaccio intemperante e rendere ancora una volta plateale l’arrendevolezza delle democrazie europee di fronte al passo implacabile del gambale nazista. “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra”, sentenziò Winston Churchill a proposito delle non decisioni di quell’impotente Assemblea, e lo disse proprio mentre il premier Neville Chamberlain, che al tavolo di Monaco era seduto, veniva accolto in patria nel tripudio collettivo, percepito come l’uomo che aveva garantito la pace e non come colui che aveva solo rimandato la guerra.

 

“Non ci sbarazza delle smorfie,” ammonisce Gombrowicz. “La nostra faccia non è elastica, e una volta alterata non torna più come prima.”

Nel 1938 Witold Gombrowicz pubblicava “Ferdydurke”, un ordigno micidiale – efferato nell’umorismo, spietato nella rappresentazione – e uno dei più sovversivi, audaci e sorprendenti romanzi del Novecento. Costruito come la parodia di un racconto volterriano, questa folle piroetta in forma narrativa annullò con sprezzo del pericolo tutte le regole e categorie culturali per raccontare plasticamente l’assurdo di un’epoca che si era tuffata nel pietoso mondezzaio delle ideologie a buon mercato, imboccate a masse sempre più violente e puerili. La realtà stava allestendo la sua irrealtà, le sue mistificazioni, e lo faceva attraverso l’affermazione di cupi pagliacci enfatici e di perentorie e grottesche parole d’ordine in un’orgia di smorfie ridicole e di infantilizzazione generalizzata: si prendeva sul serio la serietà e si precipitava continuamente nel suo opposto.

 

“Ferdydurke era una vera e propria provocazione – raccontò Gombrowicz – e la stampa nazionalista mi attaccò brutalmente dandomi del corruttore. Così andai a Roma. Poi tornai a Varsavia via Venezia-Vienna. E trac! A Vienna il mio treno si ingolfò in folle oceaniche, in fiaccolate… Arriva Hitler, è l’Anschluss! A Varsavia eccitazione, folla, febbre, frenesia, stato d’allerta! Ero in contrasto con i tempi. Una cosa era certa: Ferdydurke era un’opera condannata allo scacco, e io con lei. Il romanzo racconta il comico rapimento di Gingio, un giovane disorientato che non sa chi è e nemmeno che posto avrà in quel mondo in tragica transizione. È la storia di una deformazione crudele che trova nel rapitore, il professor Pimko, il suo immacolato esecutore materiale – esecutore materiale di un’intera cultura, immacolato come un’epoca che impunemente si veste di ideologia e ricrea la realtà. Pimko lo riporta a scuola, nell’istituto del preside Piorkowski, un liceo di prim’ordine dove “insegnano i migliori cervelli della capitale, non ce n’è uno che abbia un’idea sua.”

Rileggere “Ferdydurke” oggi è necessario e terribile.

  

L’obiettivo? Infantilizzarlo e omologarlo a un mondo che stava crollando, si ricostruiva su nuove tragiche antitesi e legittimava la violenza di chi affermava innocenza e l’innocenza di chi affermava violenza. “Vivevo in un’epoca che ogni cinque minuti inventava nuovi slogan e nuove smorfie e torceva convulsamente la faccia in tutte le boccacce possibili e immaginabili. Erano tutti prigionieri della loro smorfia.” L’uomo (Gombrowicz) ne era convinto – è condizionato dal proprio riflesso nell’anima altrui, fosse anche l’anima più imbecille del creato, poi si adegua a questo pseudo se stesso e lo porta alle estreme conseguenze. A ogni smorfia una contro-smorfia, sempre così, fino alla nausea, sempre la stessa musica, lo stesso concerto di stonature assortite. “La scemenza si sprecava. Fasulli nel pathos, atroci nel sentimentalismo, pretenziosi nei voli e ripugnanti nelle cadute. Così il mondo girava e montava.”

 

Ottant’anni dopo, il mondo gira e monta. E con le stesse stecche: l’abbandono della razionalità, le parole a vanvera, la febbre della semplificazione, le buffonate social, il sovranismo carnevalesco, la politica ridotta a ripicca, le antitesi balneari, la gara di smorfie categoriche tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, piccolo infante sul girello dei social l’uno, grande infante nudo e cicciuto l’altro, ma siamo sempre lì, è sempre il trionfo del bambino amorale, del Ferdydurke collettivo in un’estate che ci sgomenta.