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Il populismo sul palcoscenico del teatro

Antonio Funiciello

I vizi del popolino (ignorante) e la perdita di accountability dell’élite raccontati dall’Enrico VI di Shakespeare

I dissidi tra popolo e élite sono stati più volte rappresentati da Shakespeare sul palcoscenico. Forse perché il Bardo è figlio di un guantaio caduto in rovina. O forse perché la storia inglese gli offre molte occasioni per mettere in scena sia le trame oscure del potere nobiliare, sia le ansie popolane contro i sotterfugi delle corti reali. E da genio onnivoro, la sua ispirazione sa nutrirsi delle inquietudini dell’ufficiale d’armi nella notte prima della battaglia, come delle paure del suo scudiero.

 

Spesso Shakespeare, per dare voce agli umori del popolo, inscena piccoli capannelli di uomini che discutono fra loro. E magari la scena successiva si diverte a canzonare un demagogo. Anche Aristofane odiava i demagoghi e, non a caso, è il primo a usare la parola demagogia, vero antenato linguistico del populismo. Così, nei “Cavalieri” di Aristofane, un servitore incita un salsicciaio a impegnarsi nell’attività politica: “Conquista il popolo con gustosi manicaretti di parole, tutti gli altri requisiti del demagogo già li possiedi: una voce ripugnante, origini umili, volgarità. Hai tutto quello che ti serve per fare politica”.

Elenco delle riforme: il prezzo del pane passerà da 7 penny e mezzo a un solo penny. Il boccale di birra da ¾ ne dovrà contenere 10

 

  

Nell’“Enrico VI”, Shakespeare prende un piccolo episodio della grande storia inglese per raccontare il populismo. Le tre parti che compongono il dramma sono un viaggio avventuroso dentro l’anima di un sovrano, Enrico VI appunto, salito al trono a soli nove mesi e impazzito a 31 anni, guida del suo paese tra la fine della Guerra dei Cent’anni e l’inizio della Guerra delle Due Rose. Nel bel mezzo della trilogia a lui dedicata, nel quarto atto della seconda parte del dramma, Shakespeare dà voce alla rivolta contro i nobili, l’élite dirigente del tempo, guidata dal popolano Jack Cade. E ci racconta come funziona il populismo.

 

Nel 1450 contadini e popolani marciano verso i palazzi del potere di Londra, accusando l’aristocrazia di affamare il popolo. L’obiettivo della rivolta non è il re, calunniato più che altro per la sua debolezza di temperamento. Il popolo muove in realtà contro i nobili e i loro giochi di potere. Il rivoluzionario Jack Cade pubblica “The Complaint of the Poor Commons of Kent” e si mette alla testa dei ribelli che si radunano a Blackheat, a sud est di Londra. Il raduno dei popolani guidati da Cade, i suoi programmi riformisti, i più stretti collaboratori di Cade e le regole d’ingaggio del suo esercito di volontari, finiscono sul tavolo di scrittura di Shakespeare.

 

“Enrico VI” non è un’opera rappresentata spesso nei teatri italiani. Ma le sceneggiature shakespeariane sembrano scritte apposta perché la nostra immaginazione le animi. Ecco un quartiere periferico della Londra già rinascimentale, un borgo cencioso come quelli che di tanto in tanto spuntano fuori nella serie tv sui Tudor. Una gran folla irrompe su una piazza che si apre all’improvviso dopo a un dedalo di vicoli melmosi. Jack Cade guida questa folla e ha al suo fianco Dick il macellaio e Smith il tessitore. Uno sgabello attende Cade nel bel mezzo della piazza di Blackheat. Il capopopolo ci sale su e comincia a scaldare gli animi degli astanti.

 

L’Istruito viene accusato: “Sa scrivere leggere e far di conto”. “Che delinquente”, commenta il capopopolo Jack Cade

“Giuro di riformare tutto”. E’ il suo esordio. E inizia a elencare le prime riforme nel giubilo della massa che monta. Primo: il prezzo del pane passerà da 7 penny e mezzo a un solo penny. Secondo: il boccale di birra da ¾ ne dovrà contenere 10. Terzo: condannato e processato per direttissima chiunque beva solo birra chiara leggera. Dopodiché, timoroso che questo tecnicismo riformista possa apparire troppo puntuale e poco visionario, Cade prende a promettere che tutto sarà in comune, tutti dovranno vestirsi nello stesso modo e che non ci sarà bisogno di denaro perché tutti mangeranno e berranno a sue spese. E a questo punto che Dick il macellaio chiosa il proclama di Cade con la celeberrima frase “The first thing we do, let’s kill all the lawyers!”. E Cade: “Certo, è quello che intendo fare”.

 

[S’impone una piccola digressione. Come mai gli avvocati stanno così sulle scatole agli scrittori? È evidente che all’epoca dell’“Enrico VI” quello del giurista sia il prototipo del tecnocrate al potere. Ma questo chiarimento, che pure ha la bontà della fondatezza storica, non spiega un’antipatia decisamente metastorica. Lungo è l’elenco degli odiosi avvocati che popolano i grandi romanzi. Nel “Tom Jones” di Fileding, Dowling è un avvocato che dispensa bustarelle a chiunque dichiari il falso nel processo contro il povero Tom. In “Casa di bambola” di Ibsen, il marito della protagonista Nora è un avvocato di provincia meschino ed egoista, che reprime lo spirito libero della donna. Herr Huld è il viscido avvocato difensore di Josef, nel “Processo di Kafka”. Herzog, il protagonista dell’omonimo romanzo di Saul Bellow, va a vivere col suo avvocato, che si rivela essere un uomo spregevole. E come non ricordare il manzoniano Azzeccagarbugli? La questione richiede un articolo a parte.]

 

Torniamo a Shakespeare. Cade ha illustrato il suo programma e, confermato che per prima cosa ucciderà tutti gli avvocati, si appresta a marciare verso il centro di Londra. Ma accade un imprevisto. I suoi seguaci portano al suo cospetto il Clerk di Chatman. Clerk viene da cleric, che vuol dire ecclesiastico, e qui sta per uomo istruito. E davanti all’Istruito va in scena un siparietto eccezionale. E’ Smith il tessitore che introduce l’Istruito con queste parole: “He can write and read and cast accompt”. Sa scrivere leggere e far di conto. “O monstrous!”, esclama Cade. “L’abbiamo preso mentre si preparava a insegnare a scrivere ai ragazzi” aggiunge Smith. “Che delinquente” commenta Cade.

 

Sintomatico che Shakespeare non dia un nome all’Istruito. Non ne ha bisogno. Perché per la folla in tumulto e per il suo demagogo, quel processo di piazza non va intentato contro un uomo in carne ed ossa. Ma contro il rappresentante di una categoria di funzionari colti e istruiti che proteggono l’ordine costituito che si vuole ribaltare. Shakespeare, s’intende, non parteggia per questa élite colta e cosmopolita. Più volte la sua satira si scaglia contro nobili, politici e funzionari reali. Uomo di teatro, uomo dell’arte messa in pratica, Shakespeare non sopporta chi si erge su un piedistallo per dare lezioni al prossimo. La boria intellettuale è una delle occasioni più propizie per l’umorismo shakespeariano. Come dimenticare, nell’Amleto, l’irrisione di Polonio ciambellano di Elsinore?

  

Mettendo, nell’“Enrico VI”, l’uno contro l’altro un uomo istruito e un bifolco che guida una rivolta, a Shakespeare interessa soltanto spiegare come funziona il populismo: come il popolo si lasci, in ogni tempo, facilmente adulare (Aristotele, nella Politica, definisce i demagoghi “gli adulatori del popolo”). E l’Istruito finisce impiccato, con penna e calamaio intorno al collo. “Bruciate tutte le leggi del regno. Da oggi la mia bocca sarà il parlamento d’Inghilterra”. E’ la filosofia di Jack Cade, tribuno della plebe, unico rappresentante del popolo perché popolano lui stesso.

  

La dinamica del populismo è questa: la delega funziona per rispecchiamento, non per selezione delle competenze. E la maniera più sicura per riconoscere i falsi rappresentanti del popolo, consiste nel misurare il loro livello di scolarizzazione. Dove il sapere è congiunto al potere, lì si riconosce l’abominio di un potere ostile al popolo non scolarizzato. Il potere in sé non è deprecabile e, difatti, i populisti di Jack Cade progettano di farlo proprio. E’ il potere connesso al sapere il nemico da abbattere. Per questo viene portato davanti a Cade un nuovo imputato da processare.

  

Stavolta è un pari d’Inghilterra, Lord Say. Ma l’accusa sarà pressappoco la stessa rivolta contro l’Istruito. Cade gli rimprovera di aver fondato una scuola di grammatica “Se i nostri padri non ebbero, per imparare a leggere, altri libri se non tacche e tagli (il mezzo di comunicazione scritta degli analfabeti erano tacche e tagli su regoli di legno, nda), per colpa tua ora si usa la stampa e hai fatto pure costruire una cartiera!”. Altra accusa tremenda. Lord Say chiede, però, di pronunciare la propria arringa difensiva. E’ un giudice che gode di buona fama e ne dà prova parlando ai ribelli. Cita Giulio Cesare, reclama la sua clemenza nell’amministrazione della giustizia e la sua onestà contro i tanti tentativi di corruzione. Il capopopolo Cade quasi ci ripensa. Trova convincenti le argomentazioni di Lord Say. Ma il pari d’Inghilterra deve morire, decapitato e ridecapitato dieci volte: “Sento dentro di me qualche rimorso a queste sue parole; ma lo freno. Costui ha da morire, non foss’altro perché sa così bene perorare la sua causa”.

 

E’ la conclusione scontata e amara che ci si attende. Più scontata e amara del modo in cui la rivolta è sedata e Jack Cade messo a morte. Lord Say, pari d’Inghilterra, sa persuadere la folla coi suoi buoni motivi e per questa precisa ragione viene condannato alla forca. Il possesso della retorica, che dispone gli argomenti migliori e ricostruisce una trama degli eventi vicina al verosimile, è una colpa imperdonabile. Chi sa usare il linguaggio, non potrà che utilizzarlo contro chi non lo sa usare; chi conosce, muoverà contro chi non conosce. Sono i postulati superstiziosi del populismo.

Nell’Inghilterra che attraversa angosciata la fine della Guerra dei Cent’anni e si appresta a vivere l’inizio della Guerra delle Due Rose, la perdita di accountability dell’élite si scontra con l’amarezza esacerbata del popolo. Una miscela esplosiva che semina discordia, infiacchisce la società, indebolisce lo stato. E’ un canovaccio che va in scena sul palcoscenico del mondo ciclicamente. E se ieri bisognava andare a teatro per vederlo rappresentato con poesia da Shakespeare, oggi qualsiasi social network ne dà quotidiano spettacolo.