La copertina di "Tutto quello che è un uomo", di David Szalay (Adelphi)

Non leggete saggi per capire la crisi dell'uomo occidentale, ma questo romanzo

Michele Silenzi

Nessuna rivelazione, nessun mistero da scoprire o in cui sperare: la bellezza di "Tutto quello che è un uomo" di David Szalay

Se ci si ferma in libreria, o su Amazon, a guardare le uscite di saggistica dell’ultimo anno e mezzo, è tutto un florilegio di titoli che parlano, ancora, della crisi dell’occidente, dell’Europa post-Brexit, di Trump, di tutti i populismi vari eventuali o presunti. Che venga da destra o da sinistra o da qualche altra parte, l’analisi è sempre assimilabile alla precedente o alla successiva. Le conclusioni, tutte diverse, tutte ugualmente inconcludenti. Si analizzano i macrosistemi, si cercano d’individuare le cause, si proiettano conseguenze che sono già superate al momento dell’uscita del libro. Si parla ancora e sempre di crisi, mentre l’odore di narcisismo accademico o di praticume giornalistico che sale da quelle pagine fa passare la voglia di leggerle.

 

Ma da tutte queste analisi di macrodati, aggregati statistici e generalizzazioni varie manca del tutto l’individuo. Chi sono gli individui europei contemporanei? Cosa condividono? Quali sono i loro pensieri, le loro storie? E' questa la cosa più importante, forse anche la più interessante, sicuramente quella che manca. O che mancava. Il libro Tutto quello che è un uomo, di David Szalay, pubblicato in Italia da Adelphi, con il suo titolo ambiziossimo, smaccatamente oltre qualsiasi argine di sciatto minimalismo (sebbene molto essenziale nella scrittura), colma in modo sorprendente questa mancanza. Nel libro si raccontano le storie, in pochi giorni, in momenti normalmente cruciali delle loro vite, di nove individui, nove uomini, in mesi diversi, dall’estate all’inverno, stagioni che corrispondono a quelle delle loro vite. Dall’estate dell’esistenza ai giorni, appena prima di Natale, in cui il tempo è gelido e livido, breve e definitivo, in cui la luce sembra spegnersi. 

 

Le storie, sempre di uomini europei che si spostano da un paese all’altro del vecchio continente, sono unite da una sensazione comune nei confronti della vita, da un sentimento spaventosamente identico, ma diversissimo nella sua declinazione, tanto a diciassette anni quanto a settanta, di perplessa stupita estraneità rispetto a quest’epoca che vivono come schegge senza riferimenti e senza traccia di spiritualità ma con una sorta di muta e inarticolabile tensione verso la fine. Non importa che si racconti di un giovane ungherese che fa da guardia del corpo a una prostituta a Londra di cui si innamora, di un oligarca russo che ha perso tutto, di due studenti inglesi in interrail a Praga. 

 

Il realismo assoluto dello stile e del racconto si fa quasi onirico nella sua normalità, nella sua ineluttabilità. Il futuro sembra essere rimosso, assorbito da un eterno presente che domina su ogni cosa e non lascia spazio al futuro. I figli, infatti, quando si può scegliere, si preferisce abortirli. O, se esistono, sono figure sbiadite, che stanno sullo sfondo. Le chiese sono gusci vuoti, si visitano come musei. La religiosità è perduta, dimenticata, innominata. Si avverte una malinconia per la sua assenza aumentata dalla vaghezza, quasi indifferente, del suo ricordo.

 

Resta solo un profondo attaccamento alle cose, a tracce di bellezza, una piccola ricerca di piacere per arginare la normale disperazione dello scivolare via del quotidiano. Viene forse da qui il sentimento di perdita inevitabile che riempie ogni pagina del libro e che nessuna cosa, per quanto meravigliosa, riesce a colmare. Perché ogni cosa è fatta per decadere, sparire, distruggersi.

 

Il protagonista dell’ultimo racconto, un anziano inglese malato trasferitosi in Italia, vicino Ravenna, steso sul letto di un’ospedale ripensa a un’iscrizione letta sul porticato di un’antica abbazia, Amemusaeternaet non peritura. Pochi giorni prima era ritornato anche alla Basilica di Sant’Apollinare Nuovo. Aveva visto le figure perfette, allineate una accanto all’altra, dei mosaici sopra la navata centrale. E, tra di esse, “l’immagine straordinaria di tendaggi che si aprono come per mostrarci qualcosa – peccato che non c’è niente, solo una piatta superficie d’oro, una sorprendete distesa di semplice tessere dorate.” Nessuna rivelazione, nessun mistero da scoprire, o in cui sperare.

 

Cosa resta alla fine di questo svolgersi di vite diverse in mesi che vanno dall’estate all’inverno più buio? Nulla? Non sarebbe esatto. Il nulla è già qualcosa. Qui resta la sospensione indefinita di vite incompiute, da cui ogni ricerca di un senso sembra scomparsa. Resta il crepuscolo, in una grande strada, con una luce sbiadita dal termine certo che annuncia la notte.