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Il manifesto anti selfie di Will Storr

Giulio Meotti

Il giornalista e scrittore inglese analizza l’epidemia da narcisismo che domina l’angolo morto della cultura occidentale

Della “Cultura del narcisismo Christopher Lasch, lo storico sociale proveniente dalla nuova sinistra americana, non salvò davvero molto. Fu lui, in quel libro epocale del 1979, a denunciare il ripiegamento della psiche su se stessa, il suo concentrarsi sui bisogni individuali e sui propri stati emotivi, col relativo declino della disposizione all’impegno pubblico. Se in Lasch la cultura del narcisismo stava corrodendo soprattutto le élite, nel nuovo libro di Will Storr si è mutata in un fenomeno di massa che pervade l’angolo morto della cultura occidentale, non soltanto quella dello spettacolo, ma anche l’arte così come la politica. E’ uno dei libri del momento, Selfie: How We Became So Self-Obsessed and What it’s Doing to Us, recensito dai media che contano, dal New Yorker al Financial Times passando per il New York Times.

  

Avvertenza iniziale. Il selfie del titolo non è quello degli attori scattato la notte degli Oscar del 2014. Il libro di Storr, giornalista e scrittore inglese, si apre non sulla frivolezza un po’ cretina degli autoscatti, ma sul numero drammatico di suicidi in crescita in occidente. “Il narcisismo oggi è una epidemia, come l’obesità”, scrive Storr. Ma se l’obesità colpisce il fisico, il narcisismo è una pandemia collettiva interiore.

  

“Le più grandi aspettative le abbiamo riposte sull’io interiore” scrive Storr. “Ma se Dio è dentro di noi, non siamo forse un po’ tutti dèi?”. Storr cita uno studio accademico che indica che questo fenomeno ha cominciato ad aumentare tra i giovani negli anni Novanta. “Verso la metà degli anni Duemila, quando i figli della generazione dell’autostima sono diventati genitori, il problema stava accelerando” spiega Storr, che realizza la prima grande inchiesta sul narcisismo contemporaneo. Soffriamo a tal punto di questa “autossessione” da nutrire la malattia con un altro libro su noi stessi.

     

Storr racconta l’Istituto Esalen in California, una sorta di hub della controcultura dei tempi. Qui nacque il Movimento del potenziale umano, che ha venduto al pubblico occidentale l’idea che i mali personali e sociali possano essere risolti rimuovendo le camicie di forza della religione e delle terapie convenzionali, per liberare le energie che si trovano dentro di noi. “C’erano molti interscambi tra Esalen e Stanford e la Silicon Valley”, dice Storr. “Già negli anni Ottanta, la gente della Silicon Valley si recava a Esalen per ‘ritrovare se stessa’. La Silicon Valley è passata da essere un luogo in cui si faceva ricerca sulla difesa e la tecnologia missilistica a questo centro di trasformazione personale attraverso la tecnologia”.

  

Questa moda dell’autostima, spiega Storr, si è evoluta in una “epidemia di autoassorbimento”. Già nel 1992, un sondaggio Gallup rilevava che l’89 per cento degli americani considerava l’autostima come “molto importante”. Adesso uno studio pubblicato sulla rivista Psychological Science, in cui i ricercatori hanno intervistato migliaia di americani in cinquanta stati, ha scoperto che molti di noi hanno una visione smisurata dell’importanza del proprio ruolo nella storia. E’ quello che si chiama “narcisismo collettivo”.

  

Il culto della “autenticità”

Si è tentati di incolpare strumenti come i social media e gli smartphone per questa epidemia. Will Storr non è di questa tesi e nel suo libro spiega che la tecnologia amplifica soltanto i guasti di una cultura occidentale già molto, troppo volatile. E’ questa idea, ormai dominante nella cultura contemporanea, che le persone hanno bisogno di essere “autentiche” e che dobbiamo entrare in contatto con i “nostri veri sé interiori”.

  

Storr tratteggia l’avvento di questo “cittadino globale, estroverso, magro, bello, individualista, ottimista, laborioso, socialmente consapevole e altamente stimato con uno slancio imprenditoriale e una fotocamera per i selfie”. E che finisce con l’onanismo, l’autocompiacimento. Il vizio del secolo.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.