Volterra, la Compagnia della Fortezza. Foto di Stefano Vaja

La fortezza che vola

Corrado Beldì

Una sera a Volterra, dove da trent’anni una compagnia teatrale cambia le idee degli spettatori sulle carceri

Per un attimo mi è parso di vederla in cielo, in cima alla valle, come un’astronave in partenza per l’impossibile. Forse voleva fuggire da Volterra appena prima che arrivassimo noi, eravamo ancora dalle parti di Cecina a discutere di pena capitale e di prigioni texane, un caffè e un ghiacciolo con la mia amica Ann Marlowe prima di ripartire per arrivare lassù, alla fine del paesaggio, dove ogni anno la Fortezza Medicea ci attende.

 

Molti non sanno che il carcere di Volterra è da sempre nel vecchio caposaldo e per lunghi anni è stato considerato un luogo di non ritorno. Giuliano pensava di non uscirne vivo e invece la sua nuova vita l’ha trovata tra quelle mura, alla Compagnia della Fortezza, ha compiuto da poco settant’anni e passa il tempo a leggere Shakespeare e anche quest’anno, come tutti i carcerati della compagnia, si è scelto le parole per lo spettacolo. Un progetto così non esiste in nessun altro posto al mondo e infatti un giorno diventerà un teatro stabile e chissà che cosa aspettano al Ministero, non si può dire no ad Armando Punzo, ci lavora ogni giorno da trent’anni e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. C’è voluta di certo una gran tenacia, una cella di tre metri per nove, le prove, le letture ad alta voce, le discussioni e ogni anno una nuova produzione, i premi Ubu e le tournée in tutta Italia, perché ormai la Compagnia è diventata un laboratorio sul mondo che ha cancellato l’idea stessa del teatro nel carcere.

 

Entriamo in città dalla Porta Etrusca, l’arco è una vera meraviglia e i blocchi di pietra sembrano dirci che staranno qui per sempre, hanno duemilacinquecento anni e in effetti chi li smuove. Ci hanno provato i tedeschi, lo volevano minare il 30 giugno 1944 per impedire l’ingresso agli alleati ma i cittadini di Volterra si ribellarono, volevano certo il cioccolato, le Camel, la libertà, ma la Porta non si poteva toccare, negoziarono di chiuderla coi sassi, disselciarono la via dell’Arco e lavorarono una notte intera, vecchi, donne e bambini e pure il vescovo. All’alba la strada non c’era più ma la Porta era sbarrata da un cumulo di pietre e salva per sempre e così anche l’orgoglio della città. Solo una bomba cadde alla fine su Volterra, prese proprio un muro della Fortezza e cinquecento detenuti fuggirono, dev’essere stato bello sentirsi liberi e correre finalmente verso la piazza e mettersi addosso qualcosa per confondersi tra gli altri. Chissà se Armando Punzo ha pensato a quei fuggiaschi quando ha disseminato le sue sculture attorno al battistero, hanno l’impermeabile scuro e sembrano usciti da quei lunghi inverni del Nord in cui la pioggia non smette mai. Mi ricordano quei versi della “Waste Land”: “Sighs, short and infrequent, were exhaled, and each man fixed his eyes before his feet”. Invece qui non piove affatto, anzi fa un caldo boia e “ci vorebe un altro ghiaciolo”, me lo ricorda Ann nel suo italiano stentato, quando le ho scritto della Compagnia è venuta apposta da New York, d’altra parte per questa gita è perfetta, è repubblicana convinta, detesta Donald Trump e difende a spada tratta la pena di morte. Ne fa una questione di efficienza dello Stato, nessuno tra i miei amici la pensa come lei e questa è un’occasione unica per farle cambiare idea.

 


Volterra, la Compagnia della Fortezza. Foto di Stefano Vaja


  

Sappiamo bene che in carcere ci possono finire tutti, Ann fa il caso di Judith Miller, sua amica giornalista finita in galera per aver coperto le fonti di un articolo sulla Cia. Esistono reati terribili ma altre volte non è esattamente così, alcuni avrebbero anche le migliori intenzioni ma si ritrovano a crescere in ambienti scoscesi, altri si ritrovano dietro le sbarre per punto d’orgoglio o per un momento di pazzia. Lo so fin da bambino, mio padre aveva raccolto un autostoppista nella nebbia vicino Parma, negli anni Settanta mica c’era BlaBlaCar: “Dove la porto?”.Devo firmare in caserma a Rovigoentro stanotte. Mi hanno appena scarcerato”. “Per quale reato?”.Omicidio”. Una stecca da biliardo in testa a uno che lo aveva minacciato all’osteria. Morto sul colpo, vent’anni dentro e una vita da condensare in due ore di viaggio.

 

Lasciamo i cellulari ai secondini, per quattro ore niente mail né messaggini e soprattutto nessuna foto. Come faranno a resistere i miei follower? In realtà è una specie di liberazione, ogni anno torno a casa con negli occhi decine di dettagli e sono immagini persistenti e durature. Sarà che in carcere non ci si annoia mai, “qui la giornata è così piena di avvenimenti che alla fine diventa una droga”. Lo scriveva Goliarda Sapienza ne “L’università di Rebibbia” che ho riletto ieri per la seconda volta. Lei se l’era proprio cercata ed era quasi felice, perché “per capire il Paese devi andare in carcere”, lo racconta a Enzo Biagi in un’intervista, “perché lì, se hai talento, ti viene riconosciuto”. Sono doti che Armando Punzo ha scovato nei ragazzi della Fortezza e per fortuna in alcuni direttori, Renzo Graziani ai tempi e Maria Grazia Giampiccolo ora, grazie a loro un carcere tra i più violenti d’Italia è diventato uno spazio per l’immaginazione, dove si lavora sempre insieme e ciascuno sceglie come esprimere i propri sogni e così lo spettacolo emerge ogni anno, nella forma di un’utopia collettiva.

 

Da due anni lavorano su Borges, lo scrittore dei racconti fantasmagorici. In vita mia ne ho letti solo cinque e mi vergogno perché Giuliano ne ha letti trenta e di Borges sa tutto, mentre io invece mi riduco a studiare qualche nota su Beatitudo al bar del carcere, dove il caffè costa cinquanta centesimi, tra foto dei tornei di calcetto tra le guardie e una vecchia immagine di Fausto Coppi con la maglia del Milan in un derby tra ciclisti. Dice Ann che il pubblico è molto hippy e in effetti non siamo certo a Glyndebourne ma soprattutto ci ritroviamo tutti appiccicati nell’attesa di passare l’ultimo cancello. Quando aprono le sbarre mi manca il fiato, è la mia sesta volta ma è sempre come la prima, anni fa nel Santo Genet ad accoglierci c’era proprio Armando col cappello a cilindro e il megafono, “entrate, venite a vedere, entrate!”, ci invitava a fare presto e a dividerci in gruppi, le celle erano state trasformate in stanze delle meraviglie ed era stato come tuffarsi nei sogni dei marinai. Saliamo tutti insieme sulla rampa, attirati dalla musica e oltre il giardino e l’albizia e il faggio rosso c’è Andrea Salvatori che suona il piano, è lui il musicista immaginifico della Compagnia, suona l’armonium, i bicchieri, il violoncello e il mandolino e ci conduce con grazia fino a un grande rettangolo d’acqua mentre un gruppo di uccelli, proprio in quel momento, arriva sulla Torre del Mastio e inizia a cantare.

 

Siamo nel cortile esterno e Armando ci attende seduto sulle rive dell’acqua e non a caso le sue prime parole sono “e tutto accadde qui per la prima volta”. E’ Ireneo Funes nel racconto di Borges, l’uomo dalla memoria prodigiosa che ci conduce in una galleria di personaggi così immaginari da diventare subito reali. “Voleva disegnare un uomo: voleva disegnarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà”. Siamo di fronte a una iconografia borgesiana del tutto inedita, che ogni attore ha contribuito a concepire e così le vite si mescolano ai sogni, c’è l’Uomo Grigio ed è davvero tutto grigio, anche la valigia, la pelle e capelli, c’è l’uomo che cammina nella notte col lume acceso e la luce è dipinta sulla faccia e sulla giacca e anche il buio è dipinto e poi c’è l’uomo che tiene la luna piena a un palmo dal viso, come in quella poesia che diceva “guardala, è il tuo specchio” e tutte queste immagini ci portano verso un’altra dimensione in cui non può esistere la violenza perché “un uomo può essere nemico di altri uomini o di momenti di altri uomini ma non di luce, di giardini, di corsi d’acqua e di tramonti”. Sono paesaggi meravigliosi che un pittore cinese cerca di dipingere nell’aria mentre noi gli invidiamo il cappello perché il sole batte a picco e ne vorremmo uno, la cappelleria Tesi non lontano da qui ne fa di splendidi in paglia intrecciata e ad aumentare la calura arriva pure un re africano con il sole disegnato sul viso e un cappellino che potrebbe aver rubato ad Anna Piaggi. Per fortuna arriva l’uomo con la barba grigia e ci regala un brivido quando si stende con la schiena nell’acqua e un nido sul petto, aspetta forse che dal cielo ritorni il Goofus Bird l’uccello che vola soltanto all’indietro del “Manuale di zoologia fantastica”. Un’immagine più potente non si vede da tempo.

 

Le figure si moltiplicano fino a quando dal fondo arriva Asterione, l’uomo che diventa egli stesso labirinto, osserva le stelle ma non trova risposte, sotto gli occhiali tondi e il trucco riconosco Giuliano e mi ricordo i suoi racconti di questi anni, ha scelto una metafora della vita perché fuggire dai nostri giorni è impossibile. Ecco infatti Cartaphilus de l’Immortale, porta pile di libri e ha un sorriso che sembra inamovibile. Mi ricorda quel corto in cui Willem Defoe, fa il becchino e lo licenziano perché gli viene una paresi e non può smettere di sorridere. Sistema i volumi sulle mensole della libreria, sono finestre di altre celle e non tutti gli ospiti gradiscono, oltre le sbarre qualcuno tiene alta la radio ma all’improvviso nella Fortezza risuona un bellissimo tango e Armando che inizia a ballare sull’acqua con un uomo dai capelli lunghi e neri ed è come un matrimonio dopo trent’anni di vita insieme.

 

Siamo sempre più emozionati mentre calano le luci della sera e salgono melodie arabeggianti, anche Ann ha tutta l’aria di voler ripudiare la sedia elettrica mentre arrivano schiere di guerrieri con lunghe aste di bambù e un africano nerboruto, consulta un mappamondo e cita Abramo, “lord of yesterday, lord of today, lord of forever”. La mente corre ai migranti nel Canale di Sicilia e non potrebbe essere altrimenti. Anche Ann lo guarda commossa, finalmente si sono messi a recitare in inglese e chissà perché in quel momento mi viene in mente Alfonso Bonafede, è lui il ministro della Giustizia e dovrebbe vedere tutto questo e decidersi a trasformare una parte del carcere in un teatro, sarebbe un caso unico al mondo e pure la sua unica chance di essere ricordato per qualcosa.

 

Avanzano sull’acqua i simboli borgesiani, la clessidra, l’alambicco, l’urna, il setaccio, la scacchiera, il mappamondo e infine un’odalisca in rosso, sdraiata su un divano accarezza il mare, mi ricorda Salvatore Fiume che di odalische così ne ha dipinte a centinaia, siamo arrivati al finale e tornano i guerrieri e stendono sull’acqua un sipario bianco e al centro una sfera rossa e chissà se è un cuore o il sol levante o un pianeta dove fuggire, se hanno appena annunciato che c’è acqua su Marte, allora non c’è nulla di impossibile, come le lacrime di Ann sull’applauso che in effetti è davvero infinito perché siamo tutti degli ultrà di questa squadra di attori. All’uscita ci servono fette d’anguria e vorremmo restare a lungo a parlare coi ragazzi ma il momento conviviale è troppo breve, l’anno scorso almeno c’era stata una cena nel giardino e speriamo davvero che in futuro la possano rifare.

 

Ci cacciano in fretta dal nostro teatro preferito ma fuori c’è Volterra ed è tutto aperto fino a tardi, corriamo in Pinacoteca per il Rosso Fiorentino che ogni volta mi lascia senza fiato, il paesaggio non esiste e tutto è portato all’essenza, la croce è una croce e la scala è una scala, un trionfo di colori in cui sembra che tutti vogliano andarsene dalla scena, anche il Cristo ha una certa urgenza di scendere dalla croce e si capisce, poggia i piedi su un pezzo di legno piccolo e inclinato che mi ricorda la “Sedia per visite brevissime” di Bruno Munari. Anche noi abbiamo fretta, ci aspetta un tavolo all’Enoteca Del Duca e ci buttiamo subito sul risotto con fegato di baccalà e polpa di Ricci, stasera mi sento cannibale e poi sul piccione arrosto. Per un attimo immagino che fosse tra quelli che cantavano sulla torre ma non può essere così, anche se in fondo il teatro fa miracoli, Ann non smette più di parlare degli attori della Compagnia e di Giuliano e vuole scrivere un articolo sul Wall Street Journal per raccontare questo modello di carcere e chissà che in America la storia di Volterra possa servire a cambiare le cose esattamente come è successo qui, dove ogni anno la Fortezza decolla per volare lontano da sé stessa.

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