La forza inafferrabile del genio Isaac Singer

Marco Archetti

Consigliare un libro di Singer significa mettere un fortunato a parte di un mondo brulicante di splendide creature logorroiche, uno dei più grandi regali di tutta la letteratura del Novecento

Minicorso di scrittura in tre mosse. “Sul mio libro di appunti avevo annotato tre caratteristiche che un’opera di narrativa doveva avere al fine di ottenere successo: 1) un intreccio preciso e ricco di suspense; 2) una voglia irrefrenabile – da parte dell’autore – di scriverla; 3) la convinzione – sempre da parte dell’autore – o almeno l’illusione di essere il solo a poter padroneggiare quella trama. Il mio romanzo, invece, era privo di tutti i tre requisiti e in particolare della mia voglia di scriverlo”.

 

Non solo precettistica: si accludono, oltre alle regole-presupposto, anche le conclusioni autoscoraggianti del mio amato Isaac Bashevis Singer (grande dongiovanni, grande lettore di Spinoza e vabbè, grande vegetariano – un difetto doveva pur averlo) giusto per ricordarci che le incrollabili convinzioni non mettono mai radici nei grandi spiriti ma sprizzano come geyser dalle più abominevoli nullità.

 

Il grande spirito di Isaac B. Singer mi fece suo quindici anni fa, quando frugando per caso in una bancarella di libri usati a Salò afferrai per le alette “Shosha” (copertina gialla, una vecchia edizione Famiglia Cristiana) e ne lessi l’incipit, uno di quegli splendidi incipit che ti rimandano a casa scisso: felice lettore e depresso scrittore, perché lo sai, ti conosci, lo senti che tu non sarai mai capace di simili sintesi e di simili vette. Nonostante questo non l’ho mai odiato, anzi, è stato uno di quegli scrittori che non ho mai smesso di leggere. L’ho letto ovunque: in Italia, all’estero, in spiaggia, in casa, a letto, al bar, al parco, sdraiato, seduto, camminando, in primavera, in autunno. Era sempre magnifico. E sempre, rialzando gli occhi dalle sue pagine, ho goduto del supremo regalo: vedere gli uomini, le donne e il trambusto del mondo con occhi diversi da prima, più consapevoli dell’assurdo e ancor più innamorati della cruciale vanità che, per fortuna cosmica, è stata comminata dal Cielo anche al sottoscritto.

 

Rifiuterò recisamente, qui, la sterile contesa dualistica in cui chiunque abbia letto una pagina dell’uno o dell’altro Singer mi infila – comunque di solito vince Israel – e mi limiterò a celebrare, di Isaac, “Ricerca e perdizione”, semiintrovabile che ho trovato in biblioteca (luoghi benedetti, le biblioteche) e di cui vorrei decantare l’assoluta preminenza nella felice – e felicemente ripetitiva – produzione letteraria del Nostro. Cosa intendo con “ripetitiva”? Lo stesso che ha inteso Piero Vietti su questo giornale, sabato 30 giugno, in un bellissimo pezzo su Dino Buzzati: i grandi scrittori girano per tutta la vita intorno a una stessa idea, riga dopo riga. Singer ha girato per tutta la vita intorno a Dio e ai suoi arcipelaghi biografici, si è reinventato e ha reinventato tutto quel che gli è capitato, e lo ha fatto al punto che, presentando questo romanzo diviso in tre lunghi racconti, ha voluto affermare: “Considero questo scritto niente di più che un’opera di narrativa basata sulla verità che non pretende di essere totalmente autobiografica…”. Leggendolo, ho avuto modo di riflettere su un aspetto della scrittura di Singer che non viene mai analizzato e che invece andrebbe affrontato seriamente, in quanto costituisce il cuore di un ipotetico quarto punto che porrò come addendum alle tre regole per il successo. Mi riferisco al dialogo. Il dialogo singeriano è una creatura verbale di efficienza ammirevole, dotata di regole cartesiane, vivacità rara, precisione di congegno ed effetto complessivo di stupefacente naturalezza. E’ irregolare, arioso e inafferrabile, e contiene sempre una pulsione allo slittamento e al vaneggiamento. Badateci: raramente chi parla dice solo quel che dovrebbe dire, raramente chi ascolta risponde secondo quel che dovrebbe rispondere, eppure mai e poi mai il botta e risposta (che nelle sue parti sembrerebbe peccare di coerenza intersoggettiva) è meno che coerente. Dirò di più: i ferrei dialoghi di Singer sono meccanismi perfetti nell’esito quanto più, analizzandoli pezzo per pezzo, non lo sembrerebbero. Ecco la sua grande forza: quella d’insieme, la grande trazione di tutta la letteratura di Singer. Il dialogo singeriano ripropone sempre la linea fratta, sonora e divagante dei dialoghi che conduciamo ogni giorno: ascoltiamo (non tutto), rispondiamo argomentando (più del necessario), ruzzoliamo nel precipizio delle subordinate (tante, spezzettate, e ispirate da un nostro intimo, imperscrutabile algoritmo), interrompiamo di continuo e ci interrompiamo di continuo.

 

Consigliare un libro di Singer significa mettere un fortunato a parte di un mondo brulicante di splendide creature logorroiche, uno dei più grandi regali di tutta la letteratura del Novecento.

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