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La famiglia dei boia

Giuseppe Marcenaro

I Sanson, sette generazioni di carnefici. Charles-Henri il più famoso: fece cadere la testa di Luigi XVI. E prendeva appunti, ora in un libro

In bianco da cap à pé, recava tra le mani il Libro dei Salmi. Svestì da solo la giacca. Sbottonò da sé la camicia di lino e dal collo si sciolse il fazzoletto. A quel punto nell’assordante silenzio dell’affollata piazza della Rivoluzione, Luigi Capeto, il degradato Luigi XVI, salì sul palco su cui stava la ghigliottina. Erano le 11 del mattino del 28 gennaio 1793. Una scarica di tamburi ruppe l’aria ferma. Accanto a lui stava Charles-Henri Sanson, il boia di Parigi, che era andato a prenderlo alla Conciergerie e con lui, su una carretta, aveva attraversato le strade della città stracolme di gente il cui odio e lo sconcerto si spandeva nell’aria. Il taglio della testa di un re non era un affare di tutti i giorni.

 

Per la propria attività la sorte aveva riservato a Charles-Henri Sanson tempi “vivacemente intensi“. Era il “boia ufficiale” durante la Rivoluzione francese. In quegli anni – specialmente durante il Terrore – eseguì 2.918 decapitazioni. Oltre ad aver tagliato la testa a Luigi XVI, Maria Antonietta, Charlotte Corday, Robespierre, Saint-Just, Hebert, Danton, Desmoulin, Lavoisier, l’astronomo e accademico Jean Silvain Bailly, uno dei padri della rivoluzione, primo sindaco di Parigi, Sanson spiccò il capo a una nuvola di più o meno noti incappati nelle maglie dei tribunali rivoluzionari, persone delle quali tenne conto e memoria in un formidabile journal.

 

Dal journal di Charles-Henri Sanson:

2 pluvioso [21 gennaio] Oggi è un anno esatto da che abbiamo condotto il re al patibolo. Questa mattina la cittadina Sanson si è svegliata prima di me, così pallida e sconvolta che si poteva indovinare quali incubi ne avessero turbato il sonno; da parte mia, posso assicurare che l’ho sognato anch’io... La cittadina Sanson piangeva e io le dissi “Dio è giusto, e gli ha dato il regno dei cieli in cambio di questo, terreno; ha bisogno forse che preghiamo per lui? Preghiamo piuttosto per noi che abbiamo le mani ancora sporche del suo sangue…”.

 

Oltre al re, Maria Antonietta, Robespierre, Danton. In quegli anni, specie durante il Terrore, eseguì 2.918 decapitazioni

“Lei urlava, era spaventosa a vedersi; infine riuscirono a stringerla nelle cinghie, e fu fatto. Poi si giustiziarono gli altri”

Curioso tormento di un boia che piangendo l’anniversario della morte del re a cui aveva tagliato la testa cambiando registro, proseguiva sconcertato, passabilmente stanco di veder colare sangue dal palco della ghigliottina: “Ne abbiamo accompagnato quattro oggi, e cioè: Charles Thibaut, agricoltore, condannato per discorsi che mancavano di senso civico; Marc-Etienne Quatremère, mercante di stoffe, accusato di frode nelle forniture; Jean-Marie de l’Ecluse, luogotenente di marina, uno dei complici del tradimento della città di Tolone; e Bernard Sablés, mercante di sete, accusato di aver fabbricato falsi assegnati dal Tribunale criminale”.

 

Fu Henri-Clément Sanson, nipote di Charles-Henri, a rievocare come il nonno avesse cercato in tutti i modi di consolare con gentilezza quanti accompagnava al patibolo. La sublime cortesia di un boia che definiva pazienti quelli cui doveva tagliare la testa. Un boia che s’era dedicato a stendere con acribia un diario elencando giorno per giorno, le esecuzioni compiute lungo gli anni di “fedeltà” all’ufficio suo: il vero e proprio rigore del pubblico funzionario. Questo fin al 1795 quando, “sfinito” di troncar teste, si era ritirato a vita privata, passando il nobilissimo incarico al figlio.

 

Charles-Henri, il più celebrato boia di Parigi, godeva di sommo rispetto. La gente gli lasciava il passo quando, fiero dell’incarico ricoperto per anni, incedeva nobilmente per le strade della capitale: “Mentre passavo oggi davanti al café di Chrétien, sono stato visto dal cittadino Guffroy, deputato alla Convenzione e giornalista. Credo che fosse molto ubriaco; difatti, uscito, mi teneva dietro gridando e mi indicava ai cittadini: ‘Ecco l’uomo che colpisce duro! Quando costui rade un aristocratico, state sicuri che non gli spunta più il pelo. Ecco il più indefesso lavoratore della Repubblica; finché egli avrà lavoro tutto andrà avanti...!’. Voleva che entrassi a bere con lui da Chrétien; ma io ho avuto vergogna per lui e mi sono messo in salvo”. Sanson restò ufficiosamente in carica fin alla morte avvenuta nel 1806. Dopo tanto impegno trovò finalmente riposo nel cimitero di Montmartre.

 

Pari a un aristocratico blasone i Sanson si trasmisero per sette generazioni, di padre in figlio, l’ufficio di carnefice presso la Corte di giustizia di Parigi. L’ultimo rampollo, Henri-Clément, alla fine dell’onorata carriera di resecatore di teste, si dedicò a mandare ai posteri le “auguste memorie familiari”, le gesta di uno splendido albero genealogico”: i Sanson, una vera e propria dinastia

 

L’incarico di “Executeur des hautes oeuvres de Paris” (Esecutore delle alte opere di Parigi), ereditario come un titolo nobiliare, i Sanson lo avevano acquisito nel 1688, con Charles Sanson de Longval. Toccarono il “vertice” con Charles-Henri, il più celebrato, la cui genia procedette con due figli: Henri – succeduto al padre come ufficiale esecutore – e Gabriel, aiuto-boia dal 1790 al 1792, anno in cui morì in un incidente.

 

Charles-Henri aveva intrapreso provvisoriamente “la carriera” nel 1754, sostituendo il padre gravemente malato; nel 1778 quando il padre morì, ottenendo le lettere di provvigione venne nominato ufficialmente “bourreau de la Ville, Prévôté et Vicomté de Paris”. Nel medesimo anno divenne ufficiale esecutore del re (Prévôté de l’Hôtel du Roy) alla corte di Versailles, una carica che aveva già ricoperto il fratello, Nicolas-Charles Gabriel Sanson.

 

Due dei Sanson oltre a fare del loro meglio onorando il sommo mestiere di boia, erano anche “scrittori”, specialisti in memorialistica. Dovevano temere che altri raccontassero le loro gesta in maniera imprecisa. Nel tempo libero dalle decollazioni, si dedicavano a resocontare come i condannati affrontassero la morte, mandando ai posteri la cronaca degli ultimi istanti dei loro “pazienti”. L’autore principe di questo exemplum letterario è l’esimio boia Henri-Clément Sanson, che nel 1847 raccolse in sei volumi di Memorie familiari i ricordi delle proprie gesta e di quelle del padre, unite al journal delle esecuzioni del nonno che aveva raccolto quotidianamente in un diario la serie delle pene capitali nei giorni della Rivoluzione. Opera oggi ristampata sotto il titolo Giù la testa. Memorie del boia della Rivoluzione (ed. La vita felice, a cura di M. Noja, 360 pp., 18,50 euro).

 

“Partirono dalla Conciergerie alle dodici meno un quarto. Non appena fu sul quai, la carretta fu salutata da un clamore assordante e attorniata da una folla nella quale mio nonno riconobbe la schiera degli habitués di place de la Révolution: il branco dei lupi era al gran completo. Nonostante tutto, però, fino a place de la Révolution la rabbia popolare non sfociò in niente altro che in ingiurie. Bailly era seduto: si intratteneva con mio nonno in tutta tranquillità. Parlava di tutto, tranne che di sé. Tra gli echi degli ultimi momenti dei condannati che l’avevan preceduto, di Custine, Charlotte Corday, della regina, gli chiese anche qualche informazione sugli emolumenti del suo incarico, come fosse stato ancora sindaco e mio nonno un suo dipendente. Quando la vettura fu all’altezza degli Champs-Élisées, un aiutante venne loro incontro. Nella fretta i carpentieri avevano dimenticato alcune assi che formavano il pavimento della ghigliottina. Bisognava fare dietrofront e caricarle sulla carretta. La fermata non fu senza pericolo. Per ben due volte la folla cercò di scagliarsi sul condannato ma i gendarmi riuscirono a respingere gli assalitori. Infine, il corteo si rimise in moto. Ma le assi, malferme per gli scossoni, davano grande incomodo al povero Bailly. Mio nonno gli propose di andare a piedi, ed egli accettò.

 

Nel 1847 l’ultimo rampollo, Henri-Clément, raccolse in sei volumi i ricordi delle proprie gesta e di quelle del padre e il diario del nonno

Un sospiro di sollievo gli gonfiò il petto e disse a Charles-Henri: “Presto, presto, finiamola, signore, ve ne supplico”

La folla, che già lo aveva coperto di vituperi, circondò la scorta da ogni parte, imprecando con un furore che diventava demenza; un cattivo soggetto di quindici anni afferrò il vestito che Bailly si era gettato sulle spalle e glielo strappò. La scossa fu così violenta che il disgraziato cadde all’indietro. In un istante il vestito fu lacerato in mille pezzi e i forsennati tentarono di impadronirsi del condannato, che era attorniato soltanto dall’esecutore e dai suoi aiutanti. Egli stesso dovette calmare Charles-Henri che si adirava contro la folla, e disse: ‘Sarebbe spiacevole aver saputo vivere cinquantasette anni con onore e di non sapere morire con coraggio nell’ultimo quarto d’ora’. Ma quando furono sul campo della Federation, alcuni individui circondarono mio nonno e uno di essi gli dichiarò che l’esecuzione non si sarebbe fatta colà, perché il sangue di uno scellerato non poteva macchiare la piazza consacrata dal sangue del popolo. Mio nonno si rifiutò di obbedire a quegli ordini. “Gli ordini – disse uno di quegli uomini – te li dà solo il popolo sovrano, tuo padrone. Obbediscici”.

 

Bailly rovesciò la testa all’indietro, i suoi occhi si chiusero ed egli si lasciò cadere, quasi svenuto, nelle braccia del gendarme e dell’esecutore, mormorando più volte: “Datemi da bere”. Bisognò sostenere Bailly perché potesse ascendere i gradini del patibolo. Un sospiro di sollievo gli gonfiò il petto e disse a Charles-Henri: “Presto, presto, finiamola, signore, ve ne supplico”.

4 frimaio (24 novembre). Abbiamo giustiziato Antoine Colnelle de Tontel, tenente colonnello, e Clement Laverdy, già controllore delle finanze, accusato di aver provocato la fame per aver gettato il grano in uno stagno. Brutta giornata. Il primo dei condannati aveva 72 anni e il secondo 70: quando sono giovani, provo pietà, quando sono vecchi, orrore. Tutti e due sono morti con coraggio.

9 frimaio (29 novembre). Oggi sono cadute cinque teste. Due erano di uomini celebri: quella di Barnave, ex deputato, che il giorno del ritorno del re avevo visto nella vettura reale a fianco di Marie Antoinette, e quella di Duport du Tertre, che era stato ministro della Giustizia. Si è detto che il cittadino Danton aveva cercato di salvare Barnave; ma con la legge che si è fatta, basta la denuncia di un fanciullo per mandate un uomo al patibolo, e non basterebbe a liberarlo neanche la volontà del primo cittadino della Repubblica. L’esecuzione doveva farsi ieri, ma la seduta del Tribunale è finita tardi e il tempo era così cattivo che si dovette rinviarla a questa mattina. I condannati devono al gelo di essere vissuti un giorno di più.

Drammaticamente formidabile il resoconto dell’esecuzione della Du Barry, l’ultima favorita di Luigi XV, che con la sua grande influenza aveva costruito a Versailles un temibile intreccio di intrighi.

17 frimaio (7 dicembre). Madame Du Barry è stata condannata ieri sera e giustiziata questa mattina… camminava reggendosi al muro, le gambe vacillavano. Da vent’anni non la vedevo, e non l’avrei riconosciuta: era sfigurata tanto dalla pinguedine quanto dai tormenti dell’angoscia. Quando mi vide dietro agli altri condannati già legati, ella gettò un grande ‘Ah!’ nascondendosi gli occhi sotto il fazzoletto, e si lasciò andar ginocchioni gridando: ‘Non voglio! Non voglio!’... Ci vollero due uomini per legarla. Allora li lasciò fare; piangeva soltanto come non ho mai visto piangere. C’era tanta gente come per l’uscita della regina. Si gridava ma gli strilli della vittima superavano sempre tutte le grida del popolo. Dopo un centinaio di passi, non si sentiva più che lei. Ella diceva: ‘Buoni cittadini, liberatemi, sono innocente! Vengo dal popolo come voi, Cittadini, non lasciatemi morire!’. A momenti ella smetteva di gridare; da violetto che era, si vedeva il suo viso diventare tutto bianco. Ella si abbandonava agli sbalzi della carretta come morta; ne era gettata di qua e di là. Sarebbe caduta dieci volte se mio figlio non l’avesse sostenuta. Talvolta ella si rivolgeva a me, dicendomi: ‘No, non è vero che voi mi farete morire?’. I suoi denti battevano e la voce le veniva rauca e secca dalla gola. Io l’avevo conosciuta in gioventù. Le consigliai di pregare, che ciò l’avrebbe certamente confortata. Al vedere la ghigliottina, aveva avuto un deliquio, dissi di farla salire subito; ma appena si sentì le mani addosso, riprese i sensi e, sebbene legata, respinse gli aiutanti gridando: ‘Non ora, non subito; ancora un momento, signor boia, ancora un momento, ve ne prego!’. Fu trascinata, ma si dibatté e cercò di mordere. Era tanto forte quanto corpulenta, cosicché, sebbene fossero in quattro, gli aiutanti impiegarono più di tre minuti a farla salire. E se lei non li avesse eccitati spingendoli, non so se ne sarebbero venuti a capo In alto, la cosa ricominciò: lei urlava, era spaventosa a vedersi; infine riuscirono a stringerla nelle cinghie, e fu fatto. Poi si giustiziarono gli altri”.

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