Aldo Moro (foto LaPresse)

A 40 anni dalla morte

La sceneggiatura del caso Moro

Raffaele Alberto Ventura

Tra Todo Modo di Sciascia e influenze bibliche. Il rapimento del leader Dc riletto da uno scrittore millennial come fosse un film

Quando nel 1978 il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro venne rapito e assassinato dalle Brigate Rosse, lo scrittore Leonardo Sciascia dovette ammettere che i fatti presentavano spiacevoli analogie con il contenuto del suo romanzo Todo modo, pubblicato nel 1974 e adattato al cinema nel 1976.

 

Il libro fornisce una descrizione grottesca dei torbidi meccanismi di potere che regolavano la vita politica italiana della Prima Repubblica e alla fine racconta l’uccisione rituale di un personaggio riconoscibile come caricatura di Aldo Moro. Nel romanzo il presidente della DC paga per le colpe di un intero sistema politico: proprio come accadrà nella realtà, ovvero come sosterrà lui stesso nelle sue lettere dalla prigionia e come rivendicheranno i rapitori nei loro comunicati. Tutto sarà trovato esatto più tardi.

 


  

 Leonardo Sciascia (foto LaPresse)


  

Immaginando quella morte e poi raccontandola, Sciascia aveva per caso, involontariamente, designato (ovvero disegnato) la vittima? Lo scrittore siciliano era riuscito nel suo romanzo a trasfigurare la complessa situazione politica italiana in un’allegoria potente e grottesca. Era riuscito a fornire, in forma di finzione, una chiave di lettura della realtà. E così aveva in un certo senso disegnato la mappa che le Brigate Rosse avrebbero usato per muoversi nello spazio tra la strategia rivoluzionaria e la la tattica terroristica.

 

In questo senso Todo modo non è una profezia innocente che anticipa la realtà, ma un evento che la produce, un tassello fondamentale della storia delle rappresentazioni che portarono a quel mistero tremendo che è la "Passione" di Aldo Moro. Durante il rapimento, un mese prima dell’omicidio, il 23 marzo, Sciascia aveva espresso su Radio Radicale il suo stato d’animo:

 

— Oggi posso dire che non mi rimangio nemmeno una virgola di Todo Modo. Come uomo, come cittadino, di fronte al caso Moro sento lo sgomento e la pena di qualsiasi persona che abbia sentimento e ragione. Ma come autore di Todo Modo, rivedo nella realtà come una specie di proiezione delle cose immaginate. Questo mi ha fatto da remora nell’intervenire, come scrittore, anche per un senso di preoccupazione e di smarrimento nel vedere le cose immaginate verificarsi…

 

Sciascia esitava tra la tentazione di rallegrarsi per la sua illuminata profezia e il timore d’influenzare (ancora) gli eventi. Faceva sicuramente bene perché il 9 maggio, dopo una prigionia di 55 giorni, Aldo Moro venne infine ucciso. Proprio come nel romanzo.

 


  


 

Ovviamente non esiste nessuna prova, nessuna testimonianza che le Brigate Rosse si siano ispirate a Todo modo; e nello stesso tempo è improbabile che non lo conoscessero, perlomeno nella sua versione cinematografica. La pellicola di Elio Petri, liberamente tratta dal romanzo, è persino più potente del romanzo. C’è, soprattutto, quella tremenda somiglianza tra Aldo Moro e Gian Maria Volonté, che si era impegnato a riprodurre in maniera caricaturale tutti i tic dell’onorevole DC, presentandolo nella finzione come quel viscido burattinaio e aspirante agnello sacrificale che le Brigate Rosse presenteranno nei loro comunicati.

 

Fu quindi nel buio di una sala di cinema che si è deciso di condannare a morte il presidente della Democrazia Cristiana? Il regista dovette difendersi dall’accusa di essere in qualche modo un mandante morale dell’omicidio — o il mandante simbolico — dichiarando che “Todo modo non era certo un invito a uccidere Moro” e che “No, il film non era terroristico”.

 


 

 Un'immagine dell'agguato di Via Fani dove Aldo Moro venne rapito il 16 marzo 1978 


 

Quella sala buia ci riporta alla mente le grotte preistoriche dove gli uomini decretavano la morte dei bisonti, e dove oggi talvolta si condannano a morte gli esseri umani.

Non fu certo l’ultima volta che un artista ha dovuto difendersi dall’accusa di avere influenzato la realtà. Nel 1981, John Hinckley Jr. tentò di assassinare il presidente americano Ronald Reagan per imitare le gesta del protagonista del film Taxi Driver (1976) e fare colpo sull’attrice Jodie Foster. Lo scrittore Michel Houellebecq, il cui romanzo sull’Islam è uscito in Francia proprio nel giorno degli attentati al settimanale Charlie Hebdo all’inizio del 2015 e quindi non ha potuto in alcun modo influenzare i fatti, è stato comunque accusato dalla stampa di avere contribuito a provocare i terroristi. Qualche mese dopo, intervistato dalla televisione francese a proposito della sua responsabilità di scrittore, Houellebecq ha risposto semplicemente:

Non me lo spiego, ma nella pratica è terrificante: lascia credere che effettivamente ci sia una divinità che crea delle coincidenze tra gli eventi e che sono stato chiamato a ciò che chiamiamo un destino… Non mi sento responsabile: mi sento manipolato da una divinità malefica. È piuttosto sgradevole.

 

Anche Aldo Moro e i brigatisti parvero presto essere manipolati da una divinità che assomigliava stranamente al Dio cristiano. Tutto il caso Moro, il grande trauma della Prima Repubblica, presenta curiose contaminazioni tra realtà e finzione. Ci sono, ovviamente, le innumerevoli versioni dei fatti, i depistaggi, le sedute spiritiche, i falsi comunicati. Ci sono le innumerevoli congetture sugli autori — americani? russi? marziani? —  della sceneggiatura che i brigatisti sembrano seguire senza nemmeno capirla. Ma c’è innanzitutto il modo in cui i protagonisti della vicenda hanno iniziato a immedesimarsi nei personaggi di altre storie. E principalmente nel Nuovo Testamento, come dei padri pellegrini alla conquista di un nuovo territorio.

 


 

Aldo Moro a un congresso della Democrazia cristiana 


  

I primi martiri del cristianesimo vivevano e morivano come il Nazareno, utilizzando i racconti che erano stati tramandati come vere e proprie “sceneggiature” da attualizzare. Nei secoli non c’è re o santo cristiano che non abbia preteso di orientare la sua condotta sull’esempio di Gesù Cristo, imitando il Figlio come il Figlio imitava il padre. Alla fine di un secolo che sembrava essersi lasciato alle spalle ogni teologia politica, Aldo Moro si trovò a interpretare di nuovo quel ruolo antichissimo.

 

La Pasqua 1978 cadde un 26 Marzo, in pieno durante la prigionia di Aldo Moro. Questa coincidenza temporale, che si ripete ogni anno con differente precisione, negli ultimi quarant’anni ha ispirato continue commemorazioni incrociate della Passione di Cristo e di quella del presidente DC. Il giornalista televisivo Bruno Vespa poteva dunque nel 2008 dedicare una puntata del suo programma, nella notte tra Giovedì e Venerdì Santo, ai “55 giorni di Passione” di Moro così contribuendo alla reductio ad Christum che lo stesso presidente democristiano aveva suggerito nelle sue ultime lettere.

 

Si tratta di un corpus strano e affascinante, in bilico tra autenticità e apocrifia, che possiamo leggere nell’edizione curata da Miguel Gotor per Einaudi proprio nel 2008, per il trentennale. Scritte sotto il controllo e l’influenza dei carcerieri, ispirate dalle informazioni filtrate che giungevano a Moro e poi nuovamente filtrate prima di giungere ai loro lettori, rese pubbliche secondo modi e tempi differenti da differenti destinatari, queste lettere non hanno uno ma tanti autori. Ognuno di questi co-autori manipola la realtà in modo diverso per produrre un effetto diverso.

La formazione di questo corpus è un vero proprio thriller che Gotor, di formazione specialista del Cinquecento e del Seicento, ha sviluppato qualche anno più tardi in un volume corposo, Il memoriale della Repubblica. Attraverso la storia di questi scritti, prodotti su commissione dei carcerieri e sottoposti a vari livelli di censura, poi scomparsi e riapparsi a singhiozzo in versioni diverse, lo storico prova a fornirci nientemeno che una “anatomia del potere italiano”. E denuncia una rimozione della quale questi scritti sono stati oggetto, una volontà di dimenticare la testimonianza di Aldo Moro da parte dell’intera generazione di coloro che, per eterogenesi dei fini, inconsapevolmente si accordarono per propiziare — vedi Sciascia — e lasciar compiere il suo sacrificio.

Gotor confuta piuttosto facilmente il luogo comune secondo cui tra le Brigate Rosse e la sinistra extraparlamentare della fine degli anni Settanta non ci fossero punti di contatto, e arriva a suggerire una responsabilità del vertice di Potere Operaio non certo nella pianificazione del rapimento, ma nella formazione del contesto ideologico e nella formulazione dei quesiti che sarebbero stati rivolti al rapito, e complessivamente nella costruzione dell’ingranaggio mortale nel quale finì il corpo di Moro.

 

Il corpus delle lettere dalla sua prigionia ha una dimensione martiriale che evoca gli epistolari tragici di Paolo di Tarso o di Ignazio di Antiochia oltre che l’antica letteratura apocalittica giudaico-cristiana. Come disse Giovanni Moro, figlio di Aldo, “le lettere devono essere lette anche sotto il genere letterario della profezia”. E proprio come questi testi antichissimi, anche le lettere di Moro ci giungono in forma apocrifa, o meglio come risultato di una contorta sovrapposizione al termine della quale si trova un autore impossibile, un discorso del quale viene misconosciuta l’originalità. Tuttavia, il risultato ha una misteriosa coerenza che realizza una sacra sceneggiatura; un “sacro mistero” proiettato nell’immaginario collettivo, sulla superficie della Storia.

 

In un paio di occasioni Aldo Moro descrive la propria prigionia come un “Calvario”. Quando capisce che i suoi compagni di Partito intendono abbandonarlo in nome della Ragion di Stato, il prigioniero si sente abbandonato come Gesù sulla croce. E finisce per scrivere testualmente le parole  “Il mio sangue ricadrà su di loro” come maledizione lanciata al Sinedrio democristiano. Il Partito sembra rispondere con le parole di Caifa: “È meglio che un uomo solo muoia per il popolo”.

 

Se prendiamo alla lettera questa lettura cristologica, ne dobbiamo concludere che le Brigate Rosse non sono altro che gli esecutori materiali di un delitto “moralmente” commissionato dallo Stato. Evidentemente questa narrazione non è neutra e serve uno scopo, ma quale? Secondo Sciascia, è questo il dubbio che Moro tenta di produrre nei brigatisti: ovvero di essere delle semplici pedine, inconsapevoli strumenti di un progetto democristiano e forse americano. La sua insistenza sulla necessità di una trattativa non era rivolta allo Stato ma innanzitutto ai suoi carcerieri, i quali avrebbero dovuto convincersi che paradossalmente la sua morte facesse comodo allo Stato. Nello stesso tempo, ciò che forse Moro non capiva, questa versione dei fatti assolve i brigatisti ed è spesso servita ad attenuare le loro colpe: hanno dovuto uccidere Moro perché nessuno dei loro tentativi di trattativa è andato a buon porto. Quando i combattenti comunisti eseguiranno la sentenza potranno “lavarsene le mani” come Ponzio Pilato perché Moro morituro aveva dirottato la colpa su altri.

 

Ma in cosa consiste precisamente questa maledizione, reiterata di continuo nelle lettere e continuamente tenuta implicita – questa maledizione che distruggerà e farà collassare la Democrazia Cristiana, chiamando altro sangue? Come doveva realizzarsi la catastrofica profezia, e come si è realizzata? Tutto il discorso della prigionia di Aldo Moro tiene nel conflitto tra Legalità e Necessità, ovvero tra il Diritto e la Politica. Abdicando al proprio potere di sospendere la Legalità sulla base di una Necessità politica, morale e umanitaria, la Democrazia Cristiana stava semplicemente rinunciando alla propria anima cristiana, riducendosi ad una grigia idolatria procedurale, incapace di esercitare la Sovranità (e perciò l’Eccezione) in nome di un bene più alto. In questo senso vanno i continui appelli alla Santa Sede, che avrebbe dovuto spingere lo Stato ad una rottura dell’ordinamento giuridico in materia di sequestri. Aldo Moro sperava dunque in un miracolo, ma non un miracolo impossibile che infrangesse le leggi della fisica, ma nel miracolo possibile della politica. Rifuggendo la soluzione politica, ovvero la soluzione cristiana, Moro profetizzò, la D.C. avrebbe perso l’anima. E perché lo fece? Lemà sabactàni? Scrive Sciascia:

Da un secolo, da più che un secolo, [lo Stato Italiano] convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli d’impunite malversazioni e frodi. Da dieci tranquillamente accetta quella che De Gaulle chiamò – al momento di farla finire – “la ricreazione”: scuole occupate e devastate, violenza dei giovani tra loro e verso gli insegnanti. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate Rosse, lo Stato Italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità?

 

Infine c’è l’ultima analogia cristologica: la coincidenza simbolico-istituzionale tra vittima e carnefice. L’archetipo del sacrificio del Re, o del suo rappresentante, il figlio prediletto, è pienamente rispettato. Aldo Moro viene lasciato morire dal partito di cui è presidente, e in qualità di presidente paga. Un ultimo paradosso: è la propria morte, il più alto crimine che Moro paga con la propria morte.