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Le rovine di Parigi

Francesco Maselli

Aurélien Bellanger, “scrittore urbanista”, spiega perché la capitale della Francia è pronta, tra i conflitti, per una nuova rivoluzione

Parigi è una delle città più raccontate nella letteratura moderna e contemporanea. A volte come sfondo, altre come vero e proprio personaggio, la capitale francese da sempre ispira scrittori e poeti. Eppure, ciò che viene descritto è spesso soltanto il centro, la città relativamente piccola rinchiusa nel Périphérique, la tangenziale circolare che delimita i confini del comune. Al centro, ogni tanto, viene opposta la banlieue, altro oggetto letterario che vive soltanto in funzione del contrasto tra le cité, i quartieri popolari moderni, e i palazzi haussmaniani dei primi arrondissement. Aurélien Bellanger, uno degli scrittori francesi

La città non è costruita per parlare agli uomini ma al divino. E’ troppo grande per essere soltanto il frutto di decisioni umane

emergenti più famosi, ha provato a fare un esercizio diverso. Il suo ultimo romanzo, Le Grand Paris, tratta la capitale come una città di dodici milioni di abitanti, dove non è così profonda la differenza tra centro e periferia: “Molti dei personaggi che amiamo nella letteratura francese passeggiano per Parigi – ci spiega Bellanger, che ha accettato di rispondere a lungo alle nostre domande – ma mai nessuno passeggia nella “Grande Parigi”. Me compreso, sono cresciuto in una banlieue molto tranquilla e oltre al mio quartiere conoscevo bene il centro, non tutto il resto. E a un certo punto ho cominciato a pensare che mi piacerebbe molto abitare in una metropoli di 12 milioni di abitanti. Voglio dire: perché no? Non voglio vivere in una città museo. Volevo raccontare che si può cambiare scala quando si parla di Parigi: questa città esiste ma facciamo finta di non vederla. Quando si parla di New York non si cita soltanto Manhattan, Londra non è Piccadilly Circus. Perché Parigi deve essere limitata a cento chilometri quadrati quando è dieci volte più grande? Ho iniziato a camminare per ore nelle banlieue, a setacciarle con la bici, con le metropolitane, con gli autobus. Ho scoperto un mondo e ho voluto raccontarlo”.

 

Per Bellanger la città non è soltanto un luogo da raccontare, uno sfondo dove si muovono i suoi personaggi. Lo scrittore coglie qualcosa di più nel paesaggio urbano, che nei suoi libri diventa quasi un oggetto trascendente: “Le città non sono fatte per parlare agli uomini ma per parlare al divino. Una metropoli è un oggetto troppo grande per essere semplicemente il frutto di decisioni umane. Sappiamo che non è che questo, ma in realtà è più di questo. L’urbanismo è interessante: non è una scienza, non è considerato serio come l’architettura, eppure il suo prodotto tocca il divino. Le città sono i più grandi oggetti che l’uomo è in grado di fabbricare. Sono dei vascelli spaziali nei quali abbiamo deciso di viaggiare: oggi l’umanità vive in aree urbane, il nostro destino è legato al loro. Le città sono vettori di progresso, tutto dipende dalle città”. La modernità è uno dei temi ricorrenti del romanzo, ed è uno dei concetti sui quali Bellanger ama soffermarsi di più. Modernità e Parigi, per la verità, sono legate in tutto l’immaginario francese. “Atene ha costruito il Partenone, Parigi ha distrutto la Bastiglia”, scriveva Victor Hugo, nella sua guida della capitale scritta nel 1867: “Il più grande avvenimento della storia moderna è la rivoluzione. E la rivoluzione si produce a Parigi non per caso – si affretta subito ad aggiungere Bellanger – il mondo moderno nasce qui più che a Londra, ed è un fatto del quale andiamo molto fieri. Ma ha una conseguenza: Parigi si è ‘eternizzata’ ed è diventata una sorta di ‘conservatorio della modernità’. Già Baudelaire si rende conto che Parigi è la capitale della modernità ma allo stesso tempo è il museo di quanto è già avvenuto, perché la funzione storica, e cioè decapitare il re nel 1793, è ormai stata assolta”. Ecco perché, continua lo scrittore, il centro storico, conservato benissimo e continuamente fotografato, raccontato, dipinto e decantato non basta più. In nessun posto al mondo la capitale si identifica con il suo centro storico, spiega lo scrittore.

 

Siamo l’unico paese ateo al mondo, in Francia essere moderno
è sinonimo di essere ateo. Forse
per questo non capiamo l’islam

Grand Paris non è soltanto il titolo del romanzo di Bellanger o l’insieme del centro e della periferia parigina. E’ soprattutto il nome della metropoli del futuro e del progetto faraonico del Grand Paris Express, una metropolitana completamente automatizzata dal costo di 30 miliardi di euro che connetterà le periferie tra loro: “Il Grand Paris Express è un’idea molto francese: nella nostra concezione del potere giacobino e tecnocratico le soluzioni di infrastruttura, quindi delle soluzioni tecniche, risolvono i problemi di integrazione metropolitana”, ragiona Bellanger e la conversazione si sposta, inevitabilmente, sulle rivolte del 2005. Il 27 ottobre di quell’anno, a Clichy-sous-Bois, un comune della banlieue parigina, due ragazzini in fuga dalla polizia morirono fulminati dopo aver cercato di nascondersi in un trasformatore dell’elettricità, scatenando giorni di proteste e di guerriglia urbana. I fatti marcarono profondamente l’opinione pubblica e la politica: per sedare le rivolte fu dichiarato lo stato d’emergenza, mai utilizzato fino a quel momento sul territorio della Francia metropolitana dalla guerra d’Algeria, e le immagini delle periferie messe a ferro e fuoco fecero il giro del mondo. Per Bellanger, il 2005 è un tornante storico: “Il Grand Paris è una macchina che abbiamo fabbricato per salvare la Quinta Repubblica. Il problema delle periferie tocca un po’ tutte le città europee ma ha preso delle proporzioni più importanti in Francia a causa di legami coloniali e quindi del peso della popolazione magrebina. Le élite hanno capito che bisognava dare una risposta: ecco il perché del progetto”.

 

Possibile che sia soltanto una risposta alla cosiddetta “bomba sociale”? Non c’è qualcosa di più, di simbolico, nel voler ampliare la propria capitale, aprire il centro alla periferia non per salvare il passato ma per guardare al futuro? “C’è anche questa dimensione, certo. La Francia vive del complesso di essere una grande potenza media. La sola cosa che le consente di competere ancora, si dice, è Parigi. Il Grand Paris è quindi il modo nel quale un paese in declino che può ancora dire: non siamo in declino. L’ultimo colpo di poker di un paese che crede di poter affermare: possiamo farcela”. Il progetto fu annunciato dopo una serie di traumi, continua Bellanger, che prova a rimettere in prospettiva la rivoluzione urbanistica che proprio in questi mesi ha visto l’apertura dei primi cantieri: l’obiettivo è avere parte della metropolitana e delle nuove infrastrutture in tempo per le prossime olimpiadi: “All’inizio degli anni Duemila l’immaginario dei parigini è influenzato da due fenomeni. In primo luogo ci si rende conto che Londra è diventata super attrattiva, tutti i migliori laureati delle nostre università vogliono trasferirsi lì, è nella capitale inglese che si è spostata la modernità, è nella city che si continuano a costruire i grattacieli

Nel 2030 sarà completato
il Grand Paris Express, la faraonica opera ferroviaria che farà di Parigi una vera megalopoli

quando Parigi ha smesso di farlo negli anni Ottanta. Nel 2005 Londra vince la candidatura alle Olimpiadi del 2012: non soltanto gli inglesi ci rubano i laureati, ma anche le manifestazioni internazionali!”, continua lo scrittore. “Il secondo motivo è l’ascesa della Cina: vedevamo città cinesi spuntare fuori dal nulla e sbatterci in faccia la loro capacità di costruire, come se niente fosse, cinque Défense al giorno. Il Grand Paris è una sorta di argomento per fermare il declino, e il declino è precisamente il tema sul quale Sarkozy vince le elezioni nel 2007: ‘C’è il declino, scegliete me e ci riprenderemo’. Quella campagna elettorale fu molto istruttiva anche per questo”. Nicolas Sarkozy, presidente dal 2007 al 2012, è uno dei personaggi principali del romanzo di Aurélien Bellanger. Il ritratto è molto accurato, alcune scene del libro, che riprendono i suoi interventi in televisione da candidato prima e da presidente poi, sembrano trascritti dai talk-show dell’epoca (Bellanger ci assicura di no). Il Sarkozy di Bellanger, mai nominato nel romanzo, dove appare come Le Prince, il Principe, è profondamente influenzato da un altro personaggio, Machelin, l’intellettuale di sinistra che alla fine della propria carriera diventa l’ideologo più ascoltato dalla destra. Un’evoluzione politica molto frequente, in Francia come in Italia. E, anche qui, la dimensione sacra ritorna, sia nel romanzo che nella nostra intervista. Machelin è ispirato a Machiavelli, come può essere facile capire dal nome, ma è allo stesso tempo una sua nemesi: “E’ Machiavelli che ha inventato la politica moderna. E’ grazie al filosofo italiano che si riduce la sacralità del potere e lo si lega all’efficacia. Machiavelli è il punto di estrema laicizzazione della politica. Il ruolo di Machelin, invece, è riaprire il dibattito: far capire al Principe che la religione può avere un ruolo formidabile se utilizzata a fini politici”.

 

Secondo Bellanger è proprio Nicolas Sarkozy che ha riaperto il dibattito religioso in Francia. Una circostanza che contraddice implicitamente il messaggio del candidato, che si faceva portavoce della modernità: “Ho voluto raccontare l’ascesa di Sarkozy perché è il politico che più di tutti ha strumentalizzato l’islam. E’ Sarkozy che pensa il progetto del Grand Paris, è Sarkozy che si presenta come colui che può riportarci nel mondo moderno, è Sarkozy che riapre il dibattito religioso in Francia, tema che sembrava archiviato da decenni. Se si vuole raccontare l’evoluzione di Parigi degli ultimi anni, i suoi problemi con la religione e con l’integrazione, non si può non partire da Sarkozy. Siamo l’unico paese ateo al mondo, in Francia essere moderno è sinonimo di essere ateo: in nessun altro posto è così. Sarkozy ribalta il concetto, si appropria del religioso e capitalizza enormemente agitando uno scontro non necessariamente reale”. E l’islam che rapporto ha con la modernità? La religione musulmana ha un ruolo importante nella storia, ruolo che per motivi di trama non possiamo svelare fino in fondo: “Bisogna un attimo abbandonare la nostra visione dell’islam politico, con il quale ci sono evidentemente dei problemi: porta avanti delle idee totalitarie, per questo efficaci e molto pericolose. Se ci concentriamo però sull’islam religioso e ‘disinteressato’, ci accorgiamo che non ha alcun problema con la modernità! Ci piacerebbe molto ne avesse, ma non ne ha. L’esempio è vedere Dubai o altre città moderne: credevamo che per avere città moderne bisognasse essere atei, e invece loro non sono atei e costruiscono cose modernissime. L’equazione tipicamente francese è messa in discussione da questa religione: è uno dei motivi per cui non la capiamo”. 

 

Sarkozy, Le Prince, è uno
dei personaggi principali
del romanzo di Bellanger. Il politico che più di tutti ha voluto cambiare Parigi

Eppure è innegabile che in questo momento storico l’islam sia legato all’oscurantismo, l’idea di modernità non è immediatamente associata alla religione musulmana: “Ragioniamoci un secondo – risponde subito Bellanger – il costo intellettuale per diventare musulmani è molto basso rispetto al costo di diventare cristiani. Il credo è una sorta di delirio: nessuna persona razionale può credere a quella preghiera. Posso sembrare brutale, ma l’islam è molto più semplice, non chiede di mettervi in gioco dal punto di vista intellettuale: Dio ha creato il mondo, Maometto è il profeta che ci ha rivelato la sua parola, ma in fondo il Corano è un codice di comportamento. Potremmo farne tranquillamente a meno ed essere lo stesso buoni musulmani. Il cattolicesimo è molto più complicato, la sua costruzione metafisica è incredibile: se la cultura europea è così profonda, così affascinante e così legata alla simbologia lo deve al cristianesimo – ragiona Bellanger – quello che ho provato a raccontare, nel mio ultimo libro, è che in un’epoca di secolarizzazione estrema l’islam può rivelarsi molto attrattivo: è più compatibile con il grande racconto scientifico, la religione del nostro modernismo declinante, rispetto al cattolicesimo”. Se nel 2018 si parla di Francia, di Parigi e di modernità, è inevitabile citare Emmanuel Macron e la sua visione del paese startup, che sembra essere quanto di più vicino al futuro che immaginiamo nelle nostre città. Bellanger concede che sì, Macron è per molti versi un soggetto moderno, ma non necessariamente in fase con la modernità à la française: “Non credo che il suo concetto di ‘startup nation’ sia adatto. Non siamo americani, mica tutti i francesi vogliono essere imprenditori, non bisogna dimenticare che siamo un paese di funzione pubblica, piuttosto egalitarista. E infatti è interessante vedere che la modernità, l’innovazione, non è un’emanazione della società civile ma dello stato. Nel nostro immaginario è il potere pubblico che porta la modernità: Versailles, Colbert, la bomba atomica, il Tgv, sono fatti dallo stato. Il progresso non è altro che il razionalismo dello stato. La modernità è la religione nazionale francese e il Grand Paris è di fatto un puro oggetto di culto dello stato centralizzatore che continua a offrirci delle ragioni per essere ammirato”.

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