Stefan Zweig

Il mondo di domani

Giulio Meotti

Umanista, migrante, pacifista, antisionista, santo. Tutti pazzi per Stefan Zweig, inghiottito dal suo stesso esilio multiculturale

Stefan Zweig sta ipnotizzando, letteralmente, l’immaginazione occidentale. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, lo cita nei suoi discorsi, Wes Anderson ne ha tratto ispirazione per il film “Grand Budapest Hotel”, tre recenti biografie sono dedicate a Zweig e questa settimana è uscita persino la notizia di un inedito di Stanley Kubrick scritto a partire da una novella del 1913 di Zweig. Il suo testamento-capolavoro, “Il mondo di ieri”, è un bestseller internazionale. La Bbc: “Zweig, lo scrittore che sognava un mondo senza confini”. L’Economist: “Perché gli europei stanno leggendo di nuovo Zweig”. In epoca di populismi, immigrazione e nazionalismi, l’ebreo austriaco Zweig, santo letterario, umanista ostinato, figlio prediletto dell’età dell’oro della cultura occidentale, è diventato l’antesignano dell’Europa senza confini e dalle identità mitigate. Zweig è il migrante venuto dall’Europa. Nemico dell’asservimento e del fanatismo, apostolo del raziocinio e della libertà, dell’ampiezza degli orizzonti e della derisione delle superstizioni, del disprezzo del gregarismo e della fiducia nella parola, Zweig vedeva il mondo – e in particolare l’Europa – attraverso un prisma di idee e di parole, relazioni artistiche e sociali formatesi nei famosi Kaffeehaus, quei caffè che a Vienna erano una magnifica istituzione senile, un luogo di letargo. Un clima di benessere ovattato e soporifero di quelle sale isolate dal mondo con doppie vetrate, pareti di legno, pesanti tendaggi di velluto, dove la cultura d’Europa stava covando idee che dovevano dare i loro frutti, alcuni geniali, altri terrificanti. Come dice il filosofo inglese John Gray, “Zweig incarna alcune delle principali contraddizioni della mente europea del Ventesimo secolo”.

     

L’ultima fase della civiltà asburgica appare in Zweig compresa tra due poli opposti, una malinconica consapevolezza del declino, vissuta con tacita dignità, e una leggerezza operettistica. Alla fine degli anni Venti Zweig, figlio di genitori ebrei benestanti di Vienna, divenne tra gli scrittori più celebri del mondo. Le sue novelle e biografie – su argomenti che vanno da Erasmo a Maria Antonietta – divennero successi immediati. Zweig aveva anche accumulato una favolosa collezione di partiture musicali e manoscritti letterari – di Mozart, Beethoven, Goethe – iniziata all’età di sedici anni.

     

Con la sua prima moglie Friderike, Zweig intrattenne l’élite intellettuale europea nella bella casa di Salisburgo con vista alpina mozzafiato. Tra gli ospiti c’erano Freud, Thomas Mann, Einstein e Toscanini. Le ricchezze della famiglia, frutto dei proventi di un impero tessile, gli avevano permesso di fluttuare al di sopra della realtà. Zweig divenne un pacifista e un idealista che intraprese tour di conferenze a sostegno del suo sogno di un’utopia paneuropea governata da studiosi e artisti. Poco dopo la sua morte, un editoriale del New York Times scrisse che era morto “come un uomo senza un paese”. C’era del vero in questo.

    

Stefan and Lotte Zweig - (foto via Flickr - University of Salford Press Office - credit: Acervo CSZ)


  

Il suo paese era stato l’Austria asburgica ed era morto. Zweig trascorreva le giornate in salotti a Vienna discutendo di idee, scambiandosi pettegolezzi e immergendosi in una cultura sempre progressista, sempre tollerante, sempre impegnata nelle fluidità indefinibili dell’avanguardia. Si può facilmente immaginare Zweig negli ultimi mesi della sua vita, in una piccola città del Brasile, a migliaia di chilometri dalla sua terra natale, tormentato dalla nostalgia per i giorni gloriosi nel vecchio mondo, come la dolente malinconia dei Lieder. Non solo Zweig era partito da Vienna, ma la sua Vienna era sparita dal mondo. Vienna morì culturalmente, spiritualmente e politicamente.

   

Credendo che i veri intellettuali dovessero rimanere distanti dalla politica, Zweig si rifiutò di chiedere un’azione internazionale per salvare gli ebrei della Germania, e deliberatamente si astenne dal parlare contro le atrocità naziste. Si doveva aspettare e tacere, anziché protestare o fomentare l’odio tra le nazioni, ma elevare le masse diffondendo l’alta cultura. Zweig adorava l’arte e soffriva dell’illusione, ancora oggi molto diffusa, che l’esposizione alla cultura avrebbe migliorato il mondo. Zweig, disse Hannah Arendt, fu vittima della stessa illusione che aveva tormentato l’ebraismo tedesco fin dall’Illuminismo, e alla fine portò alla sua distruzione: la convinzione che la cultura potesse sostituire la politica. “Senza l’onore della fama, nudo e svestito”, dirà Arendt, “Zweig si è confrontato con la realtà del popolo ebraico”. Arendt fu spietata con Zweig, che definì “un esteta della torre d’avorio” per il quale “il nazismo era un affronto alla sua dignità personale”.

    

Era un protetto di Herzl, ma rigettò il sionismo preferendogli la valigia sempre pronta. Come Walter Benjamin, un altro suicida

Protégé di Theodor Herzl, Zweig fu respinto dal sionismo, a causa della sua convinzione che l’ebraismo fosse l’avanguardia del cosmopolitismo. “Vedo la missione degli ebrei nella sfera politica come quella di sradicare il nazionalismo in ogni paese, al fine di realizzare un attaccamento che sia puramente spirituale e intellettuale”, scrisse in una lettera a Marek Sherlag. “Dopo aver seminato il nostro sangue e le nostre idee in tutto il mondo per duemila anni, non possiamo tornare a essere una piccola nazione in un angolo del mondo arabo. Il nostro spirito è cosmopolita – è così che siamo diventati ciò che siamo, e se dobbiamo soffrire per questo, allora così sia”. Una nobile visione, ma inghiottita dai ghetti e dalle camere a gas e che Zweig condivideva con un altro celebre intellettuale ebreo suicida, Walter Benjamin.

   

Un giorno Benjamin arriva al villaggio spagnolo di Portbou, dove vuole imbarcarsi per sfuggire ai nazisti. Il visto di transito gli viene ritirato. Benjamin si uccide la sera stessa con una overdose di morfina. Non si sa dove riposi. Il giorno dopo, come in un racconto di Kafka, il confine venne aperto.

  

Zweig era partito da Vienna, ma la sua Vienna era partita dal mondo, inghiottita dalla barbarie e da una stanchezza esistenziale

Dalla città brasiliana di Petropolis, dove allora si trovava, Zweig scriveva che a lui e sua moglie nulla suscitava tanta repulsione quanto una valigia. Perfino un viaggio in autobus da Petropolis a Rio, della durata di appena un’ora e mezzo, riusciva loro faticoso. Zweig lamenta la mancanza della sua biblioteca e dei suoi documenti. A Petropolis, un piccolo centro vicino a Rio de Janeiro, scrive la “Novella degli scacchi”, legge Montaigne e termina la sua fortunatissima autobiografia. Aveva dietro di sé un passato di agiatezza e successi editoriali, ma davanti aveva soltanto ombre. Un uomo di lettere stravolto dalla barbarie, difensore sentimentale di un passato mitteleuropeo che si portava dietro il peso di un’assoluta, irriformabile stanchezza esistenziale.

   

Zweig amava citare Stendhal: “Quanto più uno vive per il suo tempo, tanto più muore con esso”. Per amore dell’umanesimo europeo, Zweig ha finito col vedere il suo sogno affondare come un cosmopolita senza radici. Di fronte alle due guerre mondiali, Zweig aveva odiato per tutta la sua vita il nazionalismo, “la pestilenza che ha avvelenato il fiore della nostra cultura europea”. Sarà naturalizzato inglese prima di finire i suoi giorni in Brasile. Zweig, involontariamente, ha evidenziato il paradosso dello sradicamento e del cosmopolitismo. Rimpiangeva il mondo prima del 1914, quando “la terra era appartenuta a tutti gli uomini, tutti andavano dove volevano, salivamo sul treno, scendevamo senza chiedere nulla, non c’erano permessi, né visti, né misure invadenti, quegli stessi confini che, con i loro ufficiali doganali, la loro polizia, i loro posti di guardia di gendarmeria, sono trasformati in un sistema di ostacoli rappresentati solo da linee simboliche”. In Zweig vibrava la percezione della nazione come una camicia di forza, la fede nel progresso e nell’universalismo, la lode per l’espatrio e lo scambio culturale tra paesi.

  

In Brasile, dove muore, si innamora della tristezza multiculturale dei tropici, ma ne tesse un’ immagine ingenua

Ma Zweig, che odiava la decadenza spirituale del totalitarismo, si sarebbe riconosciuto nell’Unione europea di oggi? “Quando non hai la tua terra sotto i piedi perdi qualcosa della tua verticalità, perdi la tua sicurezza, diventi più sospettoso di te stesso” scriverà. “E non esito ad ammettere che dal giorno in cui ho dovuto vivere con documenti o passaporti veramente stranieri, mi è sempre sembrato che non appartenessi più a me stesso interamente. No, il giorno in cui il mio passaporto è stato portato via, ho scoperto, a cinquantotto anni, che perdendo la propria patria si perde più di un pezzo di terra delimitato da confini”. Questa, forse, è la lezione di Zweig che l’Unione europea dovrebbe ricordare nell’omaggiare lo scrittore.

   

Quando arriva in Brasile, lo scrittore ha viaggiato più di ottomila chilometri e qui si trova di fronte alla tristezza dei tropici. Si innamora di questo crogiolo di una società libera da pregiudizi sociali e razziali. Zweig è colpito dall’aspetto caleidoscopico brasiliano. “Un fantastico guazzabuglio di ricchezza e povertà, vecchi e nuovi, negri e bianchi, rocce e cemento armato, palme e asfalto”. Zweig evoca l’“Unità spirituale dell’Europa”, in cui ne chiede l’unificazione, che gli sembra l’unica possibilità di evitare la minaccia di guerra e porre fine all’odio. Intanto si rifugia nella sua utopia multiculturale che sostituiva quella certa douceur de vivre viennese. Zweig elogia i “nuovi popoli che, come il popolo brasiliano, sono guidati da un idealismo senza risentimento e non ossessionati dai confini”.

   

“Il liberalismo di Zweig era destinato a diventare un lusso sociale, come gli umanisti del XV secolo”, ha scritto Adam Kirsch

 

Quando torna in Brasile, con la sua nuova giovane moglie, Lotte, il 15 agosto 1941, non è sotto il segno del viaggio, ma dell’esilio. L’Anschluss è stato osannato nella sua Vienna, diventata una provincia del Reich. Gli ebrei sono stati deportati. I libri di Zweig bruciati. Il Brasile gli appare come una terra promessa. Il bungalow dove vanno a vivere è arroccato sul fianco di una collina. Ha scritto su New Republic il critico letterario Adam Kirsch che “il liberalismo elitario di Zweig era destinato a essere un lusso sociale. Gli umanisti del XV secolo alla Erasmo, come i liberali del XX secolo, erano estranei al popolo e incapaci di affrontare i problemi del mondo reale”. Da qui la sua decisione di trasferirsi non in America, come Thomas Mann e Bertolt Brecht, ma laggiù, nella giungla brasiliana, una sorta di prima Macondo.

  

“Ciò di cui Zweig aveva bisogno per la sua tranquillità, per la sua sanità mentale, era la capacità di dimenticare la crisi mondiale, di ritirarsi come Erasmo in una sfera privata di intelletto e decenza”, scrive Kirsch. “Zweig arrivò a credere che non ci fosse più nulla da cui fuggire, nessun luogo dove i valori che amava potevano sopravvivere”. Qui scrisse il suo inno nostalgico a una civiltà europea che stava per essere inghiottita e un’ode a un giovane paese pieno di promesse. Nuovo e Vecchio Mondo. Zweig offre una visione idealizzata del Brasile come un paradiso “multirazziale” governato dalla tolleranza. Ma Zweig perde la realtà di un paese lacerato dalla miseria e dall’ingiustizia.

  

“La visione di Zweig è ingenua”, afferma Kristina Michahelles, giornalista e traduttrice. Paradossalmente, Zweig il cosmopolita, Zweig il viaggiatore senza bagagli, è morto per aver perso la sua patria. La domenica pomeriggio del 22 febbraio 1942, il gentiluomo di lettere, impeccabilmente vestito e pettinato, il sorriso educato sulle labbra, si stende sul letto. Prende una dose di Veronal con un bicchiere di acqua minerale. Sua moglie, Lotte, ventisettenne più giovane, lo accompagna nell’abisso. E’ accanto a lui, si abbracciano. Un’immagine inquietante, scattata dalla polizia poco dopo che i loro corpi si sono raffreddati, è impressa nella nostra immaginazione: Zweig è sdraiato, pallido, la cravatta impeccabile, gli occhi chiusi, tiene la mano della compagna, che appoggia la guancia sulla sua spalla. L’Europa si era suicidata e loro due dovevano fare lo stesso.

   

Settant’anni dopo, fra le righe della vita e dell’opera di Zweig si cerca qualcosa di magico, di giusto, ma qualcosa di perduto. E settant’anni dopo, l’Austria felix è diventata infelice. La chiesa cattolica, che il decano del giornalismo austriaco Otto Schulmelster definì “l’ultimo prodotto della cultura occidentale che ancora esista”, è in uno stato comatoso; la politica austriaca è attraversata da passioni identitarie estreme; la sua demografia è decadente; il rancore avanza, come l’antisemitismo.

   

E’ il mondo di domani.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.