Una scena del “Viaggio a Reims” (il tableau vivant dal dipinto di François Gérard) nell’allestimento di Damiano Michieletto visto ad Amsterdam, lo stesso che sarà a Teatro Costanzi, a Roma

All'Opera di Roma "Il viaggio a Reims"

Il venerato maestro del "barbiere," servitor di due sovrani

Marina Valensise

Un’opera che mette in scena diciotto bizzarri personaggi in attesa di un evento ma che è priva di una vera trama. Rielaborata, diventerà “Le comte Ory”

Ora che con la regia di Damiano Michieletto e sotto la direzione di Stefano Montanari arriva all’Opera di Roma Il viaggio a Reims di Gioachino Rossini, resuscitato trent’anni fa da Janet Johnson e Philippe Gosset, non so cosa darei per ascoltare l’Inno dell’Indipendenza che il Cigno di Pesaro compose giovanissimo su libretto del patriota Giambattista Giusti e diresse al Teatro Contavalli di Bologna il 15 aprile 1815, in onore di Gioacchino Murat re di Napoli il quale, dichiarata guerra all’Austria dopo aver tradito Bonaparte, chiamò gli italiani alla rivolta, presentandosi come alfiere dell’indipendenza d’Italia, per salvarsi il trono. Rossini all’epoca aveva appena 23 anni, ma aveva già bruciato le tappe che l’avrebbero portato a diventare il compositore più famoso del mondo, che dico? il mito vivente, la stella della musica e della lirica italiana, corteggiato dai teatri di tutta Europa, l’incarnazione del genio innovatore che nel volgere di pochi lustri aveva sconvolto e ricreato il mondo dell’opera. Di quell’Inno a Murat oggi però non resta traccia, come se non fosse mai esistito. E infatti, nel giro di un mese la situazione mutò. Murat, il generale bonapartista salito al trono di Napoli nel 1808 per volere dell’imperatore cognato (Carolina, sorella di Bonaparte, era sua moglie) e ormai insediato dal redivivo usurpatore dei Cento giorni, venne sconfitto. Ferdinando di Borbone rientrò trionfante al Palazzo reale di Napoli e lo spartito bonapartista di Rossini si volatilizzò, pur senza avere conseguenze sulla sua carriera, perché il Borbone restaurato sul trono rispettò tutti i contratti del predecessore e Rossini fece ritorno a Napoli dove l’aspettavano altri sette anni felici all’ombra dei gigli d’oro, come scrive Bruno Cagli nel libretto pubblicato dall’Opera di Roma.

 

Da Napoli a Parigi il passaggio sarebbe avvenuto naturalmente per l’uomo che attingendo di prima mano alle partiture di Mozart e di Haydn aveva fatto esplodere il teatro napoletano, facendo svanire persino l’ombra di Cimarosa e di Paisiello, che trent’anni prima di lui si era cimentato in un Barbiere di Siviglia ormai inudibile. Quel genio ludico della musica italiana, infatti, la Francia ce l’aveva nel cuore. Era figlio del Vivazza, alias Giuseppe Rossini, il cornista pesarese che aveva pagato col carcere la passione per la Francia giacobina, e di un’oscura sartina, cantante a orecchio in una compagnia di giro per riscattare la miseria col teatro, a differenza della sorella che invece preferiva il meretricio. La Francia, la rivoluzione, la conquista napoleonica, dunque, erano la prima patria di Rossini. “Senza l’invasione dei francesi in Italia io sarei diventato probabilmente farmacista o commerciante d’olio”, confesserà al suo biografo Alexis-Jacob Azevedo tre anni prima di morire. E il biografo chiosava: “Se Bonaparte non avesse conquistato l’Italia nel corso del 1796, e se i nostri valenti brigadieri non fossero passati a passo di carica per la pacifica cittadina di Pesaro, la testa del Vivazza non si sarebbe infiammata al contatto con le idee di libertà, eguaglianza, sovranità popolare, filosofia e libertà di coscienza (…) egli non si sarebbe compromesso con dei discorsi e forse con delle azioni politiche; gli austriaci, al tempo della reazione, non avrebbero avuto ragione né pretesto per metterlo in prigione; sua moglie e il suo figlioletto non sarebbero stati privati dello stretto necessario e la devota, la coraggiosa Anna non sarebbe stata costretta a diventare cantatrice teatrale per procurare il pane quotidiano alla propria famiglia… e il piccolo Gioachino, apparentemente più felice, non avrebbe lasciato all’età di sei anni la sua piccola città natale per andare ad abitare a Bologna, uno dei grandi centri musicali italiani, e non sarebbe vissuto in un’atmosfera essenzialmente teatrale e musicale necessaria al genio in germoglio”.

 

"Senza l'invasione dei francesi in Italia io sarei diventato farmacista o commerciante d'olio", confesserà al biografo

Allora è straordinario pensare che al culmine della gloria, dopo vent’anni di scorribande tra Bologna, Milano, Venezia, Roma, Napoli e una sequela di capolavori composti a tempo di record (nota è la lista, ma cito i più noti La cambiale di matrimonio, La scala di seta, La pietra del paragone, Tancredi, L’italiana in Algeri, Il turco in Italia, Il barbiere di Siviglia, Otello, Cenerentola, La gazza ladra, il Mosè in Egitto, La donna del lago, Bianca e Faliero, Maometto secondo, Zelmira, Semiramide), Rossini approda a Parigi per ricevere, nel 1824, dalla restaurata monarchia dei Borbone il prestigioso incarico di direttore del Théâtre des Italiens, e l’anno dopo la commissione di una cantata scenica per celebrare la consacrazione e l’incoronazione nella cattedrale di Reims del nuovo e vecchio re dei Francesi Carlo X, il duca di Artois, assurto al trono in seguito alla morte del fratello Luigi XVIII, trentadue anni dopo il regicidio che aveva mandato sulla ghigliottina l’altro fratello Luigi XVI, ultimo sovrano di Ancien Régime.

 

La cantata diventerà dunque Il viaggio a Reims, la cui partitura è stata riesumata dagli archivi di mezza Europa e miracolosamente ricostruita da due studiosi americani ingaggiati dalla Fondazione Rossini di Pesaro, per essere riproposta per la prima volta al Festival rossiniano del 1984 nella memorabile edizione diretta da Claudio Abbado, con un cast d’eccezione, la regia di Luca Ronconi e i costumi di Gae Aulenti. Dramma giocoso in un atto unico, Il viaggio a Reims mette in scena diciotto personaggi assurdi, dai nomi rivelatori, in attesa di un evento ma senza una trama: la contessa di Folleville, fashion victim parigina, il tedesco barone di Trombonok, patito di musica, il conte di Libenskof, generale russo impetuoso e perdutamente innamorato della marchesa polacca Melibea, vedova di un italiano e a sua volta insidiata da un don Alvaro, grande di Spagna, don Profondo, gentiluomo pontifico e antichista pedante con la mania del collezionismo, don Prudenzio, medico alle terme di Plombières, e infine Corinna, la poetessa romana che declama versi d’amore e gloria, davanti al suo spasimante inglese, Lord Sidney, e alla sua giovane protetta greca Delia. C’è insomma l’Europa intera, l’Europa colta, mondana, cosmopolita, pronta a partire per l’incoronazione di Carlo X, ma costretta all’attesa che rende tutto ridicolo, mentre ogni cosa congiura al brio, al divertimento, alla presa in giro di un rituale anacronistico con cui il nuovo-vecchio re dei francesi tenta di rilanciare fuori tempo massimo i sacri crismi della monarchia assoluta, e ritrovare la grazia della regalità di diritto assoluto, per conciliarla con la Costituzione e lo stato di diritto. Combinazione impossibile. E però, vaccinato dal Vivazza, Rossini della politica e del potere se ne era sempre fregato, perché aveva una sola idea in mente, e quest’idea era la musica, il teatro, il recitar cantando.

 

Si capisce allora come mai, pronto a servire il regnante di turno, passi senza scomporsi dall’Inno dell’indipendenza dell’Italia sotto Gioacchino Murat alla cantata per Le nozze di Teti e di Peleo, e cioè il matrimono dinastico celebrato nel 1816 tra il duca di Berry, erede al trono di Francia, e Maria Carolina di Borbone, nipote di Ferdinando I e figlia del futuro re Francesco I. E soprattutto si capisce come mai, appena arrivato a Parigi, abbia accettato di celebrare il Sacre di Carlo X, anche se a modo suo, con una punta di irrisione, col senso dell’assurdo e l’innocenza del napoletano gioviale, animato da quell’intelligenza scettica di un popolo che ne ha visti passare troppi per prenderne sul serio qualche altro…

 

All'età di sei anni lasciò la sua città natale per andare ad abitare a Bologna, uno dei grandi centri musicali italiani

Ma andiamo con ordine, perché il primo soggiorno di Rossini a Parigi ha un che di romanzesco e va raccontato a dovere. Il compositore arrivò ai primi di novembre del 1823, preceduto dal bestseller di Stendhal, Vie de Rossini, un’autofiction su un personaggio vivente e un mito vero, fatta di molte invenzioni e di tante verità profonde. Con lui c’era sua moglie Isabella Colbran, grande soprano ormai in declino, ex amante dell’impresario Domenico Barbaja, e di otto anni più vecchia. I due erano diretti a Londra, dove li aspettava un’intensa stagione al King’s Theatre. Due giorni dopo, appena Rossini comparve in teatro per assistere alla recita del Barbiere, venne acclamato dal pubblico al grido “Vive Rossini”, e il soprano Laura Cinti-Damoureau gli rese omaggio cambiando le parole del libretto nell’aria in cui Rosina si rivolge al tenore suo innamorato, il conte d’Almaviva, travestito da maestro di musica, sostituendo “il giovane gran genio” a ”l’inutil precauzione”. Altro tripudio.

 


 

 

Un ritratto di Gioachino Rossini conservato al Museo bibliografico musicale di Bologna. “Il viaggio a Reims” è in programma al Teatro dell’Opera di Roma dal 14 al 14 giugno


 

Dopo la recita del Barbiere, l’editore musicale Antonio Pacini, il pubblicista Félix Bodin, e il musicologo e giornalista Castil Blaze avevano offerto in onore dei Rossini una cena “Au veau qui tette” il famoso ristorante sulla Place du Châtelet. Le sale erano decorate da ghirlande di fiori, medaglioni con i titoli delle principali opere rossiniane riprodotti in forma di petali. Rossini e la Colbran furono accolti al suono della sinfonia della Gazza ladra, fra gli applausi del Tout Paris. A festeggiarli c’erano il compositore Daniel Auber, lo scenografo Cicéri, cantanti famosi come star di Hollywood, avverte Gaia Servadio (Gioachino Rossini. Una vita, Flaccovio 2004 e Feltrinelli 2015), Laura Cinti, Giuditta Pasta, Manuel García, padre della futura e celeberrima Maria Malibran, François-Joseph Talma, attore di teatro e primo divo nella storia, che si mise a declamare versi di tragedie classiche. “Un re non avrebbe avuto maggiori onori”, mormorò la Colbran soddisfatta. Fra i 150 invitati c’era anche il pittore Horace Vernet, uomo di spirito e anche lui mondanissimo, che sei anni dopo sarebbe stato nominato direttore dell’Accademia di Francia a Villa Medici e quella sera era accompagnato dall’amante in carica e modella, Olympe Pélissier, una bruna prosperosa e un po’ musona, soprannominata “Madame Rabat-Joie”, che però passava per una delle più seducenti cortigiane della città: ceduta a Eugène Sue e passata poi per le lenzuola di Balzac che la dipingerà nei panni di Fedora in La Peau de chagrin, pochi anni dopo, tramontata la Colbran come voce e come sposa, Olympe sarebbe diventata la seconda moglie di Rossini e la fedele sua infermiera sino alla morte.

 

L’eco della serata parigina fu tale che il librettista preferito di Auber, Eugène Scribe, compose col musicista Edouard Mazères un vaudeville in un atto unico, Rossini à Paris ou le grand dîner, dove un locandiere Biffteakini progetta una grande cena in onore del “divin Rossini”, con la figlia aspirante cantante ma negata, un giovane studente che sogna di mettere in scena opere francesi, e viene scambiato per il compositore italiano… Invitato alle prove generali che si tennero appena due settimane dopo al Théâtre du Gymnase, Rossini, che era un tipo gioviale, si divertì da matti. Mondanissimo, non ancora depresso, suonava e cantava nei salotti parigini, e forse partì un po’ a malincuore per Londra, dove l’aspettava la tournée organizzata non dal suo impresario Barbaja, attivo ormai in tutta Europa, ma da un agente improvvisato e un po’ losco, tale Benelli, con cui finirà a carte bollate. Anche a Londra, a parte la nevrastenia provocata dal battello a vapore, le soddisfazioni per Rossini furono grandi. Osannato dalla stampa, Rossini conquistò la corte di San Giacomo e persino il re Giorgio IV, che con la sua voce da basso profondo lo invitò al Royal Pavilion di Brighton, per cantare insieme a lui e, come ricorda Vittorio Emiliani (Il silenzio e il furore, il Mulino 2007), finì la serata prendendolo a braccetto come un vecchio amico.

 

Nell’estate del 1824, Rossini torna a Parigi con in tasca un contratto di direttore musicale e artistico al Théâtre Italien, siglato all’ambasciata francese a Londra, che sarà poi perfezionato nel novembre dello stesso anno. Rossini potrà organizzare il cartellone a gusto suo, organizzare gli spettacoli in collegamento con l’Opéra, reclutare gli interpreti, in cambio di un compenso di 20 mila franchi annui, che includeva un alloggio di servizio al 10 di Boulevard Montmartre e un supplemento tra i 5 e i 10 mila franchi per una nuova opera in uno o due atti. A offrirgli questo lucroso contratto, su sollecitazione di Chateaubriand, vecchio fan di Rossini sin dai tempi del Congresso di Verona, sarà il visconte Louis François Sosthène de la Rochefoucauld, più tardi duca di Doudeauville, direttore generale per le Belle arti e legittimista di comprovata fede. Alto magro, ieratico, Sosthène de la Rochefoucauld figurerà fra i personaggi del Sacre de Charles X, il dipinto che egli stesso commissionò al barone François Gérard, che era stato il ritrattista di Bonaparte, di Talleyrand, della bella indiana amante e poi moglie di quest’ultimo e di tutta l’élite bonapartista e non. Bisogna celebrare anche con la pittura la consacrazione del nuovo re, e il dipinto di Gérard nell’allestimento del Viaggio a Reims in programma al Teatro Costanzi diventa a poco a poco il tableau vivant in cui culmina la spettacolare messa in scena di Michieletto.

 

L'opera riesumata dagli archivi di mezza Europa e ricostruita da due americani. A Pesaro nell'84 la prima rappresentazione moderna

“Rossini lavorò, consiglio, diresse e l’opera fu rigenerata”, scriverà nei suoi Mémoires il duca de la Rochefoucauld-Doudeauville. Avendo mano libera, il geniale compositore diventato direttore di un teatro realizzò un piano organico per sollevare le sorti dell’opera francese. Scelse grandi tenori, scenografi di grido, come quel Cicéri di origine italiana, tenuto a progettare in largo anticipo tutti gli allestimenti, promosse la formazione musicale dei cantanti, ampliò l’organico dell’orchestra, potenziò il corpo di ballo, gettando le basi del Grand Opéra. Il viaggio a Reims, in fondo, non fu che la ciliegina sulla torta, un’occasione per celebrare la monarchia restaurata dopo il Sacre di Carlo X, celebrato a Reims la domenica 29 maggio 1825 e seguito il 6 giugno da un solenne corteo reale a Parigi. E del resto non fu l’unica occasione, stando alla serie di spettacoli sottratti all’oblio da Janet Johnson (cfr il suo libro fondamentale, Rossini in Restoration Paris. The Sound of Modern Life, Cambridge University Press) che vennero allestiti in contemporanea al Teatro Séveste, al Teatro d’Elèves, all’Opéra comique, all’Odèon, oltre ai versi di Victor Hugo e quelli più sediziosi del repubblicano Béranger. Ma di sicuro l’opera di Rossini fu l’unica che riuscì a sfidare il tempo.

 

La prima rappresentazione avvenne il 19 giugno al Théatre Italien. Il librettista Luigi Balocchi, un sessantenne che da anni viveva a Parigi, si ispirò a Corinne ou l’Italie, romanzo semiautobiografico sui dilemmi nord-sud e la passione tra un protestante scozzese e una cattolica romana scritto da Madame de Staël, la figlia dell’ultimo ministro di Luigi XVI, il banchiere Jacques Necker, egeria del partito liberale, amica di tanti emigrati, costretta all’esilio da Napoleone, e tornata in auge con la Restaurazione. Così, la prima opera composta da Rossini a Parigi ebbe subito un grande successo com’era prevedibile, e lo ebbe grazie al cast straordinario di cantanti scelti per ognuno dei personaggi, bloccati all’albergo del Giglio d’oro di Plombières, in attesa di bagagli che non arrivano mai, di carrozze che si rovesciano, di cavalli che non si trovano, mentre ingannano il tempo con minuetti e prese in giro che però nessuno capiva, a cominciare dal re che assistette alla prima, e non parve molto partecipe. “Non si divertiva per niente” , scrisse quella malalingua di Castil-Blaze. Date le circostanze, dopo appena tre repliche Rossini ritirò la partitura per rifonderla tre anni dopo in Le comte Ory. Per centosessant’anni del suo Viaggio a Reims non si seppe più nulla, fino alla riscoperta dei due studiosi americani che con pazienza da certosini ricostruirono lo spartito, restituendo ai melomani, ai patiti di Rossini, agli amanti del belcanto un tesoro inestimabile che oggi si contendono i migliori teatri lirici del mondo.

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