La mostra di Giovanni Albanese “Solo roba per bambini” è allestita fino al 16 marzo negli spazi della Fondazione Volume! a Roma. In basso, l’artista con una sua opera

Rottami con l'anima

Giuseppe Fantasia

Gli oggetti buttati o consumati dal tempo non sono morti. Li fa rivivere, come un moderno mago di Oz, Giovanni Albanese. Una mostra a Roma

Rottami, motori elettrici, oggetti consumati dal tempo, vecchi elettrodomestici, tecnologie minime e obsolete, oggetti di varia forma e natura assemblati e trasformati. Sono le “creature” dell’artista Giovanni Albanese, cose inutili solo all’apparenza da lui acquistate nei mercatini o spesso trovate agli sfasciacarrozze o per strada, vicino ai cassonetti, e che – grazie alla sua immaginazione e creatività – assurgono a nuova vita, si muovono negli spazi portando con sé il segno dell’età e di altre vite vissute. La sua è una ricerca continua, un creare instancabile che assomiglia a una magnifica ossessione ricca di qualità poetiche il cui fine ultimo sono soltanto le sorprese, lo spettacolo e l’emozione. Acquista, trova, raccoglie, prende, taglia, spezza, unisce, separa, incolla quei pezzi che insieme, a suo dire, formano una vita e non credergli è impossibile. Diventano personaggi speciali che non possono non ricordare l’automa Tic Toc, Testadizucca o lo Scarasaggio Sommamente Eccessivo creati dall’americano Lyman Frank Baum (1856-1919) per Il meraviglioso Mago di Oz, di cui, proprio di recente, la casa editrice Einaudi ha raccolto in un prezioso cofanetto – I libri di Oz – tutti i quattordici romanzi ambientati nello stesso mondo.

 

Un artista poliedrico. Di origini baresi, vive e lavora da anni a Roma. Ha realizzato anche due lungometraggi come regista

Anche Albanese, classe 1955, origini baresi ma da anni a Roma dove vive e lavora, ama prendersi ogni volta una grande libertà artistica che, sommata a una continua invenzione fantastica, a esilaranti giochi linguistici e a un’ambivalenza emotiva tra comicità, paura, malinconia, paradosso e poeticità, riesce a creare una giusta complicità con lo spettatore. Quelle opere, sono per lui dei veri e propri “figli che ho partorito piano piano”, spiega al Foglio in occasione della sua nuova mostra, “Solo roba per bambini”, ospitata fino al 16 marzo negli spazi della Fondazione Volume! in via San Francesco di Sales a Roma, nel cuore di Trastevere, ex bottega/casa di un vetraio trasformata per l’occasione in una vera e propria officina delle meraviglie.

 

Ha impiegato più di dieci anni a crearli e a riunirli tutti insieme, ma nel frattempo, da artista poliedrico qual è, ha fatto tante altre cose, tra cui l’opera Costellazione, presentata alla 54esima Biennale di Venezia e realizzata, come molte altre aventi la stessa tematica, con oggetti a lui molto cari a cominciare dagli anni Novanta, ovvero centinaia di lampadine a fiamma che simulano la luce delle candele votive, ritrovate poi in Sinfonia, un pianoforte a coda di fronte al quale sostavano cento estintori rosso fiammante, realizzato ed esposto alla sua personale al Museo Macro di Roma nel 2001. E’ stato all’Aquila dove ha regalato alla zona rossa del centro storico colpita da sisma l’installazione Sette Grandi Canestri, poi a Spoleto per Luci d’artista e per una personale a Palazzo Collicola, persino ai magazzini Mas di piazza Vittorio, oggi chiusi, simbolo di un’epoca romana che non c’è più. Ha fatto il regista di ben due lungometraggi, A.A.A. Achille (2003) – scritto con Vincenzo Cerami, con musiche di Nicola Piovani e con cui ha vinto il Giffoni Film Festival – e Senza arte né parte (2011), prodotto da Lumière con Rai Cinema per 01 Distribution.

 

Per il suo “Autoritratto”, l’artista si è rappresentato come una molla che non si ferma mai, con lampadine sempre accese

Ha viaggiato molto ed esposto anche a New York, al Chelsea Art Museum, ma ha scelto Roma come casa e come base ed è proprio lì che ama stare. “Questa città – ci spiega – è arte da sempre e ha attraversato diversi periodi… Quando arrivai negli anni Ottanta dalla Puglia, vivevo a San Lorenzo, un quartiere in grande fermento tra il pastificio Cerere e le piazze circostanti”, ricorda. “Tra i critici d’arte, Achille Bonito Oliva seguiva noi artisti, a volte ci scartava e le gallerie erano dinamiche. All’epoca, per un giovane artista come me, Roma era un crogiolo d’arte. Poi, con gli anni, la situazione è molto cambiata e questo rapporto gallerie-pubblico-artista si è affievolito fino a ritornare ultimamente di nuovo in vita. La grande bellezza sta comunque negli studi degli artisti visitabili da chiunque e dove tutti possono farsi un’idea”.

 

Aprire il proprio studio “è un atto del futuro”, ma non bisogna dimenticare che sono le persone che si espongono all’opera d’arte. Il suo, oggi, è poco distante dalla fermata Furio Camillo, all’Alberone, quartiere Appio-Tuscolano, zona sud est della Capitale, un enorme spazio luminoso dove Albanese “gioca” a modellare, formare e creare quelle che poi diventeranno le sue opere, “i miei compagni di vita”, “esseri con l’anima”, dei lavori che lo fanno assomigliare anche al costruttore di androidi di Blade Runner. Creature, le sue, che sono simpatiche o affettuose, a volte aggressive ma mai violente, “mute e chiassose, rigide, agitate, luminose, timide, sofferenti e serene”, come le ha definite Francesco Nucci, neurochirurgo e presidente della Fondazione Volume! (www.fondazionevolume.com) dove è ospitata la mostra. Si muovono in quegli spazi dove il rapporto diretto tra l’artista e lo spettatore è promosso con azioni di didattica rivolte a fasce differenti di utenti, incontri pubblici e iniziative congiunte con università e accademie.

 

Il suo studio è un enorme spazio luminoso dove “gioca” a modellare, formare e creare quelle che poi diventeranno le sue opere

Ad accogliervi troverete un grande tavolo da lavoro colmo di attrezzi e oggetti, “aggeggi che hanno dimenticato la loro utilità o complessità meccanica”, ma ognuno di loro è carico di emotività e dominato dalla necessità evidente di comunicare e di farsi notare. Un banco da lavoro su ruote carico di idee e di strumenti del mestiere diventa quindi il luogo dove avviene l’atto creativo e dove relitti senza vita suggeriscono l’intervento dell’artista demiurgo e parlano a chi sa prestare attenzione. “Quel carretto-museo è un pezzo del mio laboratorio e mi ricorda quello dell’ambulante sulla spiaggia, pieno di vestiti, di giochi o di cose da bere e da mangiare”, dice Albanese, qualcosa che è “solo roba per bambini”, come recita il titolo della mostra, perché sin da quel momento per il visitatore dovrà emergere lo stupore. “Il museo, spiega, mi ha dato sempre un effetto opprimente mentre i carretti sono una festa e questo in particolare l’ho voluto immaginare come un museo per rendere lo spazio stesso meno claustrofobico”, e mentre ci parla e ci fissa con i suoi occhi scuri da dietro gli occhiali da vista neri, non possiamo non pensare all’indimenticabile accrochage solo all’apparenza casuale di Maurizio Cattellan realizzato otto anni fa al Guggenheim di New York con le sue sculture pendenti dal soffitto.

 

Albanese prende pezzi meccanici usati per separare l’uva dai raspi e li trasforma in “grattugioni”, prende un paracadute in scatola e sdrammatizza quell’oggetto utilizzato in guerra in momenti di estrema necessità aggiungendovi un carillon con la musica di “tanti auguri” e c’è persino un marchingegno che riproduce un fulmine che suona.

 

“Mi piace lavorare con le cose morte, con le cose buttate che nessuno più si filerebbe, ed è proprio in quel momento che cominciano ad avere per me un interesse. Capisco che non le devo buttare perché parlano a prescindere da me”. “Non esistono oggetti muti, ma solo persone sorde che non li sanno ascoltare”, ha scritto l’attore e scrittore Ascanio Celestini nel testo che accompagna la mostra. Albanese cammina in mezzo a questo cimitero del presente, parla coi morti del suo Spoon River che possono essere elettrodomestici del passato, chiavi avanzate dalla galera come biciclette scassate. Ci parla e traduce per noi la loro lingua scomparsa e noi non possiamo che credergli.

 

“Mi piace lavorare con le cose morte, con le cose buttate che nessuno più si filerebbe. Iniziano allora ad avere un interesse per me”

“Questo è Pantani, ha un occhio solo verde che ricorda uno scarabeo, cammina su una bici che è quella di un bambino e cammina a tensione continua”, ci spiega quando ci spostiamo nello spazio dove il mondo rude di macchine d’acciaio e i materiali di recupero prendono il sopravvento. Vicino c’è Papero, un dondolo regalatogli proprio da Celestini (“penso che con te, rinasca”, gli disse), a cui ha aggiunto un paio di scarpe di Prada nere vintage da uomo e sembra che cammini. Giudice, in ferro e acciaio, ha due enormi palle in mano, Tredici due grandi orecchie e occhi che lo fanno assomigliare a un uomo-pesce molto simile a quello visto in The Shape of Water - La forma dell’acqua di Guillermo del Toro, ed è proprio nell’acqua che uno di quei personaggi fa dei buchi vicino a un altro “che fa girare le palle”, ad un Macho e a un Cinese che non poteva mancare, ci dice. Ci sono, poi, un Pazzo, il Dio della Fame, un Cecchino, un Violinista dove la roncola rappresenta un uccello (in gabbia) e Vota Antonio, realizzato con un grande grammofono comprato da uno zingaro e poi assemblato da un fabbro che gli ha dato quel nome. Cupola è un omaggio a Pablo Echaurren e il Cavaliere allo scultore Marino Marini, da cui Peggy Guggenheim acquistò L’Angelo della Città, una grande scultura raffigurante un uomo con il pene eretto a cavallo da lei voluto per la sua splendida casa sul Canal Grande, oggi museo. La Calcolatrice (è una Divisumma Olivetti con luce wood) è uno dei più suggestivi, simbolo di un vecchio mondo che risuona nella nostra testa vuota, tanto brillantemente nuovo quanto ingloriosamente vecchio, ma per il suo Autoritratto, l’artista si è rappresentato come una molla che non si ferma mai con lampadine sempre accese che come gli altri dettagli visti nei vari oggetti, rivelano le proprie debolezze ma emanano allo stesso tempo un chiasso silenzioso. Gli inestetismi, i segni del tempo ne mordono le carcasse e in tutti loro – in quel mondo di Albanese che per alcuni versi assomiglia alla Dismaland di Bansky – non c’è mai un racconto unico, ma un vociare confuso e corroso, veri e propri richiami di sopravvivenza. A Mamma – da lui realizzato venti anni fa – spetterà il compito di salutarvi alla fine del vostro percorso: è un’opera che emana luci soffuse di colore celeste, ma se a un certo punto sentirete un rumore, non spaventatevi e soffermatevi ancora un istante perché in realtà, se lo ascolterete meglio, non è un rumore ma una parola. Basta solo crederci.

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