In nome dell'antifascismo non si può censurare la cultura

Dino Cofrancesco

Il caso dell'invito ritirato da parte della Fondazione Feltrinelli al filosofo e scrittore Alain de Benoist e la necessità di capire la genesi della nostalgie totalitarie

Guastato da una formazione intellettuale storicista, non ho mai creduto che tutti i conflitti sociali, politici, culturali possano risolversi col metodo del dialogo e della non violenza. Non vivrei sotto un regime totalitario – o semplicemente autoritario e poliziesco – neppure se mi si garantissero gli agi dei sultani delle Mille e una notte ma ciò non m’impedisce di riconoscere che anche le dittature più spietate – almeno in società caratterizzate da un certo livello di civilizzazione – hanno conosciuto una qualche forma di consenso. Questo significa che, quando vengono abbattute, restano sempre dei nostalgici che non pensano alle carceri, alle torture riservate agli oppositori politici, ai campi di prigionia (dei quali non sapevano o forse, per una indubbia forma di vigliaccheria, non volevano sapere nulla) ma ai suoi ‘lati buoni’, alle loro realizzazioni sociali, ai riassetti urbani, al ‘mantenimento dell’ordine’.

 

Per quanti li rimpiangono, gli esiti disastrosi che misero fine ai regimi totalitari non erano iscritti – come tendiamo a pensare noi, democratici liberali – nella loro natura, ma furono causati da ‘degenerazioni’ di uomini, da errori di valutazione, dalla progressiva distanza dei leader non tanto dal popolo quanto dalla loro gente, ovvero dal partito o meglio dagli apostoli e discepoli della prima ora.

 

Nessun comunista serio esalta lo sterminio dei kulaki o le centinaia di migliaia di russi perseguitati da Stalin come ‘nemici del popolo’ anche quando si trattava di socialrivoluzionari o di bolscevichi non ortodossi. Alla stessa maniera non credo che Casa Pound – per quella parte della sua dottrina e dei suoi miti che si richiama al fascismo (ma, a mio avviso, la sua fonte d’ispirazione è piuttosto la rivoluzione conservatrice’) – faccia l’apologia del genocidio ebraico e riediti i testi sacri dell’antisemitismo francese – a cominciare da Le juifs rois de l’époque (1847), di Alphonse Toussenel, un discepolo di quel Proudhon, che voleva ributtare gli ebrei in mare: l’antisemitismo duro nasce a sinistra, nella sinistra non marxista carica di odio nei confronti della finanza.

  

Se questo è vero, non si comprende come la più alta carica dello Stato abbia potuto stigmatizzare gli Italiani (e sono tanti) ancora oggi convinti che il fascismo ha pur fatto qualcosa di buono – per ironia della sorte, nello stesso giorno un bel documentario della tv pubblica rendeva omaggio agli architetti che avevano progettato l’Eur... se è apologia di reato elogiare le opere del regime – dall’ONMI alle bonifiche pontine – dimenticando le infami leggi razziali del ’38 e l’Asse Roma-Berlino, dovrebbe essere apologia di reato, altresì, ricordare le grandi realizzazioni del regime sovietico (non pochi tassisti a Mosca ve ne parlano), dimenticando i processi di Mosca, la Siberia, il mondo del Sole ingannatore, il film di Nikita Sergeevič Michalkov (1994), ambientato negli anni terribili dello stalinismo (il film ha avuto scarsissima circolazione in Italia et pour cause!).

 

Recentemente un saggista di elevato spessore intellettuale e di grande dottrina ma lontanissimo dal mio universo liberale, Alain de Benoist, era stato invitato dalla Fondazione Feltrinelli a tenere una lezione per il ciclo di incontri What is Left/What is Right. Apriti cielo! La solita "clique haineuse" ha fatto circolare un manifesto di indignados che ha costretto la Fondazione a fare marcia indietro. L’accusa a de Benoist è quella di teorizzare una versione aggiornata del fascismo, il nativismo, per il quale una società che accolga troppi individui e gruppi etno-culturali diversi rischia la perdita della propria identità storica. E’ un’opinione che sicuramente è in contrasto con l’illuminismo dei diritti universali ma perché non può essere discussa alla stregua, ad esempio, della teoria della decrescita felice (per noi vetero-liberali assurda)?

 

  

Nel paper inviato alla Fondazione Feltrinelli, de Benoist così sintetizza la tesi che avrebbe esposto a Milano: "Le trasformazioni sociali profonde indotte dai mutamento del sistema capitalista" hanno reso obsoleta la dicotomia destra/sinistra. Non sono d’accordo – come scrissi tempo fa su ‘Paradoxa’ – e posso anche dar ragione ai firmatari della protesta, che si tratta di materiali concettuali che alimentano il populismo. E con ciò? La ‘nouvelle droite’ va, per questo, denunciata alla magistratura dell’opinione pubblica?

 

Per de Benoist, l’omologazione capitalistica ha ucciso le ‘culture’: africani, asiatici, indiani sono stati sradicati in nome del dio Denaro e il cristianesimo, col suo universalismo suicida, ha contribuito, demonizzando il paganesimo, a distruggere la varietà del mondo. Questa idealizzazione della Gemeinschaft e della Kultur – criticabile, anzi, criticabilissima – comporta l’interdizione dei suoi autori dagli spazi pubblici? Finirà mai questa solfa dell’antifascismo?

 

 


 

Questo articolo è apparso sul sito di Arianna editrice con il titolo "Nostalgie totalitarie e censure ‘democratiche’"

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