"Il riposo delle spigolatrici", di John Ottis Adams (1886)

Dammi il tuo tempo

Paola Peduzzi

Cosa fai quando non lavori? Le teorie di un filosofo pop olandese. Parla anche di reddito di cittadinanza

Vorrei del tempo, dammi del tempo, il mio tempo o anche il tuo, quel che si può: me lo faccio bastare. Per circa il 99 per cento della storia del nostro pianeta, il 99 per cento dell’umanità è stato povero, affamato, sporco, spaventato, ignorante, malato e brutto: negli ultimi due secoli è cambiato tutto, e oggi nel mondo sazio di pace e prosperità non c’è risorsa più scarsa del tempo, lusso assoluto, quando non c’è lo vogliamo, quando c’è lo sprechiamo. Buona parte di quel che ci sta accadendo – proposte di benessere senza coperture, esperimenti di settimane di lavoro corte, l’ossessione dell’overparenting, persino le nuove forme di disintossicazione da media e social media – ha a che fare con il tempo. Il tempo che vorremmo, il tempo che potremmo dedicare a qualcosa di diverso dal lavoro, il tempo come diritto addirittura, anche se poi al primo attimo di pace la stragrande maggioranza di noi dorme.

 

A metà dell’Ottocento, nell’Inghilterra vittoriana, il liberale John Stuart Mill sosteneva che l’uso migliore della ricchezza fosse ricavare tempo, tempo libero, “ci sarebbe più spazio che mai per ogni tipo di cultura mentale e progresso morale e sociale, e anche per migliorare l’Arte del Vivere”.

Nell’èra vittoriana l’uso migliore della ricchezza era ricavare il tempo, per affinare anche l’Arte di Vivere

Allora in alcune città inglesi, la settimana lavorativa durava settanta ore, anche per i bambini, non c’erano ferie né fine settimana; di lì a qualche anno gli economisti, di tutte le formazioni, avrebbero profetizzato un futuro in cui si sarebbe lavorato sempre meno, conquista ultima della Rivoluzione industriale, fino alle quindici ore a settimana di cui parlava John Maynard Keynes: negli anni Duemila, diceva lui, avremo il grave problema di cosa farcene, di tutto il tempo libero a disposizione.

 

Non è andata così, ma nel dibattito sul tempo, quello lavorato e quello libero, il “leisure e il pleasure” di Benjamin Franklin, c’era un pregiudizio culturale: se non sei occupato, avrai più tempo per i vizi, per bere, per frequentare le prostitute, per accoltellare qualcuno, per fare un mucchio di debiti. Il lavoro è prevenzione sociale, perché il tempo libero esprime la natura dell’uomo, difettosa: è un invito a dare il peggio di sé. C’era pure molta lotta di classe, in questo pregiudizio: l’ozio era dei ricchi, che sapevano cosa farsene del tempo libero, mentre i poveri no, non avrebbero nemmeno avuto la capacità di concepirla, l’arte del vivere.

 

Rivoluzionaria fu non tanto una consapevolezza diversa nei confronti dei lavoratori, quanto la necessità di efficienza: Henry Ford, nel 1926, introdusse la settimana lavorativa di cinque giorni nelle sue fabbriche. Tutti pensarono che fosse ammattito, la catena di montaggio gli aveva dato alla testa, ma lui aveva fatto un calcolo semplice: un operaio riposato è un operaio più efficiente. Il tempo libero, diceva Ford, è “una fredda questione di affari”, se lo concedi, le famiglie andranno a farsi una gita fuori porta, e compreranno un’automobile. L’efficienza – gli operai producevano di più in cinque giorni – fece rivalutare il concetto del tempo, gli diede una connotazione più delicata e promettente, con la vita familiare al centro del progresso, e il modello Ford divenne dominante, anche tra chi inizialmente aveva pensato che il grande imprenditore fosse pazzo. Negli anni Settanta, l’ascesa del tempo libero era diventata così straordinaria che si cominciò ad avere di nuovo il timore che potesse diventare pericolosa: si parlava del tempo libero forzato o obbligatorio, dettato da una maggiore efficienza e produttività, settimane corte, cortissime, e poi che si fa? Ci si annoia, nei migliori dei casi, come scrisse Isaac Asimov in un articolo sul New York Times, o, di nuovo, si cede ai vizi, alla violenza, alla moglie menata, al peggio di sé.

 

Gli anni Ottanta misero fine a questa preoccupazione, invertirono le profezie degli economisti e cancellarono i timori dei sociologi. Il termine “workaholic”, la dipendenza da lavoro, è la sintesi del cambiamento, le ore di lavoro a settimana non calano più, anzi ricominciano a crescere, e la propria occupazione non è più soltanto quel che facciamo: è quel che siamo.

Rutger Bregman (giovanissimo) ci racconta in un saggio tradotto in 28 paesi la sua “utopia per realisti” sulla sicurezza economica

Gli esperti, economisti e sociologi, danno diverse interpretazioni di questa nuova concezione del tempo libero, c’entrano consumismo e capitalismo, c’entra anche l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, che ha aumentato il tempo occupato della coppia, proprio nel momento in cui fare i genitori è diventata un’attività ossessionante, con la dittatura del “quality time”, il più grande generatore di sensi di colpa della contemporaneità. Secondo uno studio della scuola di Business di Harvard poi, grazie alle tecnologie e alla reperibilità assoluta, le ore lavorate durante la settimana sono ormai 90 (pure se qualche dubbio sul dato c’è: “Sto lavorando” è anche un enorme alibi per mettere a tacere mogli e figli).

 

Così il tempo è di nuovo risorsa scarsa, in una stagione in cui però non ci sono vacche grasse, non ci sono boom di consumi o crescite lussuose, non c’è piena occupazione, anzi, ci sono incertezza, instabilità, altalene economiche, una grande, grandissima insofferenza. E così lo scontro tra chi dice valorizziamo il tempo delle persone, è fonte di creatività, e chi dice che a lavorar meno si produce meno, non è che si può sfuggire, persino i francesi vorrebbero rimangiarsi le 35 ore, è di nuovo forte. I sindacati tedeschi che hanno ottenuto un risultato storico con la settimana di 28 ore hanno creato grandi invidie, ma hanno anche generato molte illusioni: le settimane corte sono un lusso da paesi ricchi, e comunque si tratta di un’opzione volontaria e temporanea (massimo due anni), non sistemica. Ma i cultori del tempo libero come risorsa ultima per il riscatto sociale, per la stabilità, per la produttività, per la lotta alla diseguaglianza e addirittura della povertà sono di nuovo qui, ci fissano negli occhi, e li vedi che un po’ ridono.

 

Uno di loro è Rutger Bregman, filosofo olandese di ventinove anni, autore di un libro, “Utopia per realisti”, che inizialmente pubblicò in Olanda su De Correspondent, un sito crowfounded che, parlando con il Foglio, Bregman definisce così: “E’ un collettivo di giornalisti che cercano di ignorare le notizie. Le notizie riguardano spesso le eccezioni – corruzione, reati, terrorismo – e non le regole. Se guardi molte notizie, avrai una visione completamente sballata della storia e della natura umana”. Un angolo utopico che, ricorda il giovane filosofo, è stato fondamentale per scrivere il libro che Bregman in seguito si autopubblicò in inglese anni fa, e che appunto parte dall’utopia. All’inizio questo libro non fu notato da nessuno: Bregman iniziò a scrivere a chiunque per segnalarlo e, come nelle favole, quando stava per rinunciare, arrivarono alcuni endorsement rilevanti – uno dall’autore più citato del momento: Steven Pinker – e il saggio è ora tradotto in 28 paesi. Nell’edizione italiana di Feltrinelli non compare il sottotitolo che c’era nella versione originale inglese, e questo forse spiega perché Bregman non sia già stato adottato come guru di riferimento da una forza dominante nel nostro paese. Il sottotitolo è: “Argomenti a favore del reddito di cittadinanza, dei confini aperti e della settimana di 15 ore”.

 

Questi temi sono diventati mainstream, “la moglie di Justin Trudeau ha chiesto una copia – racconta Bregman – il sindaco di Barcellona ha dichiarato che le è piaciuto, molti francesi l’hanno letto, e potrei continuare. Quattro anni fa, l’idea del reddito di cittadinanza era stata dimenticata: ora è ovunque! Sono persino stato invitato al World Economic Forum a Davos (non ci è andato, ndr), ma non confondiamoci: non è che questa popolarità è cominciata lì. Le idee radicali nascono negli angoli, non nel centro politico dove ci sono i leader e i giornalisti mainstream”. Bregman è un utopista anarchico, che gioca molto sulla sua retorica secca e diretta e sul fatto di essere davvero giovane: la settimana scorsa ha portato il giornalista del Financial Times che lo voleva intervistare ad arrampicare su una parete creata tra le arcate della stazione Vauxhall di Londra. Bregman con la maglietta nera della sua palestra olandese, che si chiama “Sterk” e vuol dire “forte”, va su e giù come una scimmia, mentre Tim Harford, celebre reporter economico del quotidiano della City, si muove piano, sente male da tutte le parti, soprattutto ai polsi, chiede facendo il vago quanto dura quella tortura, massimo 45 minuti spero, e Bregman impietoso spiega che per meno di due ore e mezza non bisognerebbe nemmeno iniziare. Harford finisce per fissare Bregman mentre si muove sulla parete, agile e indefesso, e risponde alle domande.

 

Anche il reddito di cittadinanza, questa promessa che è calata sul popolo italiano come la strada per la liberazione e che già incastra i Cinque stelle alla catena dell’“ora ce lo devi dare, però”, è per il filosofo olandese una questione di tempo.

Il tempo libero è buono o cattivo? Negli ultimi due secoli l’opinione in proposito è cambiata molto. Ora siamo nella fase positiva

Molte persone – dice – sono obbligate a fare un lavoro che non amano perché devono guadagnare per sopravvivere, sono frustrate e spesso inefficienti, ma se avessero un minimo di sicurezza economica, allora potrebbero esprimersi in contesti diversi, usare il proprio tempo nel modo più creativo e produttivo possibile. “Dobbiamo ricordarci – spiega Bregman – che il reddito di cittadinanza è un investimento che si paga da sé. Sappiamo da decine di esperimenti fatti in giro per il mondo che una volta che si contiene o si sradica la povertà, i costi per la sanità scendono, la criminalità pure, i bambini vanno meglio a scuola. La povertà è molto costosa, non ce la possiamo permettere. Un reddito di cittadinanza è il metodo più efficiente per risolvere il problema della povertà, invece che combatterne i sintomi”. Quel tempo che si libera nel momento in cui non devi guadagnarti da vivere è un motore per l’economia. “Molto dipende da quel che intendiamo per ‘produttività’ – dice Bregman – Ci sono milioni di lavori che gli economisti considerano produttivi perché fanno guadagnare molti soldi, ma in realtà sono inutili. E non sono io a dirlo, lo sostengono molte persone che fanno quei lavori! Ci sono molti banchieri, consulenti, avvocati che considerano il loro lavoro senza alcun significato: secondo alcuni sondaggi recenti, si tratta del 30-40 per cento di tutti i lavori delle economie sviluppate. Ecco: questo è il più grande spreco. Dovremmo fare meno lavoro pagato in modo da poter dedicare più tempo ai lavori utili e non retribuiti, come occuparci dei nostri genitori, dei nostri figli, fare volontariato”.

Nel suo libro Bregman cita molti esempi del passato e del presente – compresa l’infatuazione di Richard Nixon per il reddito di cittadinanza nel 1969 – in cui il trasferimento di denaro ai cittadini senza contropartita si è rivelato produttivo: ci sono i tredici homeless della City cui è stata data una dimora e sono usciti dalla dipendenza dall’eroina e ora fanno giardinaggio (è successo nel 2009); c’è un celebre caso in Canada del 1973, il Mincome, che però non fu mai allargato su scala nazionale; c’è il virtuosismo di GiveDirectly e il suo nuovo progetto in Kenya; c’è un caso chiacchieratissimo in Finlandia che però riguarda soltanto chi prende già i sussidi di disoccupazione.

 

Molti esperimenti spiegano gli esiti di un trasferimento di soldi senza contropartita. La riforma del welfare è un’altra faccenda

Ogni progetto ha il suo fascino, ma la riforma dello stato sociale dei paesi occidentali è un’altra faccenda, ed è di questo che stiamo parlando quando qualcuno vuole introdurre il principio per cui lo stato deve dare soldi senza contropartita. Conviene anche Bregman su questo punto, ma ribadisce che lui è un utopista, fa circolare le idee, i grandi cambiamenti nascono da intuizioni che tutti considerano, sul momento, folli. “Il problema della sinistra oggi è proprio questo – dice Bregman – Sappiamo soltanto che cosa non vuol fare: contro l’austerità, contro la crescita, contro il razzismo, contro l’omofobia, contro tutto! Devi anche essere a favore di qualcosa. Martin Luther King non disse: ho un incubo. Aveva un sogno”. E il sogno di Bregman, quest’utopia in cui il tempo diventa la soluzione, si fonda su una certezza, questa sì promettente: non è vero che la natura dell’uomo è difettosa. “Il mio prossimo libro è sulla natura umana – dice – Partiamo sempre dall’idea che la gente sia naturalmente egoista, cattiva, violenta, e che la civilizzazione sia soltanto uno strato sottile. Vorrei confutare questa visione incredibilmente predominante, ma mi ci vorranno ancora un anno o due di lavoro”. L’utopia è allo stesso tempo “un bel posto” e “nessun posto”, scrive Bregman nel suo libro, ci servono orizzonti alternativi per accendere l’immaginazione, “tutto sommato le utopie conflittuali sono la linfa della democrazia”. Non serve essere ottimisti o pessimisti, basta essere possibilisti, e allora possiamo anche pensare che il reddito di cittadinanza sia valido per il “nessun posto”, e che invece nel “bel posto” la natura umana non sia affatto difettosa, dammi il mio tempo, dammene un po’ anche del tuo, ne farò buon uso.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi