Paul Gauguin, "Giorno di Dio", olio su tela, 1894 (foto via Wikimedia Commons)

L'arte della fuga

Ugo Nespolo

Scrittori, filosofi e artisti da sempre teorizzano la necessità di lasciare ciò che ci costringe per ritrovare noi stessi. Ma spesso il modo migliore per abbandonare tutto è tornare alle origini

Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione”. 

 

La teoria della fuga di Laborit tenta un ritorno alle origini, è un anelito verso le proprie radici con prospettive di possibilità creativelibero eu condimentum.

Questo scrive uno dei più grandi biologi del nostro secolo, Henri Laborit, medico e filosofo, pensatore profondo, irriverente. Candidato al Nobel nei primi anni Settanta, nel suo Elogio della fuga sviscera con un’analisi serrata gli atteggiamenti e i comportamenti umani condizionati pesantemente da ogni sorta di inibizione. La sua teoria della fuga spazia lontano e in profondo e quasi sempre tenta un ritorno alle origini, anelito verso le proprie radici più autentiche e con crescenti prospettive di possibilità creative. La strategia di Laborit è quella di evitare le vie maestre, le rotte troppo facilmente battute ma in realtà aride e infide, vuote di azzardo e rischio, per dirigersi – con coraggio e fatica – verso territori originali, inesplorati, quegli hic sunt leones avventurosi, lontani dai vincoli e dai condizionamenti asfissianti personali e sociali. Sono i ceppi che tutti conosciamo e patiamo, quelli che spesso ci inchiodano e opprimono per tentare di dirigerci con coraggio alla ricerca di una concreta rinascita, quasi un ritorno alle origini, azzeramento e tabula rasa capace di annientare costrizioni fisiche e spirituali. Fuga allora, ma quale e verso quale meta? Paradisi artificiali, silenzio o suicidio. Certo non convince quella proposta poi da Laborit, una straniante e piccola fuga nel mondo dell’immaginazione dove crede che “sottomissione e rivolta, dominanza e conservatorismo perderanno per il fuggitivo il loro carattere ansiogeno”.

 

A parlare d’immaginazione presto ci si esalta a credere e affermare che l’ambito più diretto, narrato e sentito dire sia quello che ha da fare con la creazione artistica vagheggiata come regno del viaggio libero senza confini e limiti. Ci si immagina un mondo in cui chi crea vuole dare l’idea d’esser arbitro unico del proprio fare. In realtà gli artisti vivono oggi un pesante senso di disorientamento. Sistema dell’arte tiranno assoluto, identificazione del valore col prezzo, vuoto di indicazioni teoriche e sparizione di ogni condivisione intorno a poetiche o manifesti.

 

Svanita per sempre la certezza che la modernità indicava nella nascita del nuovo come valore assoluto, quella modernità che Gianni Vattimo ha definito come la riduzione dell’essere al novum, la stessa per cui Pound urlava make it new e che Baudelaire invocava, è venuto meno anche il dogma del nuovo come progresso e cammino sicuro. Si parlava allora di una tradizione moderna: quell’insieme di atteggiamenti e credenze di un processo continuo che ha creato quasi una sorta di religione del futuro. Modernità come valori del presente e poi il dogma dell’avanguardia come coscienza storica del futuro in anticipo sui tempi. Fuga forzata dalle stringenti, dissolte certezze di modernità e di avanguardia, ci si è trovati a vivere nel paludoso mondo dell’everything goes.

 

Le fughe per eccellenza, nell'arte, sono quelle di Gauguin, del quale è in scena al Grand Palais a Parigi una spettacolare mostra

La convulsa era del postmoderno, termine che non stava a indicare soltanto – come dicevano i filosofi – la fine delle grandi narrazioni ma anche la rimozione della stessa certezza di base di tutte le operazioni. Si dice che mentre la modernità proponeva nuove finestre il postmoderno offriva solo vetri rotti. Il moderno agiva in nome dell’utopia e dell’autenticità, il postmoderno in fondo dichiarava che lo stile era quasi tutto. Saturi e nauseati dalle scontate e già viste variazioni della coda dell’illusione moderna, annoiati e confusi dal ferale tutto va bene di uno snervato postmoderno che ci ha privati persino della capacità di giudicare, viviamo oggi l’era di un’arte che testimonia il vuoto ed il superfluo. Si è davvero di fronte alla ricerca di una via di fuga, fuori dal ruolo dell’optional e del puro controvalore economico, lontani anche dall’idea antipatica di trasformarci in laudator temporis acti. Fuga che si propone come rocambolesca, quasi più di quella filmata da Don Siegel nel 1979 nel carcere di Alcatraz dove le possibilità di evasione e di vita nuova erano ridotte al minimo dei minimi. Affascinante l’idea – questa davvero una possibile fuga – quella che Antoine Compagnon celebra col suo raffinatissimo libro Gli Antimoderni, da Joseph De Maistre a Roland Barthes. Chi sono allora gli antimoderni? “Non tutti i campioni dello status quo, i conservatori, i reazionari di ogni sorta, non tutti gli ipocondriaci e delusi del proprio tempo, gli immobilisti e gli oltranzisti, gli accidiosi e i micragnosi, ma i moderni non entusiasti dei Tempi Moderni, del modernismo e della modernità, o i moderni che furono tali loro malgrado”. Antimoderni che sono in verità moderni in fuga, artisti il cui prototipo è rappresentato da Charles Baudelaire. Compagnon propone un elenco vasto nell’ambito della letteratura francese, quegli antimoderni che per essere tali dovevano aver attraversato il moderno ma che avevano voltato l’angolo verso il disincanto, la malinconia e l’autonomia.

 

Svanita la certezza, che la modernità indicava, nel nuovo come valore assoluto è venuto meno anche il dogma del nuovo come progresso

Più moderni dei moderni, eroi ultramoderni dell’antimodernità. Fughe antimoderne per chi guarda alle vie non imboccate dalla storia, per coloro che non giurano più sul progresso perenne, storia e progresso che paiono non aver più nulla da insegnarci. Artisti ormai per niente fiduciosi nelle promesse dell’avanguardia perenne e poco si fidano delle sicurezze illuministe e del positivismo. Compagnon ricorda come Milan Kundera in risposta polemica a quel “bisogna essere assolutamente moderni” di Arthur Rimbaud ribatteva: “Oggi il solo modernismo degno del termine è il modernismo antimoderno”. Sono fughe radicali e scomode, vocazioni da pagar care, Roland Barthes voleva essere alla retroguardia dell’avanguardia precisando che “essere d’avanguardia significa essere consapevoli che qualcosa è morto; essere di retroguardia vuol dire amarlo ancora”. Atteggiamento e gioco reso possibile fra molti altri da Filippo Tommaso Marinetti, Giorgio De Chirico, T.E. Eliot, Ezra Pound. Fuga allora come distacco – anche non fisico – rifiuto persino doloroso di una qualche comoda o scomoda certezza, tensione verso l’ignoto, vagabondaggio non sempre coronato dal successo di un ritorno sperato, una ripartenza desiderata. Fuga e peregrinazioni di Ulisse verso Itaca, disperato il vagare di Franz Tunda nella Fuga senza fine di Joseph Roth, tragica e senza ritorno la Fuga nelle tenebre di Arthur Schnitzler.

 

Il “tutto va bene” postmoderno ci ha privati della capacità di giudicare, viviamo l’èra di un’arte che testimonia il vuoto. Viene voglia di fuggire

Che la fuga poi voglia essere un ritorno, lo dimostra ampiamente la struttura dell’omonima composizione musicale o strumentale, quella che trae origine da un breve frammento melodico – il soggetto – subito ripreso da altre voci in un avviluppato intreccio polifonico che di solito si conclude con una sezione – chiamata stretto – costituita da successioni sempre più ravvicinate del tema che si sovrappongono quasi integralmente anche – in conclusione – a distanza di una sola nota. Fuga allora come inseguimento del tema e delle proprie mutevoli trasposizioni che a poco a poco rimontano verso la propria sorgente, la testa del tema. Si mette in opera il detto di Maria Stuarda, “Nel mio principio è la mia fine, nella mia fine il mio principio”. Non si tratta allora di fuggire, questo nobilissimo genere musicale può considerarsi piuttosto uno scavare nella profondità delle potenzialità del soggetto, proprio come sottolineava il suo antico nome di Ricercare.

 

In un recente incontro promosso dal Circolo degli Inquieti si cercò di approfondire il tema della fuga con lo scienziato Edoardo Boncinelli, e il filosofo Valerio Meattini. Gli atti dell’incontro sono stati raccolti e pubblicati da Mimesis Editore sotto il titolo di Arte Filosofia Scienza Assonanze e Dissonanze sulla Fuga. Meattini ricordava la fuga di Ettore davanti ad Achille e – si sa – la fuga in Egitto ma considerava sorprendente e dato battesimale per la sua peculiare dimensione culturale e filosofico-scientifica la fuga platonica nei luoghi, fuga verso i discorsi migliori. Già nel Fedone Socrate tratteggia la fuga dalla molteplicità e dalle opinioni fallaci, dai pregiudizi e dal semplice credere a qualcosa senza approfondito esame. Fuga “che è la dialettica, è il chiedere e il dar ragione di quel che si dice”.

 

Se la filosofia è in qualche modo una fuga dal pensare e sentire comune degli uomini anche la scienza moderna procede proprio come testimonia la lettera che Galileo scrive al Cardinal Barberini in cui ricorda di aver speso tutta una vita “per divergere dal trito e popolar sentiero degli studiosi”. Ce que je désire, c’ est un coin de moi-même encore inconnu”. Eccoci alle fughe di Paul Gauguin del quale è in questi giorni in scena al Grand Palais a Parigi una spettacolare mostra. Insofferente simbolo del perenne fuggitivo per abbandonare un mondo che lo nausea, il 4 aprile 1891 Paul Gauguin – a 43 anni – lascia Parigi per la Polinesia dove arriva in settembre e si trasferisce a 45 chilometri da Papeete a Mataiea. Un anno prima mentre al manicomio di Saint-Rémi Van Gogh lotta contro disperazione e follia Gauguin continua a vagheggiare di partenze, di prossime fughe e ne parlava a tutti ossessivamente al punto da diventare quasi poco credibile.

 

Proprio Vincent Van Gogh aveva scritto: “Credo e crederò sempre a un’arte da crearsi ai Tropici, credo sarà meravigliosa. Ma per conto mio son troppo vecchio (37 anni!) e di cartapesta per andarvi”. Gauguin se ne andrà – a 42 anni – appropriandosi di una delle idee capitali dell’Ottocento, il sogno di un possibile ritorno alle origini, una fuga laggiù dichiarando che “mucche, pollame frutta saranno la base del nostro vitto, e finiremo per vivere con niente, liberi”. Alla ricerca delle sognate origini è incerto se dirigersi verso il Madagascar che però poi giudica “ancora troppo vicino al mondo civile”, scrive a Redon: “Vado a Tahiti. Questa mia arte è ancora in germe e spero là potrò coltivarla per me stesso allo stato primitivo e selvaggio”.

 

Abbandonati moglie e figli a Copenaghen parte alla ricerca di una rinascita metafisica con in animo l’odio per un mondo maledetto. “Qui sono uno straniero, un indiano in esilio”. Françoise Cachin ricorda che solo dopo Rimbaud: “avrà il sublime candore di portare a compimento l’impresa”. “La sua partenza diviene un atto simbolico più che non intriso di simbolismo che già Paul Bourget aveva stigmatizzato alcuni anni addietro, fatta di mortale fatica di vivere, di nostalgia di un paradiso terrestre radioso di luce, di ribrezzo per un futuro autunnale e crepuscolare”. Gauguin aveva letto Une saison en Enfer che Rimbaud aveva pubblicato nel 1873 quando diceva: “Eccomi sulle sponde armoricane – si accendono le luci della sera. La mia giornata è finita: lascio l’Europa. L’aria di mare mi brucerà i polmoni, climi remoti mi abbronzeranno”. Gauguin vagheggia il paradiso tahitiano anche leggendo i resoconti di Pierre Loti. Un mese dopo la partenza da Marsiglia di Gauguin Arthur Rimbaud morirà nell’ospedale della stessa città.

 

Questa prima fuga tathitiana lo deluderà. Troverà un paese ormai non più così selvaggio e originale come aveva sognato. Incompreso in Polinesia dimenticato in patria dove ritorna per breve periodo nel luglio del 1893 per verificare amaramente quanto la sua opera sia poco amata e apprezzata. Torna due anni dopo a Tahiti e mai più rivedrà l’Europa. Gli restano otto anni di vita e gli ultimi quattro li spenderà ad Hiva Oa alle Isole Marchesi dove si stabilisce ad Atuona. Forse qui la sua fuga trova senso e pace nella potenza della natura selvaggia, nella calma della sua Maison du Jouir

Le fughe per eccellenza, nell’arte, sono quelle di Gauguin, del quale è in scena al Grand Palais a Parigi una spettacolare mostra

Fuga di un uomo inquieto che non nasconde il sogno di un ritorno possibile: “ritornerò con membra d’acciaio con pelle scura, con sguardo furente”. Morirà l’otto maggio 1903 a 55 anni. Sepolto nel cimitero di Atuona dove molti anni dopo sarà sepolto un altro grande fuggitivo, Jacques Brel, morto a 49 anni dopo essere anch’egli fuggito da Parigi. Noi, come dice Felice Cimatti, prediligiamo fughe sul posto e ben sappiamo che così si va per un viaggio da cui spesso è improbabile tornare redenti. Nonostante la terribile, continua fatica delle fughe Paul Gauguin finiva per dichiarare però che “il centro della mia arte è nel cervello…”. Privi di introvabili mete esotiche, soffocati dalla frammentazione delle direzioni da vivere, orfani di qualsiasi linea guida come possibile parziale salvezza, tentiamo almeno la fuga nel mai dogmatico e immaginifico mondo patafisico.

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